Uomini impegnati con la propria umanitá
Se uno non asseconda questo, in fondo «perde la vita vivendo».1 Questo è oggettivo, non è un problema di opinioni. Se uno non prende sul serio tutto il suo grido, tutta la sua voragine, come spiegheremo dopo, non riuscirà mai a trovare quello che lo può compiere e quindi si accontenterà delle briciole. Le briciole, il nulla! Briciole che non sono in grado di dare quella pienezza per cui uno può vivere, per cui desidererebbe vivere.
Dunque, la questione è: in che cosa consiste l’impegno con la propria umanità? Che cosa significa essere impegnati con la propria umanità?
1.- Come scoprire la propria umanità?
Con che cosa ci impegniamo? Con le nostre immagini?
Vi lancio una sfida. Se un figlio o uno studente vi chiede: “Come posso scoprire la mia umanità?”, avete cinque secondi per formulare una ipotesi di risposta. Da dove comincereste? Che cosa vi balena nella mente? Se non proviamo a rischiare davanti a queste domande, per poi verificare in un dialogo tra noi se la nostra risposta è adeguata o no, uno può cominciare a correre per poi scoprire che la strada era sbagliata. Chi ha un’ipotesi prenda nota, basta una riga, una parola. Che metodo ha seguito ciascuno di voi per rispondere a questa domanda? Che cammino, che ipotesi di strada è balenata nella vostra testa? Se ora vi domando: “Ditemi l’ipotesi”, c’è qualcuno che può dire qualcosa? Da dove comincerebbe a scoprire la propria umanità? C’è qualche coraggioso che vuole provare? Questo lavoro è solo per gli audaci! Impegnarsi con la propria umanità è solo per audaci!
INTERVENTO – Dal cuore, partirei dal mio cuore.
CARRÓN – Il cuore… con la parola «cuore» si possono fare tante minestre.
INTERVENTO – Intendevo dire dal mio desiderio.
CARRÓN – Il tuo desiderio, anche su questo devi fare la verifica di quello che dici. Se facessi questa domanda ai miei studenti in classe, li potrei prendere in giro per tutta l’ora, sfidandoli su quello che dicono. Tu hai detto una cosa giusta! Forse, forse. Ma se uno non arriva a rendersi veramente conto di ciò che dice, con le stesse parole può fare minestre diverse. Per esempio, tante volte il cuore può essere identificato con quello che immagini tu, con quello che ti viene in testa, con quello che un altro ti dice, con quello che hai visto nei tuoi compagni di cammino o con qualcosa che fanno altri. Per questo, per non lasciarci andare a tutte le immagini e le strade possibili, se vogliamo capire davvero che cos’è la nostra umanità, don Giussani dice: «Partire da se stessi».2 Tu hai colto un punto fondamentale: non si parte da altro, ma da noi stessi, guardando in faccia la nostra esperienza per cogliere gli aspetti costitutivi della nostra umanità che vengono a galla vivendo. Non è una introspezione. Tu scopri la tua umanità guardandola, sorprendendola in azione! «I fattori che ci costituiscono emergono dunque osservandoci in azione. È qui che appaiono gli elementi portanti di quello che è il meccanismo, il soggetto umano».3
Spesso invece noi partiamo da altro: un nostro pensiero, una immagine di come può compiersi la vita. Guardate i ragazzi: “Se vado a questa gita, sarà la fine del mondo! Se mi innamorassi, sarebbe una cosa strepitosa! Se andassi a questa festa, se potessi fare questo viaggio…”. Non è che la vita ti tratti sempre male, a volte ti concede che si avveri quello che desideri. Vi sarà capitato tante volte che la vita vi abbia risposto con un “sì” a caratteri cubitali? E quante volte, guardando la vostra esperienza, anche se le cose erano andate al massimo, vi siete scoperti a dire: “Non ci siamo, non basta”. Sì o sì?! Non occorre un master ad Harvard per riconoscerlo, basta semplicemente fare attenzione a che cosa succede osservandosi in azione! Ero convinto che se fossi andato a quella festa, se fossi riuscito a laurearmi, se mi fossi sposato, avrei risolto l’enigma della vita. È vero o no che quando si è realizzata una mia immagine, mi rendo conto che qualcosa mi era sfuggito, perché quell’immagine della vita non corrispondeva a tutta l’attesa documentata nel canto che abbiamo cantato all’inizio?4 La maggior parte delle volte noi non guardiamo questo, e continuiamo a riproporre, a fare tentativi che si sono già dimostrati fallimentari! Lo facciamo in continuazione. E così perdiamo la vita vivendo. Perché? Perché non impariamo niente dall’esperienza che abbiamo fatto: infatti, anche se abbiamo tutte le spie che ci avvertono che non basta ottenere quello che immaginiamo, continuiamo a cambiare immagine, sostituendone una dopo l’altra.
Allora, che cosa significa partire da noi stessi? Don Giussani ci avverte che «“partire da sé stessi” è una proposizione che può prestarsi a equivoci»5, come abbiamo visto. Non metto in discussione la buona intenzione di nessuno – per carità –, non metto in discussione che uno lo faccia sinceramente; ma che scopra la propria umanità è un’altra cosa! Perché tante volte identifico me stesso, il mio desiderio, il mio cuore con un’immagine che mi faccio. Il desiderio è sempre lì, ed è ciò che ti fa identificare quello che desideri con una immagine di ciò che dovrebbe soddisfarlo. Ma nella verifica, cioè quando si realizza la tua immagine, ti rendi conto che il tuo desiderio è sterminato! Se quando si rende conto di questo, uno non impara, continuerà a sbagliare fino a quando getta la spugna: cambia una cosa, ne cambia un’altra e un’altra ancora, finché compra un cane e così si accontenta. Capite perché si arriva allo scetticismo sulla vita?
Ma allora quando si parte veramente da sé stessi? «Partire da sé stessi è realistico quando la propria persona è guardata in azione, è osservata cioè nell’esperienza quotidiana».6 Cioè, quando, provando qualcosa, tentando qualcosa, vedi che si realizza e che cosa succede in te. Perché la festa può essere andata benissimo. Non c’è possibilità di recriminare che la festa è stata un fallimento, perché è andata da Dio! È andata molto meglio di tutte le immagini che te ne eri fatto. Ricordo sempre cosa è successo a un’amica pittrice di Barcellona. Qual è il sogno di una persona che dipinge? Esporre i propri quadri. Finalmente riesce a fare una mostra! Un successo al di là di qualsiasi previsione. E che cosa le capita? Passa tutto il pomeriggio piangendo. Qualcuno potrebbe pensare: “È un caso psichiatrico”, o forse no. Se è accaduto l’imprevisto del successo che tanto desiderava, perché questo non la soddisfa? Quando le cose non vanno uno può dire: “È andata male, ma il giorno che andrà bene sarà una bomba”. Il problema comincia quando ottieni quello che desideri! L’immagine di quello che desideri si realizza, eppure non basta! Allora cominciano i guai: se neanche quando la vita risponde al mio desiderio basta, allora che cosa basta? Capite perché uno piange? Non è che sia un caso psichiatrico, forse quell’amica pittrice si è resa conto di qual è la natura della questione e che scopre la propria umanità solo osservando la sua esperienza. Si è avverata l’immagine che aveva di compimento, non è una poveretta disgraziata perché la mostra è stato un fallimento totale, ma è andata alla grande! Ma non le basta, e allora piange.
Dice don Giussani: «Non esiste infatti un “io” o una persona astratta da un’azione che compie».7 Insisto, io mi scopro solo in azione. Tu puoi fare tutti i malabarismi, le acrobazie mentali possibili, ma la realtà ti inchioda: tu avevi un’immagine, questa immagine si è realizzata e non ti basta. Poi, puoi dare tutte le spiegazioni dell’uni- verso e raccontartela quanto vuoi, ma la realtà è più testarda di tutti i tuoi pensieri e dei miei. Quando ho scoperto questo io mi sono esaltato e mi dicevo: “Qui non posso scherzare, perché c’è qualcosa che smaschera, davanti ai miei occhi, l’immagine fallace che mi faccio. Io ho dentro di me qualcosa che non si arrende! Che io non posso manipolare! Che non posso ridurre a quello che penso!”. Per una persona che vuole camminare, questo è lo strumento più potente che possa avere. Allora ho cominciato a godermi la vita, perché mi dicevo: “Più rischio, più viene a galla se becco o no la risposta”. Così la vita comincia a essere un’avventura affascinante, perché ogni esperienza che fai è un cammino al destino, è un cammino per cercare di identificare qual è la risposta. Come raccontava un’amica ricercatrice. Nel corridoio dell’università si imbatte in una sua studentessa dottoranda che è tutta afflitta. “Che cosa ti è capitato?”, le chiede. E lei dice: “Sono triste, perché l’esperimento non è riuscito”. La mia amica si esalta: “Ma un esperimento è pur sempre un esperimento!”. Vale a dire, è un cammino.
Quest’estate ho avuto la fortuna di passare qualche giorno in vacanza con un amico che lavora con Elon Musk, e mi raccontava come Elon Musk ha battuto la NASA, l’agenzia spaziale degli Stati Uniti, per un problema di metodo. Avete visto da quanto tempo la NASA non manda un razzo nello spazio? Perché continuano a pensarci, a girare la testa, a rimandare. Elon Musk li ha superati solo sperimentando. Il giorno in cui falliva una spedizione non mollava, fino a quando identificava il motivo del fallimento. E quando gli abbiamo Veritate: “In hoc aliquis percipit se animam habere et vivere et esse, quod percipit se sentire et intelligere et alia huiusmodi opera vitae exercere”. Vale a dire: da questo uno capisce di esistere – di vivere – , dal fatto che pensa, sente e compie altre simili attività»,9 cioè essendo in azione! Sorprendendomi in azione, scopro me stesso.
Per questo, se uno non si impegna, se non verifica, non potrà scoprire le risorse della propria umanità! Non potrà scoprire sé stesso! E questo capita spesso. Per esempio, uno studente che non si impegna in una materia perché non gli piace, non potrà scoprire se è dotato per essa, perché lo può capire solo rischiando, impegnandosi a studiarla. Mi ricordo quando, poco prima di essere ordinato prete, ero andato in un piccolo paese dove c’era un mio amico prete con cui dovevo preparare un corso di Esercizi spirituali per un gruppo di ragazzi. Arrivando in quel paese, a novembre, con un freddo boia in chiesa, dove c’erano quattro gatti, mi sono detto: “Se mi mandano in un paese come questo, io muoio!”. Mai pensare queste cose, perché poi ti capitano! Infatti, tre giorni dopo la mia ordinazione mi hanno mandato proprio in quel paesino. Immediatamente uno si fa un’immagine, che porta a dire: “Vedi? Mi mandano lì e io ci muoio!”. Invece… sono stati tre anni bellissimi, come non avrei potuto immaginare! Altro che l’immagine che mi ero fatto dei quattro gatti in chiesa con un freddo boia! Perché? Perché i fattori costitutivi del mio io sono emersi vivendo. Le capacità, le possibilità che potevano venire fuori in quella situazione le ho scoperte, sono emerse alla mia coscienza, alla mia consapevolezza, solo vivendo. Se uno non fa questo lavoro, non potrà fare altro che sbagliare come me. Ma quando mi lamentavo di qualcosa un mio amico mi ricordava quell’episodio: “Ricordati quando hai pensato che saresti morto se ti avessero mandato in quel paesino e come invece sono stati anni bellissimi per te”. Quindi, se uno non rischia, non potrà capire sé stesso. «I fattori costitutivi dell’umano si percepiscono là dove sono impegnati nell’azione, altrimenti non sono rilevabili»,10 non emergono. Per giungere a questa consapevolezza io devo impegnarmi. Per questo possiamo dire che quanto più uno è impegnato con la vita, tanto più coglie la sua umanità.
Ma «essere impegnati con la vita non significa l’impegno esasperato con l’uno o l’altro dei suoi aspetti», per esempio il calcio, il lavoro, un hobby, perché «l’impegno con la vita non è mai parziale». Impegnarsi con la propria umanità è «l’impegno con la vita intera, nella quale tutto va compreso», è uno stare attento a come emerge la mia persona davanti all’amore, al lavoro, alla politica, al denaro, al cibo, al riposo, «senza nulla dimenticare»11 dell’esperienza della mia umanità. Perché solo impegnandomi con tutti gli aspetti del vivere emergono alla mia consapevolezza tutti i fattori di chi sono io.
Che cosa occorre perché questo avvenga? Guardare con simpatia la propria umanità. Non potremo capire chi siamo, se non la prendiamo sul serio. Se non prendiamo sul serio quello che proviamo, non possiamo scoprire che cosa siamo, di conseguenza continueremo ad avere un’immagine di noi che non corrisponde a quello che siamo veramente.
Che cosa succede quando uno si impegna così? Qual è il metodo, secondo quanto abbiamo detto e come tanti di voi hanno letto nel primo capitolo de Il senso religioso, dove don Giussani cita Alexis Carrel? «Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore. Molta osservazione [del mio io in azione] e poco ragionamento conducono alla verità».12 Non si tratta di mettersi a ragionare, analizzare o immaginare qualcosa della mia umanità, ma di identificare che cosa accade nell’esperienza. La prima cosa da fare per comprendere la nostra umanità è guardare e intercettare nella propria esperienza quotidiana – ciascuno avrà milioni di esempi – quante volte uno ha desiderato qualcosa, è andato dietro a una sua immagine e poi la realtà ha fatto emergere tutta la sua umanità. Il punto non è dire a sé stessi: “Adesso vado a impegnarmi con la mia umanità”, ma: “Osserva!”. Perché la pittrice ha sorpreso in azione la sua reazione, la sua umanità è venuta a galla non in astratto, ma nella realtà.
2. L’io-in-azione
Quali sono le caratteristiche dell’umano che emergono quando uno si osserva così, impegnato con la propria umanità? «Più scopriamo le nostre esigenze, più ci accorgiamo che non le possiamo risolvere da noi». Quanto più ci impegniamo tanto più ci accorgiamo che in tante occasioni quello che occorre risolvere, quello che noi cerchiamo, quello che noi desideriamo, non lo raggiungiamo. Per questo, «il senso di impotenza accompagna ogni seria esperienza di umanità».13 Non è che la pittrice non ce l’abbia messa tutta, o che io non ce l’abbia messa tutta andando in quel paesino, o il ragazzo rispetto alla festa. Ma l’unica cosa che l’impegno fa venire a galla è che con esso non risolvo la questione, infatti percepisco la mia impotenza a raggiungere quello che attraverso la mia iniziativa stavo cercando di ottenere.
«È questo senso dell’impotenza», osserva don Giussani, «che genera la solitudine. La solitudine vera non è data dal fatto di essere soli fisicamente, quanto dalla scoperta che un nostro fondamentale problema non può trovare in risposta in noi o negli altri». Allora cominciamo a renderci conto di qual è la natura del problema che emerge nell’esperienza: «Il senso della solitudine [perché quello che io cerco, quello che io percepisco in me non trova una risposta] nasce nel cuore stesso di ogni serio impegno con la propria umanità».14 Quanto più sono serio con me stesso, tanto più emerge la mia incapacità, e quindi l’esperienza della solitudine, che non ha niente di sentimentale. «Può capire bene tutto ciò chi abbia creduto di aver trovato la soluzione di un suo grosso bisogno in qualcosa o in qualcuno: e questo […] si rivela incapace. Siamo soli coi nostri bisogni, col nostro bisogno di essere e di intensamente vivere. Come uno, solo, nel deserto, l’unica cosa che possa fare è aspettare che qualcuno venga»,15 perché io non ce la faccio.
È questo che emerge nelle persone che più si impegnano con la propria umanità. Pensiamo a Leopardi e all’esigenza di significato che aveva dentro di sé: che tipo di esperienza umana avrà fatto per scrivere una cosa del genere? «Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo […] e sentire […] e sempre accusare le cose d’insufficienza [accusare le cose di insufficienza] e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia [perché non basta], pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana».16 Quello che per tanti è motivo di disperazione, per Leopardi è la scoperta della propria umanità. Niente ti basta perché tu sei infinitamente più grande! Non è un problema psicologico da risolvere. La scoperta della «insufficienza» di ogni cosa fa venire a galla chi siamo, qual è la nostra umanità. Di che cos’è costituito il nostro io della irriducibilità di quello che siamo. Leopardi lo chiama, con una frase felice, «misterio eterno / Dell’esser nostro»,17 che è quello che scopre Pavese il giorno del grande successo per il premio Strega «A Roma, apoteosi! E con questo?».18 Come dire: che cosa me ne faccio domani mattina? Vi è capitato di domandarvelo il giorno dopo un grande successo? Qui vediamo che ogni cosa è sproporzionata all’esigenza che emerge dalla propria umanità. Capite che se uno non ha un minimo di tenerezza con sé stesso, se non si guarda con questa tenerezza fino a vedere tutta la sua esigenza, sarà costretto costantemente a scappare da sé. Ma dove va? Pensi di poter scappare da te, senza di te? Puoi andare anche in capo al mondo, ma vai tu, con tutto te stesso! E quindi si riparte sempre da dove siete. Pensate a che cosa è successo durante il Covid: tutti abbiamo fatto esperienza di una impotenza. Chi una settimana prima avrebbe mai pensato che si sarebbe potuto bloccare il mondo? Per un piccolo virus, senza sapere che cosa fosse e quali dimensioni avrebbe avuto. Vedere morti e morti ci ha fatto sentire vicini gli uni agli altri, perché eravamo tutti sulla stessa barca, indipendentemente dal temperamento, dall’arrabbiatura degli uni e degli altri. Ricordate come tanti medici descrivevano quel che si generava tra di loro, davanti a questa emergenza? Una unità sorprendente. Ma appena finita l’emergenza, quasi neanche si salutavano nel corridoio. Passato il pericolo, venuto meno il senso della propria impotenza, quella unità non durava. Per questo, uno può sentire l’altro veramente vicino quando prende sul serio la propria umanità, altrimenti è un dialogo tra sordi, un dialogo che non trova l’altro o l’altro non trova me, così aumenta ancora di più la sensazione di solitudine.
Questo mostra che quanto più cresce la percezione di sé, tanto più emerge il criterio con cui noi giudichiamo tutto e verifichiamo quali sono le cose che ci soddisfano. È per questo che mi ha sempre stupito un testo di Ernesto Sabato, che dice: «Mi hanno rimproverato sempre il mio bisogno di assoluto», cioè la consapevolezza del mio bisogno sterminato! Come dicevano Leopardi e i geni come sant’Agostino, Pavese, Ernesto Sabato. «Mi hanno rimproverato sempre il mio bisogno sterminato di assoluto, che d’altra parte appare nei miei personaggi. Questo bisogno attraversa come un alveo la mia vita, meglio, come una nostalgia di qualcosa che non avrei mai raggiunto […]. Io non ho potuto mai placare la mia nostalgia, addomesticarla dicendomi che quell’armonia è esistita un tempo nella mia infanzia […]. La nostalgia è per me uno struggimento mai soddisfatto, il luogo che non sono mai riuscito a raggiungere. Ma è ciò che avremmo voluto essere, il nostro desiderio. È così vero che non si riesce a viverlo che potremmo credere perfino che risieda fuori dalla natura, se non fosse che qualsiasi essere umano porta in sé questa speranza di essere, questo sentimento di qualcosa che ci manca […]. La nostalgia di questo assoluto è come lo sfondo, invisibile, inconoscibile, ma con il quale confrontiamo tutta la vita».19
Non è innanzitutto un problema di fede, né un problema di decisione da prendere. È un problema dell’umano! Chiunque ha questa esperienza della propria umanità non potrà evitare, qualunque sia la posizione che prende nella vita (non è questo che mi interessa), qualsiasi cosa faccia, se sia credente, non credente, buddista, non potrà evitare di fare il paragone tra questa nostalgia di assoluto e qualsiasi cosa assaggi. Questo è decisivo per potere intercettare nel reale qualcosa che possa rispondere.
Qualche settimana fa sono andato a fare una passeggiata con un gruppo di amici. A un certo punto, la mamma di un ragazzo mi dice: “Sai cosa mi ha chiesto mio figlio? ‘Mamma, come si vive così?’”. Io le domando: “Ma questa domanda, da dove l’ha tirata fuori tuo figlio?”. “Ah, non lo so”. “Ma come?! Tuo figlio ti fa una domanda così e tu lo lasci andare senza cercare di capire?”. Lei mi dice: «Chiediglielo, è lì”. A un certo punto, lo intercetto: “Da dove ti è venuta questa domanda?” e lui mi risponde: “Guardando la mia mamma”. Allora io replico: “Ma ti rendi conto che la risposta a questa tua domanda ce l’hai davanti? Perché se tu non avessi visto la mamma, questa domanda neanche te la saresti sognata! Questa domanda è ti sorta perché hai visto una modalità di vivere la realtà che, nel panorama di tutto quello che vedi, piacerebbe vivere anche a te”. Quel ragazzo non ha frequentato un corso particolare, ma vivendo il dramma della sua umanità ha intercettato una presenza che gli è venuta una voglia matta di assecondare. Ma prima di assecondarla ha riconosciuto una diversità! Ha riconosciuto qualcosa dove trovava un barlume di risposta alla sua esigenza umana. Intorno a lui ci sono tanti altri modi di vivere che non gli hanno suscitato quella domanda!
Don Giussani descrive così questo fenomeno: «Nell’ambiente in cui siamo esistono di fatto persone che hanno una sensibilità maggiore a una esperienza di umanità, sviluppano di fatto [non in teoria, ma di fatto!] una comprensione maggiore dell’ambiente e delle persone, provocano di fatto più facilmente un movimento […]. Essi vivono la nostra esperienza più intensamente, più impegnati; ognuno di noi sente se stesso meglio rappresentato in loro»,20 e allora cerca la loro compagnia.
Riconoscere queste persone è un dono, come è capitato a quel ragazzo, che in mezzo alla confusione generale intercetta tra tanti volti un volto, in cui trova una modalità di vivere più adeguata, più corrispondente, più umana, per cui gli viene voglia di vivere così.
«Tali persone costituiscono naturalmente per noi un’autorità», una parola usata spesso in un modo ottuso, che non c’entra niente con quello che essa indica. È qualcosa che fa emergere la tua umanità, ti fa crescere e ti attira! «C’è un’attrattiva inevitabile in essa», perché vive un’umanità che piacerebbe a te vivere. «L’autorità sorge così come ricchezza di esperienza che si impone agli altri, genera novità, stupore, rispetto».21 Ma chi intercetta questo? Chi si è impegnato con la propria umanità e ha scoperto che non tutte le modalità di vivere sono adeguate e a un certo punto, si trova davanti una persona così, di fatto, come una sorpresa. Gli piacerebbe vivere così! «L’incontro con questa autorità naturale educa la nostra sensibilità e la nostra coscienza»,22 ci mostra che è possibile una modalità di vivere questa nostra umanità che è a portata di mano, perché lo vediamo in lei! È per questo che il ragazzo domanda alla madre: “Come si vive così?”. Quanto più uno vive intensamente la propria umanità, tanto più è sfidato da persone che vivono nella realtà, nelle stesse circostanze di tutti – non in convento o nel deserto –, con una intelligenza, con una capacità di stare nel reale, con una serenità, una pace, una letizia che si vedono! Non è qualcosa da immaginare, ma da vedere! Mi raccontava don Eugenio di una ragazza ammalata – lui fa incontri periodici con un gruppo di ammalati gravi – che non ci vede. Che cosa avrà percepito dell’umanità di un altro per arrivare a dire: “Io voglio morire quanto prima, andare con te all’altra riva, per vedere la tua faccia! Perché là non sarò più cieca”. Questa ragazza non vede, ma “vede” molto più di coloro che vedono con gli occhi! Tanto da desiderare di poter vedere la faccia dell’altro. Perché la vita si vede nella faccia, nel brillio degli occhi. Questa è ciò che chiamiamo “autorità”. Se non vi piace questa parola perché non è politicamente corretta, cancellatela; ma non potete cancellare che di fatto uno si imbatte in queste presenze. Il problema, allora, è se noi formuliamo le domande non a partire dall’immagine che ci facciamo, ma dall’esperienza in cui ci imbattiamo e davanti alla quale dobbiamo decidere se assecondarla o no. Questo è il nostro problema.
3. La nostra umanità non è un problema, ma una risorsa
Solo chi è impegnato con la vita può intercettare queste presenze, potrà avere la genialità umana per riconoscerle. Non si tratta di un qualche tipo di dote straordinaria, ma della propria umanità! Che emerge nella propria esperienza attraverso qualsiasi cosa viviamo. Se noi prendiamo consapevolezza di quello che dice Ernesto Sabato, se cresce la consapevolezza di noi stessi, acquisiremo la genialità per intercettare l’inizio di una risposta.
Tante volte, quando uno passa un momento di difficoltà, di disagio, di confusione, non sa da che parte girarsi e dopo mille pensieri si domanda: “Chi mi può dare una mano?”. Allora cerca, tra tutti coloro che conosce, uno che capisca qualcosa, che sia disponibile e abbia la capacità di abbracciare il suo umano come lui non è in grado di fare. Finalmente decide: “Vado da questo”. Incominciano a parlare e dopo venti minuti in cui con fatica ha provato a condividere il suo disagio, le sue preoccupazioni, si ferma e domanda: “Ma, mi capisci?”. E l’altro risponde: “Certo che ti capisco!”, ma lui capisce che quello non capisce un bel niente. Non basta il desiderio di capire per capire, non basta la disponibilità per capire, non bastano le buone intenzioni per capire un altro, o per sentirsi capiti. Noi siamo grati all’altro della sua disponibilità, ma non capisce quello che gli stiamo dicendo, da come reagisce a certe cose che gli diciamo ci rendiamo conto che non capisce. Perché? Perché noi non ci sentiremo mai capiti se non da qualcuno che abbia in sé qualche cosa di noi, qualche cosa dell’esperienza umana che è in noi. Se chi ascolta una persona non ha in sé qualcosa che in qualche modo lo avvicina all’esperienza dell’altro, può travisare il significato di qualsiasi parola. Per questo la solitudine cresce – oltre il danno la beffa! –, oltre a vivere una situazione di disagio, quando cerco di condividerla con qualcuno, quello non capisce. E non capisce non perché non abbia buona volontà o non sia disponibile, ma perché manca in lui la consapevolezza della esperienza umana, di conseguenza non è in grado di intercettare la mia esperienza umana che gli sto comunicando.
Capite, allora, perché la nostra umanità è una risorsa? Solo chi fa esperienza della propria umanità può intercettare il bisogno dell’altro attraverso i segni che vede, che sono come le spie dei problemi, delle questioni che stanno vibrando dentro quel ragazzo, quel figlio, quel collega o quell’amico. Per questo noi non possiamo impegnarci nell’educazione – se davvero vogliamo capire i ragazzi – senza impegnarci con la nostra umanità, che non è un ornamento. E non ce la caviamo facendo un corso, ma accompagnandoci a vivere la nostra umanità, perché senza questo, in mezzo a questa emergenza educativa – nostra e degli altri –, è meglio chiudere la baracca, perché perdiamo solo tempo e lo facciamo perdere anche agli altri. Se non vogliamo perdere il tempo vivendo, né farlo perdere agli altri, possiamo dare un contributo reale agli altri e intercettare il loro bisogno solo se viviamo la nostra umanità. Per questo tante cose che imparo vivendo, rimangono in me. Io le imparo dagli altri, le ripeto milioni di volte; e paradossalmente gli altri, da cui le ho imparate, non si rendono conto di che cosa è capitato loro. Ho avuto un dialogo con una mamma che mi raccontava le sue preoccupazioni lavorative, affettive, eccetera. Io cercavo di aiutarla a capire qual era il fondo della vicenda, il suo bisogno profondo e che questo non c’entrava con il lavoro o non lavoro, con il problema affettivo o non affettivo. C’era qualcosa di più profondo, ma, da come reagiva, mi rendevo conto che non riuscivo ad attraversare la ganga, la nebbia, l’ottusità che la bloccavano. A un certo momento, comincia a parlarmi della figlia che un giorno, tornando da scuola, le dice: “Mamma, la prof ci ha chiesto di che cosa abbiamo bisogno per essere felici. Sentendo tutti i miei compagni, io mi sono resa conto che a me in realtà non manca niente, mi sento voluta bene da te e da papà, non mi manca niente; ma io sono triste!”. Io le domando: “Tu hai qualcosa da dire a tua figlia? Ti rendi conto che se tu non capisci il tuo problema, non capirai neanche tua figlia?”. E in che cosa si vedeva che non capiva la figlia? Da quello che le ha detto: “Figlia mia, ma tu non sarai mai soddisfatta!”. Una mamma che dice questo alla figlia – mi addolora doverlo dire – non ha capito niente della propria vita. Non ha capito il fondo del problema della propria umanità.
Se noi cerchiamo di entrare in rapporto con i ragazzi o con i figli, sentire la nostra umanità, percepire la nostra umanità non è un orna- mento. Perché se noi non siamo impegnati con la nostra umanità, se non viviamo noi per primi questo impegno, non saremo in grado di interloquire con l’altro. Quella mamma, non avendo capito qual è il fondo del problema della sua umanità, non è stata in grado di cogliere quello che le diceva la figlia. Per questo è un dialogo tra sordi. Invece di far festa alla figlia perché finalmente emerge la consapevolezza della natura profonda del suo essere donna, del suo io mai soddisfatto, la rimprovera di non accontentarsi per quello che ha. Incredibile! È il dialogo tra sordi che viviamo spesso.
Per questo – insisto –, per poter capire l’altro occorre un’esperienza della propria umanità. Altrimenti non capiamo neanche i figli. Vorrei finire facendovi ascoltare due canzoni. La prima è di un film molto noto, Barbie, si intitola What Was I Made For?, “Per che cosa sono stata creata?”. Ascoltiamola.
Leggo la traduzione: «Ero solita galleggiare, ora cado e basta / Lo sapevo, ma ora non ne sono sicura / Quello per cui sono stata creata / Per cosa sono stata creata? / Facendo un giro, ero un ideale / Sembrava così vivo, si scopre che non sono reale / Solo qualcosa per cui hai pagato [ecco emergere la domanda, e se non trova risposta, la domanda riemerge] / Per che cosa sono stata creata? / Perché io, io / Non so come sentirmi / Ma voglio provare / Non so come sentirmi / Ma un giorno, potrei / Un giorno, potrei […] Quando è finito?
Tutto il divertimento / Sono di nuovo triste, non dirlo al mio ragazzo / Non è quello per cui è stato fatto [la solitudine. Neanche con il ragazzo, e così la domanda incalza] / Perché sono stata creata? / […] Perché io, perché io / Non so come sentirmi / Ma voglio provare / Non so come sentirmi / Ma un giorno, potrei / Un giorno, potrei / Penso di aver dimenticato come essere felice / Qualcosa che non sono, ma qualcosa che posso essere / Qualcosa che aspetto / Qualcosa per cui sono fatta / Qualcosa per cui sono fatta».23
Chi potrà capire una ragazza così? Questa canzone l’ascoltano tutti i vostri figli e i vostri studenti perché è il film del momento, ma chi potrà interloquire con loro? Questo è il vantaggio e il dono di essere un professore, di avere a che fare con i giovani, perché non ci consentono di mollare, potranno dircelo o non dircelo, ma stanno spiando se trovano qualcuno che risponda alla domanda di Barbie. In questo senso, sono un bene per noi; non una “disgrazia” che dobbiamo cercare di gestire, ma un bene che ci sfida. Se la partita non è a livello di quella domanda, potremo dare loro il massimo dei voti, ma se non rispondiamo, la partita è persa in partenza.
Mi ricordo ancora di una donna che faceva le pulizie in una scuola e a motivo del suo lavoro aveva un certo rapporto con i ragazzi, soprattutto con uno che era un disastro. Un giorno lo porta da me e dice al ragazzo: “Allora, che cosa dici?”. “Che combino solo guai”. Mi è bastato fargli questa domanda: “Ma tu sei solo questo?”. La donna e il ragazzo sono rimasti così stupiti che hanno cominciato a raccontarlo a tutti nella scuola. È bastata una domanda per ridestare in lui una coscienza di sé, lui che l’aveva ridotta a quella di uno che combinava solo guai. Ma i ragazzi sono molto più dei loro guai! Combinano i guai proprio perché non trovano risposta a quello che desiderano. È alla rovescia la questione: non confondiamo i sintomi con la causa, le conseguenze con l’origine. E se noi non ce ne rendiamo conto, cominceranno a sentirsi un “problema”.
Per questo vi faccio ascoltare un’altra canzone, di cui prima leggo il testo, che sostanzialmente dice: “Sono io il problema”. È di Taylor Swift, che spopola tra i ragazzi.
«Ho questa cosa per la quale divento vecchia, ma mai più saggia [uno può diventare vecchio, ma non saggio. Come si dice in spagnolo: uno può diventare marcio senza passare per maturo. Vecchio, ma mai saggio.] / Le mezzanotti diventano i miei pomeriggi / Quando la mia depressione fa il turno di notte, tutte le persone / Che ho nascosto stanno lì nella stanza // Non dovrei essere lasciata a me stessa / Arri- vano con i prezzi ed i vizi / Finisco in crisi / Mi sveglio gridando dal sogno / Un giorno, ti guarderò mentre te ne vai / Perché sei stanco dei miei complotti // Sono io, eccomi / Sono io il problema, [non gli altri] sono io //[…] [E per questo] Io guarderò direttamente al sole, ma mai allo specchio [perché nello specchio vedo me. Devo fuggire, potrei guardare tutto tranne me allo specchio] / A volte mi sento come se tutti fossero dei bimbi sexy / Ed io sono il mostro sulla collina [l’elefante nella stanza, potremmo dire…] / Troppo grande per uscire, barcollando lentamente verso la tua città preferita / Trafitta al cuore, ma mai uccisa / Hai sentito il mio narcisismo segreto che maschero da altruismo [si può mascherare di altruismo lo scappare da sé] / […] Un giorno ti guarderò mentre te ne vai / E la vita perderà ogni suo signi- ficato [quindi sono io il problema]».24 Ascoltiamola.
Questa è l’avventura affascinante in cui siamo implicati: che tipo di sguardo su di sé deve ricevere uno che si considera “il problema” per potere scoprire la sua dignità, la sua grandezza, perché possa cominciare a provare un istante di tenerezza verso sé stesso? Ma questo non si può insegnare ai ragazzi in astratto, ma guardando la nostra umanità, avendo noi tenerezza con noi stessi. Altrimenti, prevarrà la nostra reazione davanti all’uno o all’altro ragazzo. Quindi, se noi non mettiamo davanti agli altri l’attrattiva di uno sguardo che fa scoprire all’altro la propria umanità come la cosa più bella, più preziosa che ha, come quando ci sentiamo noi guardati così da qualcuno, non potremo mai dire a un ragazzo: “Tu non sei un problema!”, e sarà difficile – se non impossibile – interloquire con i ragazzi che sono alla ricerca di uno sguardo così. Per questo, buona avventura!
1 «Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo?», T.S. Eliot, Cori da “La Rocca”, Bur, Milano 2010, p. 37.
2 Luigi Giussani, Il senso religioso, Bur, Milano 2023, p. 46.
3 Ibidem
4 Pedro Pedreiro, testo e musica di Chico Buarque De Hollanda (1966); testo e tra- duzione sono riportati in appendice.
5 Luigi Giussani, op. cit., p. 46.
6 Ibidem
7 Ibidem
8 Ibidem
9 Ivi, pp. 46-47.
10 Ivi, p. 48
11 Ivi, p. 49.
12 Ivi, p. 3.
13 Luigi Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, p. 85.
14 Ibidem
15 Ivi, pp. 86-87
16 G. Leopardi, Pensiero LXVIII, in Poesie e prose, vol. 2, Mondadori, Milano 1980, p. 321.
17 G. Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna, in Cara beltà…, Bur, Milano 1996, p. 96.
18 Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1973, p. 360.
19 Ernesto Sabato, España en los diarios de mi vejez, Seix Barral, Barcelona 2004, pp. 178-179.
20 Luigi Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, op. cit., pp. 87˗88.
21 Ivi, p. 88.
22 Ibidem
23 I used to float, now I just fall down / I used to know but I’m not sure now / What I was made for / What was I made for? // Takin’ a drive, I was an ideal / Looked so alive, turns out I’m not real /Just something you paid for /What was I made for? // ’Cause I, I /I don’t know how to feel /But I wanna try /I don’t know how to feel /But someday, I might /Someday, I might // When did it end? All the enjoyment / I’m sad again, don’t tell my boyfriend /It’s not what he’s made for /What was I made for? // ’Cause I, ’cause I /I don’t know how to feel
/But I wanna try / I don’t know how to feel /But someday I might /Someday I might // Think I forgot how to be happy /Something I’m not, but something I can be /Something I wait for /Something I’m made for /Something I’m made for » (What Was I Made For?, testo e musica di Billie Eilish e Finneas Baird O’Con- nell, dall’album Barbie: The Album, 2023, © Atlantic Records).
24 «I have this thing where I get older but just never wiser / Midnights become my afternoons / When my depression works the graveyard shift / All of the people I’ve ghosted stand there in the room // I should not be left to my own devices / They come with prices and vices / I end up in crisis (tale as old as time) / I wake up screaming from dreaming / One day I’ll watch as you’re leaving / ‘Cause you got tired of my scheming / (For the last time) // It’s me, hi, I’m the problem, it’s me / At tea time, everybody agrees / I’ll stare directly at the sun but never in the mirror / It must be exhausting always rooting for the anti-hero // Sometimes I feel like everybody is a sexy baby / And I’m a monster on the hill / Too big to hang out, slowly lurching toward your favorite city / Pierced through the heart, but never killed // Did you hear my covert narcissism I disguise as altruism / Like some kind of congressman? (Tale as old as time) / I wake up screaming from dreaming / One day I’ll watch as you’re leaving / And life will lose all its meaning / (For the last time) // It’s me, hi, I’m the problem, it’s me (I’m the problem, it’s me) / At tea time, everybody agrees / I’ll stare directly at the sun but never in the mirror / It must be exhausting always rooting for the anti-hero // I have this dream my daughter in-law kills me for the money / She thinks I left them in the will / The family gathers ‘round and reads it and then someone screams out / «She’s laughing up at us from hell» // It’s me, hi, I’m the problem, it’s me / It’s me, hi, I’m the problem, it’s me / It’s me, hi, everybody agrees, everybody agrees // It’s me, hi (hi), I’m the problem, it’s me (I’m the problem, it’s me) / At tea (tea) time (time), everybody agrees (everybody agrees) / I’ll stare directly at the sun but never in the mirror / It must be exhausting always rooting for the anti-hero» (Anti-Hero, Taylor Swift, dall’album Midnights, 2022, ©Republic).
Intervento al convegno «EDUCATORI IN OPERA ovvero uomini IMPEGNATICON LA PROPRIA UMANITÀ», tenuto il 31 agosto 2023 e organizzato dalla Fondazione San Michele Arcangelo.
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