Destata la domanda, destato il cristianesimo

Carrón · Julián Carrón
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12 enero 2024
Quest’anno arriviamo al Natale in un contesto che ci è familiare. Non possiamo non averlo presente, se vogliamo capire qual è il nesso tra le sfide che stiamo vivendo a livello personale, sociale, globale, e questo annuncio che arriva a ciascuno di noi nella situazione storica concreta in cui viviamo.

1) Il vuoto dilagante

Per cominciare, se dovessi usare una parola per definire il momento che stiamo affrontando, userei la parola vuoto. Nella precedente Convention ci siamo detti che noi percepiamo i fattori costitutivi del nostro “io”, cioè della nostra persona, là dove sono impegnati nell’azione, altrimenti non sono rilevabili o vengono obliterati. Quanto più uno è impegnato con la propria vita, tanto più coglie in ogni singola esperienza quali sono i fattori della vita. Infatti chi più si impegna, più consapevolezza acquisisce del proprio bisogno. Stupisce con quale facilità le persone rilevano i fattori del proprio “io”, se sono attente. Ne è un esempio il cantante Marracash. Dopo un tour, in cui ha avuto un successo strepitoso, posta su Instagram un messaggio che riassume cosa è emerso alla sua consapevolezza di uomo dall’esperienza che ha fatto impegnandosi nel tour: «Il tour è finito e mi ha lasciato dentro un vuoto e un silenzio innaturali».[1]

Per sorprendere questo vuoto basta un occhio attento, come quello di Marina Corradi, che qualche settimana fa scriveva: «Certe domeniche a Milano. Milano la domenica è viva in centro, oppure nei colossi commerciali delle periferie che sono le nuove cattedrali. Ci vanno, in tanti, per comprare o anche solo per distrarsi con i bambini. Cercano di riempire di cose quel luogo che abbiamo in mezzo al petto, e che altrimenti, libero dall’ansia del lavoro, nei giorni festivi teme il vuoto».[2]

Qual è il luogo che abbiamo in mezzo al petto? Il cuore. Quando è libero dall’ansia del lavoro il cuore ha paura del vuoto. Lo diceva anche lo scrittore americano Wallace: «Fa veramente paura stare al mondo ed essere umani. […] Il volto che do a quel terrore è la nascente consapevolezza che nulla è mai abbastanza, mi spiego? Che il piacere non è mai abbastanza, che ogni traguardo raggiunto non è mai abbastanza. Che c’è una sorta di strana insoddisfazione, di vuoto, al cuore del proprio essere, che non si può colmare con qualcosa di esterno. […] E la sfida che ci si prospetta, in particolare, sta nel fatto che non c’è mai stata così tanta roba, e di qualità tanto alta, proveniente dall’esterno, che sembra tappare provvisoriamente quel buco, o nasconderlo».[3] Ma, in fondo, tutta quella «roba» è incapace di riempire il vuoto.

Questo vuoto non è semplicemente la registrazione di una carenza di qualcosa. La profondità di questo vuoto si svela davanti ai nostri occhi per le conseguenze che produce su chi lo vive. Lo documenta bene la cronaca quotidiana di violenza tra i giovani di cui apprendiamo sempre più spesso. Diceva Sergio Belardinelli dopo il fatto del ragazzo che ha ammazzato la sua ex fidanzata Giulia: «Di fronte ai ricorrenti episodi di violenza, di cui si rendono protagonisti giovani considerati fino a quel momento “come tutti gli altri”, […] si ha l’impressione di registrare un sussulto nell’opinione pubblica che sembra richiamare tutti, almeno per qualche giorno, ad una responsabilità cui forse non ci sentiamo più abituati […]. Ma questo non può bastare. […] Tanto è vero che il senso di vuoto continua a farla da padrone».[4] Vediamo come questo vuoto porti addirittura alla guerra; ma non si riesce a riempirlo neanche attaccando un altro Paese. Lo aveva anticipato George Orwell in 1984: «Lo colpì il fatto che ciò che veramente caratterizzava la vita moderna non era tanto la sua crudeltà, né il generale senso d’insicurezza che si avvertiva, quanto quel vuoto, quell’apatia incolore».[5]

Ma il vuoto e l’apatia di cui parla Orwell non dilagano così tanto da bloccare del tutto l’umano, anzi: lo documentano le domande che quello stesso vuoto scatena.

2) Le domande

Continua Marracash: «È incredibile come aspettare così tanto qualcosa, progettarla, provarla, metterla in atto e portarla a compimento abbia sempre un contraccolpo così pesante. Quello delle grandi imprese, quello di “e ora che faccio?”» (Instagram, 19 ottobre 2022). Sono le stesse domande che si fanno Bradley Cooper e Lady Gaga nella canzone Shallow: «Dimmi qualcosa, ragazza, sei felice in questo mondo moderno? O hai bisogno di più? C’è qualcos’altro che stai cercando? Sto precipitando. In tutti i bei tempi, mi ritrovo a desiderare il cambiamento. Nei momenti difficili, ho paura di me stesso. Dimmi qualcosa, ragazzo. Non sei stanco di cercare di riempire quel vuoto? O hai bisogno di più? Non è difficile resistere così tenacemente?».[6]

«Qualunque uomo ha momenti in cui sente il suo vuoto, la nostalgia di qualche cosa, l’amarezza di un’assenza», osserva don Giussani.[7] E Rilke dichiara: «Tutto cospira a tacere di noi».[8]

E come si cerca di far tacere la domanda che la realtà desta in noi? Ce l’ha indicato di recente, con una acutezza unica, Susanna Tamaro, che in un articolo ha scritto: «Chi ricorda la pubblicità di una nota compagnia telefonica di qualche tempo fa? “Ti diamo le risposte prima ancora che tu ti faccia le domande”. Ed è proprio questo il gravissimo stallo della nostra società: ricevere delle risposte prima di farsi le domande». Veramente tutto cospira contro le domande del cuore. Poi ne ha spiegato bene la vera radice: «L’assenza di cultura non è l’assenza di titoli di studio ma l’incapacità di farsi delle domande. La domanda costruisce – e costituisce – l’uomo. Un essere umano senza domande acquisisce la stessa fragilità che hanno gli ungulati quando rimangono separati dal branco: diventano una preda in balia del predatore di turno. Se non sappiamo chi siamo né dove andiamo, presto arriverà qualcuno che ce lo dirà, e noi gli saremo grati perché ci libererà dalla sensazione di insicurezza; saremo pronti ad aderire a qualsiasi fanatismo, a compiere ogni atto che ci verrà richiesto perché, non esistendo più un nord e un sud, un est e un ovest, un bene e un male, l’unica voce che saremo in grado di seguire è quella che ci impone di schierarci dalla sua parte; l’essere umano è per sua natura socievole e gregario, nel momento in cui il livello della coscienza etica si dissolve, viene inesorabilmente attratto dall’oscura forza del branco». Poi la Tamaro, citando un pensatore del calibro di Guardini, identifica il vero scopo del potere: «Nel 1962, Romano Guardini, il grande filosofo italo-tedesco, rifletteva con grande lucidità sul “Compito e destino dell’Europa”, partendo dagli effetti irrimediabili provocati dalla bomba atomica che aveva dato all’uomo il potere di distruggere sé stesso: “Ma, oltre alla bomba atomica, non vogliamo dimenticare quell’altra possibilità di esercizio di potere, cioè quello di penetrare nell’atomo umano, nell’individuo, nella personalità. […] Per questo è stata trovata una parola che sembra innocente: ‘il lavaggio del cervello’. È possibile cambiare in un uomo, contro la sua volontà, la maniera in cui lui vede sé e il mondo; le misure in cui misura il bene e il male; la condizione che egli, come persona, ha in sé stesso. Questa possibilità è stata attuata e sarà attuata sempre di nuovo – anzi, essa, come sollecitazione e propaganda, gioca già un ruolo nel vivere che si dice del ‘mondo libero’. […] Anche questa è una forma del potere umano, più sottile e meno drammatica, ma forse ancor più minacciosa che quella della bomba atomica”. Questa forza, profeticamente intravista sessant’anni fa, alla fine è esplosa […]. La persona non esiste più. Al suo posto è sorto l’individuo. […] La persona vive in un universo relazionale di apertura, sa porsi domande sulle realtà più inquietanti ed è impermeabile alle risposte automatiche».[9]

Si capisce perché, proprio per il compito che abbiamo ˗ prima di tutto di vivere tutte queste domande e poi di intercettarle nei talenti, gli studenti con cui siamo coinvolti ˗, Rilke ci invita a prendere sul serio le domande: «Cerca di amare le domande […]. E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora. Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga, di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta».[10] Per Rilke vivere la domanda è un dono suscitato dall’incontro con la realtà. Ma, come vediamo ˗ continua il poeta ˗, «forse ti sarà dato, senza che te ne accorga, di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta». Perché tenere desta la domanda non è immediato. Per questo gli viene dato di vivere fino al lontano giorno in cui riceverà la risposta alla sua attesa.

3) L’attesa

Proprio perché non conosciamo “quel” giorno, questo ci mette tutti in attesa, come scrive Emily Dickinson: «Non sapendo quando l’alba possa venire lascio aperta ogni porta» «Non sapendo quando l’Alba verrà, / Apro tutte le Porte».[11]

Diceva Benedetto XVI: «L’attesa, l’attendere è una dimensione che attraversa tutta la nostra esistenza personale, familiare e sociale. L’attesa è presente in mille situazioni, da quelle più piccole e banali, fino alle più importanti, che ci coinvolgono totalmente e nel profondo. Pensiamo, tra queste, all’attesa di un figlio da parte di due sposi; a quella di un parente o di un amico che viene a visitarci da lontano; pensiamo, per un giovane studente, all’attesa dell’esito di un esame decisivo, o di un colloquio di lavoro. Nelle relazioni affettive, all’attesa dell’incontro con la persona amata, della risposta a una lettera o dell’accoglimento del perdono… Si potrebbe dire che l’uomo è vivo finché attende, finché nel suo cuore è viva la speranza. E dalle sue attese l’uomo si riconosce. […] Ognuno di noi, specialmente in questo Tempo che ci prepara al Natale, può domandarsi: io, che cosa attendo? A che cosa, in questo momento della mia vita, è proteso il mio cuore?».[12]

Ciascuno lo ha potuto sorprendere ascoltando poco fa il canto “Lela”: «Senza te non posso, senza te non posso vivere». A chi avete pensato sentendo queste parole? È lì, sorprendendoci in azione, che si svela davanti ai nostri occhi da dove prendiamo le mosse per vivere.

La portata di questa attesa non si vede solo nelle piccole cose. L’attesa ci costituisce perché in tutto quello che noi facciamo cerchiamo qualcosa d’altro. Nessuno l’ha detto in modo così cristallino come Cesare Pavese: «Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità».[13] Come Marracash ha percepito tutta l’infinità del suo desiderio, tanto da sentire il vuoto, così anche Pavese, che quando ottenne il “Premio Strega”, annotò nel suo diario: «Hai anche ottenuto il dono della fecondità. Sei signore di te, del tuo destino. Sei celebre come chi non cerca di esserlo. Eppure tutto ciò finirà. Questa tua profonda gioia, questa ardente sazietà, è fatta di cose che non hai calcolato. Ti è data. Chi, chi, chi ringraziare? Chi bestemmiare il giorno che tutto svanirà?».[14] E il giorno della consegna dello Strega, aggiunse: «A Roma, apoteosi. E con questo?».[15] Si vede l’assoluta sproporzione tra quello che uno raggiunge ricevendo un premio così prestigioso e tutta l’attesa del suo cuore. Per questo Pavese scrive: «Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?».[16] Don Giussani commenta così queste parole del poeta: «Forse non ha pensato che l’attesa è la struttura stessa della nostra natura, l’essenza della nostra anima. Essa non è un calcolo, è data. La promessa è all’origine, dall’origine stessa della nostra fattura. Chi ha fatto l’uomo, lo ha fatto “promessa”. Strutturalmente l’uomo attende; strutturalmente è mendicante: strutturalmente la vita è promessa».[17]

Noi siamo strutturalmente attesa. Eppure spesso ci domandiamo: «Se attendiamo, si troverà risposta a questa attesa?». Vedendo la sproporzione tra il nostro tentativo e la profondità della nostra attesa, Karen Blixen ci suggerisce il perché possiamo attendere, certi di una risposta che arriverà: «Fino a oggi […] nessuno ha veduto gli uccelli migratori dirigersi verso sfere più calde che non esistono, o i fiumi dirottare attraverso rocce e pianure per correre in un oceano che non può essere trovato. Perché Dio non crea un desiderio o una speranza senza aver pronta una realtà che le esaudisca. Il nostro desiderio è la nostra certezza, e beati siano i nostalgici, perché torneranno a casa».[18] È proprio così. Ma tante volte lo diamo per scontato e ce ne dimentichiamo.

Se l’unica esperienza che facciamo è quella del nostro limite, perché desideriamo così tanto? Noi possiamo desiderare così tanto, ci ha ricordato Emily Dickinson, perché è Dio che suscita in noi questa attesa. Simon Weil aggiunge: «E se noi restiamo sordi, Egli torna e ritorna ancora come un mendicante. Per questo il tempo è l’attesa di Dio che mendica il nostro amore».[19] E Sant’Agostino scrive: «Dio con l’attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo, e dilatandolo lo rende più capace».[20] Lo rende più capace di accogliere la risposta, quando essa arriverà. Ma la maggioranza delle volte lo diamo per scontato. Infatti non è automatico che uno continui ad attendere, tanto è vero che vediamo dilagare lo scetticismo.

Attendere è l’occupazione dei santi. C’è un Altro che ci risveglia in continuazione. Per questo «il nostro desiderio è la nostra certezza». Così, l’attesa diventa per noi come un grido. Ascoltiamo adesso questo grido in una canzone di Demi Lovato, Anyone. È un grido antico come l’umanità. Già i greci dicevano: «Mandaci, o padre Zeus, il miracolo di un cambiamento».[21] È un grido che risuona ancora oggi con la stessa e forse con maggiore drammaticità del passato.

Demi Lovato, Anyone

I tried to talk to my piano

I tried to talk to my guitar

Talked to my imagination

Confided into alcohol

I tried and tried and tried some more

Told secrets ‘til my voice was sore

Tired of empty conversation

‘Cause no one hears me anymore

A hundred million stories

And a hundred million songs

I feel stupid when I sing

Nobody’s listening to me

Nobody’s listening

I talk to shooting stars

But they always get it wrong

I feel stupid when I pray

So, why am I praying anyway?

If nobody’s listening

Anyone, please send me anyone

Lord, is there anyone?

I need someone, oh

Anyone, please send me anyone

Lord, is there anyone?

I need someone

I used to crave the world’s attention

I think I cried too many times

I just need some more affection

Anything to get me by

A hundred million stories

And a hundred million songs

I feel stupid when I sing

Nobody’s listening to me

Nobody’s listening

I talk to shooting stars

But they always get it wrong

I feel stupid when I pray

Why the fuck am I praying anyway?

If nobody’s listening

Anyone, please send me anyone

Lord, is there anyone?

I need someone, oh

Anyone, please send me anyone

Oh, Lord, is there anyone?

I need someone

Oh, anyone, I need anyone

Oh, anyone, I need someone

A hundred million stories

And a hundred million songs

I feel stupid when I sing

Nobody’s listening to me

Nobody’s listening

 

Questa canzone mi sembra descrivere bene il dramma che viviamo noi e tanti dei nostri talenti, che cercano di esprimerlo, chi col pianoforte, chi con la chitarra, chi fuggendo nell’immaginazione o nell’alcol. Confessa la cantante: «Sono stanca di conversazioni vuote perché nessuno mi ascolta più. […] Cento milioni di storie, cento milioni di canzoni e mi sento stupida quando canto [perché] nessuno mi sta ascoltando. Nessuno sta ascoltando. Parlo con le stelle cadenti, ma non capiscono mai. […] Per favore, mandami qualcuno Signore».

C’è qualcuno che può cogliere la densità di questo grido, la profondità di questa richiesta? Quante volte vediamo il dramma nostro, degli adulti e dei ragazzi più giovani, quando non trovano un interlocutore all’altezza del loro grido. Per questo si ripete il grido che viene dal passato, dai profeti ai grandi della letteratura greca e latina: «Mandaci, Signore, qualcuno, abbiamo bisogno di qualcuno».

4) Solo la pienezza può rispondere al vuoto

Questo Qualcuno ˗ ecco l’annuncio del Natale ˗ è venuto: Dio ha risposto a questo grido. Ma tutti sappiamo che cosa è diventato il Natale e come ha perso il suo significato. Per la stragrande maggioranza non significa più niente. Per altri è qualcosa di sentimentale o un’occasione per fare business. Per altri ancora un ricordo del passato. Ciascuno può scegliere l’interpretazione più adeguata.

Oggi noi siamo immersi in tutto quello che vediamo succedere intorno a noi e che ci riguarda. E qual è la situazione? Come diceva il cardinale Ratzinger: «Venute meno ormai tante certezze che nei secoli passati non erano messe in discussione, gli uomini non considerano più certo ciò che non è sperimentalmente dimostrabile e la Parola di Dio appare loro come qualcosa di incerto e inaccessibile, un relitto dei secoli passati».[22] Mi raccontava questa settimana una professoressa che, mentre cercava di parlare di Gesù, si è sentita chiedere: «Ma è esistito veramente?». Siamo a questo livello. È stato impressionante quando con alcuni talenti ho provato a vedere dove loro, che non hanno le certezze dei secoli passati, si trovano a cercare un senso della vita. Li avevo visti alla scoperta di se stessi. Volevano ancora prendere sul serio le domande, perché avevano bisogno di vivere con se stessi. Alcuni dei loro coetanei si rivolgevano all’astrologia, ai tarocchi o a qualche guru per cercare una risposta.

In questa situazione, la fede, il Natale, ha ancora possibilità di avere successo? Sì, ancora può essere interessante, perché nell’uomo rimane un grido, un vuoto, una attesa o, come diceva Ratzinger, una «inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito».[23]

Può essere che tutti questi tratti del nostro tempo siano necessari e addirittura diventino ˗ paradossalmente ˗ una risorsa per riscoprire il vero senso del Natale. Per mostrare tutta la portata di ciò che annuncia, il cristianesimo ha bisogno di incontrare l’umano che vibra in ciascuno di noi. Ne ha bisogno per poter mostrare tutta la sua verità, tutto il suo potenziale di risposta al buio e al vuoto, alla domanda e all’attesa della gente di questa epoca.

Insisto, il vuoto, la domanda, l’attesa, il grido diventano paradossalmente decisivi per recuperare il senso del Natale. Malgrado le certezze del passato siano state messe in discussione e rifiutate, nel cuore dell’uomo, creato a immagine di Dio, permane un grido che cerca Dio. Cerca quel Dio che solo riempie un cuore capace di infinito e che può trovare riposo soltanto in un amore infinito. Per noi e per i nostri talenti, vivere immersi in questa situazione è necessariamente una disgrazia o può essere una opportunità? Abbiamo visto come i talenti, avendo domande sul senso della loro vita, stiano aspettando di trovare qualcuno che possa intercettare il loro dramma, qualcuno con cui entrare in rapporto.

Come ripeteva spesso don Giussani, citando Reinhold Niebuhr: «Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone».[24] Se noi annunciassimo il cristianesimo e non ci fosse alcuna domanda nei nostri interlocutori, il nostro annuncio non avrebbe presa su di loro. Non possiamo passare sopra queste circostanze, evitandole. Sono proprio le circostanze che viviamo ˗ in cui appare tutto questo deserto di senso e insieme il grido del cuore ˗ che permettono che l’annuncio venga percepito. Qui sta il valore dell’annuncio cristiano, come diceva Ratzinger in modo spettacolare anni fa: «La risposta che il messaggio cristiano dà alla domanda sull’umana esistenza presuppone precisamente questa domanda; il messaggio cristiano si può intendere e si può quindi esperire nella sua autenticità soltanto dove in precedenza la domanda sulla condizione umana sia stata sofferta come domanda. La vitalità della risposta cristiana (vitalità non retoricamente, ma essenzialmente intesa) esige quindi fondamentalmente l’esperienza vitale della domanda; l’annuncio cristiano non può che ricevere continuamente da questa domanda la sua vita e la sua realtà nell’umanità. Per questo motivo, da un lato deve essere destata la domanda, dall’altro lato il messaggio cristiano si deve continuamente lasciar ridestare dal reale interrogarsi dagli uomini su se stessi». Solo allora la risposta potrà trovare ascolto. Continua Ratzinger: «Il “dialogo” [come quello che abbiamo avuto con i nostri talenti mercoledì scorso], quindi, sarà sempre prima di tutto e sostanzialmente un prendere sul serio la ricchezza e la profondità dell’umano interrogarsi. [Solo perché un talento viveva una situazione drammatica ha fatto attenzione a quello che un professore diceva a lezione]. Infatti tale partecipazione a tutta la passione della condizione umana [questo è infinitamente più efficace di un accorgimento pedagogico o di una strategia per raggiungere i giovani], e perciò alla domanda che l’essere umano come totalità significa, è necessaria affinché il messaggio resti sempre se stesso nelle diverse circostanze».[25] Solo così l’annuncio cristiano potrà diventare di nuovo interessante.

Che acutezza aveva don Giussani quando già decenni fa diceva: «Noi cristiani nel clima moderno siamo stati staccati non dalle formule cristiane, direttamente, non dai riti cristiani, direttamente, non dalle leggi del decalogo cristiano, direttamente: siamo stati staccati dal fondamento umano, dal senso religioso. Abbiamo una fede che non è più religiosità. Abbiamo una fede che non risponde più come dovrebbe al sentimento religioso [e al dramma delle persone]; abbiamo una fede cioè non consapevole, una fede non più intelligente di sé».[26] Una fede che non risponde al senso religioso diventa un formalismo, un’abitudine noiosa che non avrà durata; così può diventare anche il Natale oggi. Se il cristianesimo non è incontrato e percepito come risposta all’attesa del cuore, non interesserà a nessuno.

Per questo, fin dall’inizio don Giussani sintetizzò tutto il contenuto del suo tentativo tra i giovani ˗ che noi cerchiamo di assecondare ˗ con queste parole: «Mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita e, quindi – questo “quindi” è importante per me –, dimostrare la razionalità della fede, implica un concetto preciso di razionalità. Dire che la fede esalta la razionalità, vuol dire che la fede corrisponde alle esigenze fondamentali e originali del cuore di ogni uomo».[27]

Don Giussani ha sempre avuto presente la situazione umana nel formulare sua proposta e nella modalità di parlare con i suoi interlocutori. All’inizio di una delle sue opere fondamentali, All’origine della pretesa cristiana, dice: «Nell’affrontare il tema dell’ipotesi […] della rivelazione cristiana, nulla è più importante della domanda sulla reale situazione dell’uomo. Non sarebbe possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo [e quindi il Natale] se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo infatti si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome».[28]

Questo ci consente di cogliere la portata del senso di vuoto, della domanda e dell’attesa rispetto alla possibilità di scoprire la ragionevolezza della fede, che non è un ornamento o contenuto di una strategia. Tutti i tratti del nostro umano, se ne prendiamo coscienza, ci impediscono di ridurre Gesù a un puro nome, appiccicato alla vita, a un formalismo incapace di mostrare la sua pertinenza alle esigenze della nostra umanità che grida e attende. Senza la consapevolezza della nostra umanità, anche il Natale diventa formale, è svuotato del suo significato e ridotto a ricordo del passato che non c’entra con la nostra vita di oggi.

Per questo ho detto all’inizio che noi non possiamo parlare del Natale in una situazione come quella in cui viviamo senza prendere consapevolezza del rapporto che c’è tra questa situazione e l’annuncio cristiano. Altrimenti il nostro sarà un dialogo tra sordi. Vuoto, domanda e attesa esprimono l’urgenza di trovare una risposta oggi. Abbiamo bisogno di qualcosa di presente che risponda, come i nostri talenti documentano. Non basta l’annuncio verbale e formale di un fatto del passato. Come diceva Benedetto XVI, «il semplice enunciato del messaggio non arriva fino in fondo al cuore della persona»,[29] non riesce a toccare il cuore.

Questo capovolge lo sguardo sul vuoto. Solo se si capisce il senso di questo vuoto, esso potrà svelare la sua natura: non esprime un difetto della nostra umanità, ma un’attesa drammatica di Qualcuno che lo riempia. Per questo, solo chi trova la risposta potrà esclamare: «Ah, adesso capisco perché avevo quel vuoto dentro!». È come quando uno incontra la persona amata. Solo quando la incontra capisce: «Ah, per questo sentivo quella urgenza, quel desiderio!». È facilissimo riconoscerlo, quando accade, a condizione che non si lasci perdere l’attesa, il desiderio, il senso di vuoto, se si vuole intercettare la risposta e la portata di quella presenza: «Adesso capisco perché è valsa la pena essere nato, adesso capisco che cosa, chi mi mancava così tanto!».

Non manca un’idea, non manca un pensiero. Manca una presenza in grado di riempire il vuoto con una pienezza che va oltre qualsiasi immaginazione. Solo chi è consapevole delle dimensioni del vuoto che ha dentro può capire la portata della risposta cristiana. Cristo si pone come risposta al vuoto che avverto dentro di me. Nel suo disegno misterioso Dio ha creato un essere con tutto questo vuoto dentro, con questo desiderio sterminato, con questa mancanza incolmabile (diceva Luzi: «Di che è mancanza questa mancanza, cuore?»[30]), per poterlo riempire della Sua presenza.

Questo è il senso del Natale. E solo chi ha questa attesa potrà capire quando Lui arriva. Solo così Dio può renderci partecipi della Sua pienezza inviando Suo Figlio. Come dice il Concilio: «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo».[31] Quando duemila anni fa si imbattevano nella Sua presenza, in tutta la Sua pienezza, affermavano: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».[32] Solo allora capirono per quale pienezza erano stati creati. Anche noi siamo stati creati per questo.

Cristo mostra chi è non con un discorso, non con istruzioni per l’uso, non con una lezione. Dimostra chi è quando riempie il cuore, quando riempie il vuoto con la Sua presenza. La risposta al vuoto non è una parola, non è una spiegazione. È una Presenza che riempie la vita, che le dà pienezza. L’unica risposta al vuoto, l’unica sfida al vuoto è la pienezza. Diceva don Giussani: «Per farsi conoscere, Dio è entrato nella vita dell’uomo come uomo, secondo una forma umana, così che il pensiero, l’immaginatività e l’affettività dell’uomo sono stati come “bloccati”, calamitati da Lui».[33] E in un altro testo scrive: «Il cristianesimo presenta così il suo grande “inconveniente”: che esige “degli uomini” per essere inteso e vissuto. Uomini: cioè quel livello della natura in cui essa acquista coscienza di sé. Tutta la natura del vuoto, di tutta la domanda, l’urgenza di significato, di tutta l’attesa. Se l’umanità non vibra [davanti all’incontro cristiano] non c’è persuasività di discorso religioso che possa tenere. Non ha altra “arma” il cristianesimo [che questa]: l’essere umano che vive come tale, e che si rinnova, e che fa sbocciare la sua umanità rinnovata in una realtà sociale nuova».[34]

5) Come può vibrare oggi la nostra umanità?

La nostra umanità può vibrare oggi davanti all’annuncio del Natale, se il cristianesimo riaccade come “avvenimento”. Se uno si imbatte in una presenza, come vediamo nei nostri talenti e come accadde ai pastori, che duemila anni fa si imbatterono nella presenza di quel bambino. Allora come oggi: «L’avvenimento di Cristo diventa presente “ora” in un fenomeno di umana diversa: un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita [come il cenno di un professore in classe: un presentimento; all’inizio non c’è niente più di questo: solo un presentimento. Non la verità manifestata, ma un presentimento che spinge i ragazzi a parlare con quel professore], qualcosa che aumenta la possibilità di certezza, di positività, di speranza e di utilità del vivere e lo muove a seguire. Gesù Cristo, quell’uomo di duemila anni fa, si cela, diventa presente, sotto la tenda, sotto l’aspetto di una umanità diversa. L’incontro, l’impatto, è con un’umanità diversa, che ci colpisce [e ci interpella] perché corrisponde alle esigenze strutturali del cuore [alla nostra attesa] più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia: non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile, non è reperibile altrove. La diversità umana in cu Cristo diventa presente sta propriamente nella maggior corrispondenza, nell’impensabile e impensata maggiore corrispondenza di questa umanità in cui ci imbattiamo alle esigenze del cuore ˗ alle esigenze della ragione».[35]

Continua don Giussani: «Quest’imbattersi della persona in una diversità umana è qualcosa di semplicissimo».[36] È come innamorarsi, con il presentimento che una persona sia significativa per la propria vita. Ma l’innamorarsi è solo un pallido riflesso di quello che è l’incontro cristiano. Senza di esso, tutto il resto lascia il tempo che trova. Lo domando di nuovo: che cosa abbiamo pensato ascoltando Lela? Che cosa attendiamo? Basta che ciascuno lo confessi a se stesso. È facilissimo, come diceva Giussani citando l’allora cardinale Ratzinger: «Poiché in realtà noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza».[37] Accade così quando incontriamo qualcosa, qualcuno che stavamo desiderando. E quando uno vi si imbatte, dice: «Ti stavo aspettando; dove eri prima, come ho potuto vivere senza di te?».

Il cristianesimo non è stato un avvenimento solo all’inizio. Non è che poi è cambiato il metodo perché ci si è organizzati per farlo continuare. Questo semmai avrebbe portato il cristianesimo a non essere più interessante. Se non riaccade oggi come avvenimento ˗ esattamente come il primo giorno ˗, non c’è sviluppo. L’imbattersi nella presenza di una umanità diversa non avviene solo all’inizio, ma in ogni momento che segue l’inizio. Un anno, vent’anni dopo, il metodo non cambia. Ascoltiamo don Giussani: «Il fenomeno iniziale ˗ l’impatto con una diversità umana, lo stupore che ne nasce ˗ è destinato a essere il fenomeno iniziale e originale di ogni momento dello sviluppo. Perché non vi è alcuno sviluppo se quell’impatto iniziale non si ripete, se l’avvenimento non resta cioè contemporaneo».[38]

Dov’era la vita nuova duemila anni fa? Che cos’era la vita nuova a cui introduceva quella Presenza? «Ma tu che cosa desidereresti di più?», domandano a un ragazzo che sta diventando il moroso di una ragazza: «Io desidero stare con lei». La vita nuova coincide con lo stare con lei. «Duemila anni fa la vita nuova era stare con la Sua presenza», che dava un «sentimento di libertà, di consistenza del proprio io!».[39], inimmaginabile. Così uno si trova ad avere una tenerezza verso se stesso che altrimenti non si sognerebbe neanche. Se questo non succedesse in noi incontrando Cristo, Lui rimarrebbe «un puro nome». Non interesserebbe alla nostra vita.

Invece quando Lo lasciamo entrare, diventa un fattore della nostra vita, penetra nelle nostre viscere, dentro l’esperienza che stiamo facendo. Questa è la promessa del «centuplo», come diceva Sant’Agostino: «Quando potrò aderire a Te con tutto me stesso, niente sarà per me pena e fatica, e sarà viva tutta la mia vita, piena di Te. Ma ora che non sono pieno di Te, sono un peso a me stesso: perché chi riempi di Te, Tu lo sollevi».[40]  Anche noi abbiamo in questo la verifica: se il cristianesimo è un’esperienza che solleva la nostra vita. Se ci interessa tutto quanto stiamo dicendo, è solo per portare l’annuncio della Sua presenza dentro la vita, per potere rispondere a tutte le esigenze di questa vita che quotidianamente taglia le gambe, per rispondere al dramma dei nostri talenti. Ma solo se lo viviamo noi per primi, possiamo comunicarlo ˗ lo porteremo sul volto ˗ e gli altri lo intercetteranno. Come? Imbattendosi in qualcosa di nuovo che compie la vita riempiendola di letizia.

Papa Francesco ci ha ricordato recentemente che «il messaggio cristiano, come abbiamo ascoltato dalle parole che l’angelo rivolge ai pastori, è l’annuncio di “una grande gioia” (Lc 2, 10). E la ragione? Una buona notizia, una sorpresa, un bell’avvenimento? Molto di più, una Persona: Gesù! Gesù è la gioia. È Lui il Dio fatto uomo che è venuto da noi! La questione, cari fratelli e sorelle, non è dunque se annunciarlo, ma come annunciarlo, e questo “come” è la gioia. O annunciamo Gesù con gioia, o non lo annunciamo, perché un’altra via di annunciarlo non è capace di portare la vera realtà di Gesù».[41]

Come dice la liturgia ambrosiana: «Renderò evidente la Mia presenza dalla letizia del loro cuore».[42]

 

*Intervento nel  Convention fondazione San Michele Arcangelo,  22 dicembre 2023

 

[1] Instagram, 19 ottobre 2022.

[2] M. Corradi, «La sfida della solitudine. Per cosa bisogna vivere», Avvenire, 16 novembre 2023.

[3] «L’ultima confessione di Foster Wallace», la Repubblica, 9 settembre 2011.

[4] S. Belardinelli, «Il baratro di questo mondo», Il Foglio, 29 novembre 2023.

[5] G. Orwell, 1984, Oscar Mondadori, Milano 1983, p. 97.

[6] Lady Gaga e Bradley Cooper, Shallow, dall’album A Star Is Born, 2018, © Interscope Records.

[7] L’io rinasce in un incontro, Bur, Milano 2010, p. 247.

[8] Cfr. R.M. Rilke, «Elegia II», vv. 42-44, in Liriche, Sansoni, Firenze 1942, p. 379.

[9] S. Tamaro, «Stiamo diventando incapaci di porci domande», Corriere della Sera, 11 novembre 2023.

[10] R.M. Rilke, «Lettera al giovane poeta Franz Kappus», 6 luglio 1903.

[11] E. Dickinson, Tutte le poesie, J1619 (1884) / F1647 (1884).

[12] Benedetto XVI Angelus, I Domenica di Avvento, 28 novembre 2010.

[13] C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1973, p. 190.

[14] Ibidem, p. 341.

[15] Ibidem, p. 360.

[16] Ibidem, p. 276.

[17] L. Giussani, Il senso religioso, Bur, Milano 2023, p. 71.

[18] Cfr. K. Blixen, Capricci del destino, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 50˗51.

[19] S. Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1972.

[20] Sant’Agostino, Commento alla Prima lettera di Giovanni, 4,6: PL 35, 2009.

[21] Cfr. Al Dio ignoto. Preghiere degli antichi, Rizzoli Bur, Milano 1998, 47.

[22] J. Ratzinger, L’insegnamento del Concilio Vaticano II: formulazione, trasmissione, interpretazione, Opera Omnia 7/1, Città del Vaticano 2016, p. 116.

[23] J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, p. 143.

[24] Cfr. R. Niebuhr, Il destino e la storia. Antologia degli scritti, Bur, Milano 1999, p. 66.

[25] J. Ratzinger, L’insegnamento del Concilio Vaticano II: formulazione, trasmissione, interpretazione, Opera Omnia 7/2, Città del Vaticano 2019, pp. 419-420.

[26] L. Giussani, «La coscienza religiosa nell’uomo moderno», Chieti 1986, in A. Savorana, Vita di don Giussani, Bur, Milano 2014, p. X.

[27] L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, pp. 20˗21.

[28] L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p. 3.

[29] Benedetto XVI, Incontro con i vescovi del Portogallo, Fatima, 13 maggio 2010.

[30] M. Luzi, «Di che è mancanza…», in Sotto specie umana, Garzanti, Milano 1999, p. 190.

[31] Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22.

[32] Mc 2,12.

[33] L. Giussani ˗ S. Alberto ˗ J. Prades , Generare tracce nella storia del mondo, Bur, Milano 2019, p. 36.

[34] L. Giussani, «Nota per la seconda edizione» in C. Martindale, Santi, Jaca Book, Milano 2018, p. 28.

[35] L. Giussani, «Qualcosa che viene prima», in Dalla fede il metodo, Coop. Edit. Nuovo Mondo, Milano 1994, pp. 39˗40.

[36] Ibidem, p. 40.

[37] Il Sabato, 30 gennaio 1993.

[38] L. Giussani, «Qualcosa che viene prima»…, cit., p. 40.

[39] Luigi Giussani agli Esercizi spirituali degli universitari di Comunione e Liberazione, Riva del Garda, 5 dicembre 1976, in «Nessun dono di grazia più vi manca», «Tracce Litterae Communionis», 2021, n. 9.

[40] Agostino, Confessioni, X.

[41] Francesco, Udienza generale, Piazza San Pietro, 15 novembre 2023.

[42] Confrattorio della IV Domenica d’Avvento ambrosiano, in Messale Ambrosiano, op. cit., p. 78.


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