Taylor o la secolarizzazione come opportunità
Per Taylor, l’era secolare, con i suoi molti limiti, offre l’opportunità di una ricerca libera. Un quadro secolare può, paradossalmente, favorire l’emergere della questione dell’identità del sé in assenza di convinzioni religiose condivise. L’opportunità viene persa quando si difende una posizione tradizionalista. La modernità, per Taylor, non è qualcosa di intrinsecamente negativo che deve essere combattuto.
Di fronte al fenomeno della secolarizzazione ci sono solitamente due posizioni. Quella dei nostalgici che lamentano la scomparsa di un mondo in cui Dio era presente e quella dei trionfalisti che ritengono che l’uomo si sia finalmente liberato da Dio. Taylor rappresenta una «terza via»? Perché?
Credo che il pensiero di Taylor rappresenti una ‘terza via’ rispetto alle polarizzazioni alle quali oggigiorno siamo sempre più assuefatti e che riflettono la grande difficoltà, da parte della cultura occidentale contemporanea, a immaginare un mondo non intrappolato nella dialettica di tesi-antitesi. Per il filosofo canadese, entrambe le prospettive, sia quella che celebra l’avvento della secolarizzazione come un’esperienza di liberazione dall’autorità ecclesiale e da credenze ritenute oscure, sia quella che la valuta come una perdita irreparabile di verità e di valori fondamentali, non sarebbero altro che due facce della stessa medaglia. Tanto i “nostalgici” del passato, quanto coloro che accolgono il fenomeno della secolarizzazione come una liberazione da vincoli ritenuti inaccettabili, non sono in grado di riconoscere come essa non consista nel ‘venire meno’ di alcune credenze, ma in una nuova, originale forma di autocomprensione da parte dell’essere umano. A giudizio di Taylor, la modalità attraverso la quale oggi facciamo esperienza del mondo e concepiamo noi stessi risulta comprensibile solo alla luce di grandi mutamenti culturali, di nuove concezioni del sé, dell’agire umano, del tempo e della società generati nell’ambito della modernità occidentale. Risulta pertanto evidente, per usare le sue stesse parole, che “la strada giusta da imboccare non è né quella raccomandata dai lodatori a ogni costo, né quella favorita dai detrattori totali” dal momento che “tanto i lodatori quanto i detrattori hanno ragione, ma in una maniera cui non può rendere giustizia un semplice compromesso tra vantaggi e costi” (Taylor, Il disagio della modernità). Occorre piuttosto investigare i beni irrinunciabili individuati nel corso della modernità (come la libertà, l’autonomia, l’autenticità), interrogarsi circa la loro origine, chiedendosi perché essi rappresentino un punto di riferimento essenziale per l’uomo d’oggi. Solo in tal modo sarà possibile comprendere il significato dei cambiamenti avvenuti e intervenire per favorire lo sviluppo di tali valori, correggendone gli eventuali limiti. Senza la consapevolezza di tali cambiamenti non è possibile pervenire alla comprensione critica dell’identità dell’uomo contemporaneo.
Per Taylor la secolarizzazione è un’opportunità? Perché? Solo la secolarizzazione può salvarci?
Per Taylor la secolarizzazione non è caratterizzata né da un’origine determinista (secondo la quale i progressi scientifici avrebbero inevitabilmente fatto cadere ‘il velo’ della religione), né da un esito inevitabile (la ‘fine’ della religione). Il fenomeno della secolarizzazione, che non può essere ridotto a un’alterazione di credenze o di pratiche, va interpretato nell’alveo di una ricerca di significatività e di pienezza da parte dell’essere umano. A giudizio del filosofo canadese, infatti, l’uomo non può che vivere all’interno di ‘orizzonti di senso’ ineludibili. Di tale ricerca sono protagonisti tanto i credenti, quanto i non credenti. Non è certo un caso che, oggigiorno, tra credenti e non credenti si possa creare un’alleanza e un cammino comune del tutto imprevisti e imprevedibili. L’età secolare, accanto a molteplici limiti, offre l’opportunità di una riscoperta profonda dell’identità umana e della sua irriducibilità: qualsiasi contesto culturale, sociale e politico non è in grado di alterare l’essenza della persona come apertura al significato e come capacità di riconoscere il vero, il buono, il giusto e il bello.
Nella cornice occidentale di epoca contemporanea, inoltre, l’adesione a una fede religiosa non è ascrivibile a un condizionamento sociale o politico: questo elemento favorisce (anche se non ‘garantisce’) l’adesione alla fede sulla base di una libera scelta, che implica – a sua volta – l’esercizio di un giudizio e di una responsabilità personali. In tal senso, la presenza di una cornice secolare può paradossalmente favorire l’emergere della questione identitaria del sé a motivo dell’assenza di convinzioni religiose condivise, mentre fino a pochi decenni or sono tutto ciò avrebbe potuto comportare forme di esclusione sociale difficilmente tollerabili.
Affermare che la secolarizzazione sia un’opportunità non significa credere che automaticamente o necessariamente lo sia. L’apertura da parte della libertà del singolo soggetto alla ricerca e al riconoscimento del vero e del bene gioca un ruolo fondamentale all’interno di questa possibilità.
La secolarizzazione non racchiude in sé alcun potere ‘salvifico’, così come nemmeno nessuna ‘fede’ può salvare l’uomo a prescindere dall’implicazione della sua libertà. Taylor non tace le importanti conseguenze negative della secolarizzazione, nonché molti pericoli che permeano il mondo contemporaneo, identificati principalmente nell’individualismo, nell’eclisse dei fini, nella perdita della libertà politica. Il filosofo canadese non intende avallare in alcun modo qualsiasi esito della cultura moderna e secolarizzata, riconoscendo come in essa vi sia “molto di ammirevole”, così come “molto di degradato”: comprendere il rapporto tra questi due aspetti, a suo giudizio, “significa rendersi conto che la questione non è quanto alto sia il prezzo da pagare (in termini di conseguenze negative) per i frutti positivi, ma piuttosto come pilotare questi sviluppi verso le loro più promettenti potenzialità, e come evitare di scivolare nelle forme degradate” (Taylor, Il disagio della modernità).
Cosa intende Taylor quando parla di «cercatori di senso»?
‘Cercatore di senso’ è qualsiasi uomo che non baratterebbe la ricerca di significato nella propria vita con alcun bene materiale né con alcuna certezza che non venga acquisita per mezzo dell’esperienza, grazie a un percorso libero e tramite una valutazione formulata in prima persona. Si tratta, quindi, di una ricerca che coinvolge sia i credenti, sia i non credenti e che non si configura secondo i termini di un’indagine puramente intellettuale. Essa, piuttosto, assume il carattere di un ‘viaggio’ integralmente umano, spesso attraversato dal dubbio e dall’incertezza, verso un ‘oltre’ capace di conferire direzione, senso e gusto all’umano vivere. I ‘cercatori di senso’ sono coloro che hanno la pazienza di ‘stare’ nella domanda senza la fretta di giungere a una ‘risposta’ nel senso illuministico del termine (ossia a una formulazione dottrinale che non nasce dalle viscere del soggetto incarnato), in quanto consapevoli che nella domanda ‘abita’ già la risposta. I ‘cercatori di senso’, inoltre, confrontandosi tra loro a partire dalle specificità che li contraddistinguono, condividono momenti importanti del loro viaggio personale, in quanto animati da interrogativi ed esigenze tra loro analoghe, capaci di creare relazioni di amicizia radicate nella ricerca di significato con persone che spesso non si identificano nei loro ambiti di provenienza originari.
Perché i tradizionalisti reagiscono contro i «cercatori di senso»?
Ciò che è noto con il nome di ‘tradizionalismo’ non indica tanto una posizione culturale o un assetto politico, quanto un atteggiamento della libertà alla quale l’essere umano è perennemente esposto: la sicurezza e la certezza vengono riposte in una tradizione pregressa (reale o presunta) che richiede di essere continuamente riconfermata nei suoi contenuti ritenuti perenni e immutabili, nella sua ritualità (anche se di carattere esclusivamente laico) e nel suo assetto etico-normativo. Taylor dedica un’attenzione particolare a quest’ultimo elemento e, riprendendo il pensiero di Iris Murdoch, afferma che la morale in epoca contemporanea non si focalizza su ciò che è bene essere ed è bene amare, ponendo invece un accento quasi esclusivo su ciò che è giusto fare. Si tratta di una tendenza trasversale, che non interessa solo l’ambito della fede: se gli interrogativi di senso aprono a un lavoro di autocomprensione e di ermeneutica del mondo in cui viviamo (quindi, inevitabilmente, ‘costringono’ ad attraversare l’incertezza e ci pongono di fronte alla possibilità dell’errore), un sistema di norme da seguire ci garantirebbe una maggiore ‘sicurezza’, ci ‘proteggerebbe’ dagli sbagli, avrebbe il pregio di offrirci una conoscenza basata sulla chiarezza e sull’evidenza di procedure alle quali adeguarsi senza un coinvolgimento eccessivo da parte del soggetto agente. Quest’ultimo, inoltre, rispettando i codici etici di riferimento, si sentirebbe dalla parte del ‘giusto’, confinando chi rifiuta tali codici alla condizione del ‘peccatore’ da redimere, o perfino del ‘nemico’ da combattere. La dinamica del capro espiatorio trova le sue radici più profonde proprio nel primato della nomolatria a scapito della ricerca di senso. Quest’ultima non disdegna in alcun modo il valore della giustizia, ma afferma che non c’è alcuna regola precostituita che possa sostituire l’essere umano nella sua capacità di valutare e di riconoscere il bene. La ricerca del senso vede il primato della ragion pratica (la phronesis aristotelica), della libertà, delle relazioni interpersonali con gli ‘altri significativi’, i quali possono collocarsi tanto all’interno del proprio gruppo di appartenenza, quanto al di fuori. Al contrario, il tradizionalismo è caratterizzato da un radicale individualismo antropologico: le relazioni interpersonali non manifestano un carattere sostanziale, ma offrono piuttosto l’occasione e lo strumento per riconoscersi all’interno del gruppo, il cui nucleo identitario è appunto garantito da un insieme di dottrine e di norme alle quali adeguarsi per poter continuare a far parte di esso. In tal senso il ‘tradizionalismo’ incarna molte derive della modernità: la nomolatria, il nominalismo, l’individualismo, il potere privo di autorevolezza, il volontarismo etico. La tradizione autentica, al contrario, può essere vissuta e riscoperta solo alla luce dell’apertura nei confronti di un presente che la sfida e ne permette un costante sviluppo, come già argomentava John Henry Newman nel XIX secolo.
Perché Taylor non è d’accordo con MacIntyre quando invoca un «ritorno alle origini»?
Secondo MacIntyre per vivere da uomini bisogna essere inseriti in alcune pratiche di vita condivise che consentono di ottenere dei beni umani fondamentali. Li chiamiamo ‘beni umani’ in quanto realizzano le caratteristiche proprie di ogni uomo, e corrispondono ultimamente a quelli che Aristotele chiama ‘fini’, che si realizzano quando si incarnano le virtù morali. Quali siano questi beni umani si comprende in concreto sempre all’interno di comunità in cui fini e beni sono condivisi perché la loro ragionevolezza si definisce continuamente nel confronto reciproco delle opinioni alla luce della verità.
La visione di MacIntyre muove da una critica della modernità a partire dalle crisi morali che essa oggi esprime. MacIntyre rifiuta radicalmente la modernità perché essa ha formulato dei modelli di vita astratti e teorici, che si esprimono in precetti e norme fine a sé stesse. In questo senso, egli vede nel liberalismo la manifestazione più eloquente che maschera con una teoria astratta il conflitto irriducibile delle preferenze individuali, nascondendo di fatto la realtà di un dominio dei più forti, di chi ha più potere. A suo giudizio è tuttavia possibile resistere a questa pratica: ancora oggi si può recuperare il modello di etica ispirato ai beni umani autentici e alle virtù, che nei secoli passati animava strutture sociali e politiche, ma che è tuttora presente nella vita di piccole comunità, spesso ma non solo di ambito locale.
Taylor, pur provenendo da esperienze giovanili analoghe a quelle di MacIntyre e a tratti condivise da entrambi nel loro impegno politico, non accetta una visione ‘manicheistica’ della modernità, ossia non vede la modernità come qualcosa di intrinsecamente negativo da combattere e sovvertire o alla quale semplicemente resistere in attesa di condizioni migliori. A livello politico, poi, la sua è una riflessione che muove dalla situazione di società democratiche liberali e pluralistiche (Taylor è stato attivamente impegnato nella politica del suo paese, il Canada). Per questo motivo, egli non pensa di potersi riferire come MacIntyre a una cornice come quella aristotelica o della società cristiana medievale, perché di fatto le nostre società non condividono più una concezione religiosa e teorica unitaria di riferimento. Quello che, invece, i due autori condividono è la rilevanza della persona e della libertà. La proposta di Taylor, tuttavia, non è eclettica o relativistica: egli trova piuttosto un riferimento di ragionevolezza etica e di politica condivisa all’interno della dinamica di adesione libera e consapevole a cammini di conoscenza, di appartenenza volti alla pienezza del proprio essere.
Qual è la proposta di Taylor per un «patriottismo repubblicano» che sostenga la vita democratica?
Il patriottismo sostenuto da Taylor non ha nulla a che spartire con visioni politiche esclusiviste o perfino settarie, basate sull’omogeneità etnica, religiosa o culturale, ma consiste in un legame di solidarietà, all’interno della comunità sociale e civile, costituito sulla base di una comune impresa. Alla radice di qualsiasi società, dalla più ristretta alla più estesa, esistono delle ‘we-identities’, esiste un ‘noi’ che rappresenta il senso e il valore ultimo di quello stesso legame. Tale unità originaria viene continuamente alimentata da beni ritenuti irrinunciabili, che in tal senso vengono definiti ‘comuni’. Se, quindi, in una società esistono beni pubblici o convergenti (ed è fondamentale che ve ne siano) come, ad esempio, la difesa nazionale o risorse di pubblica utilità, la stessa società non può sussistere senza beni comuni essenziali per il conseguimento della vita buona sia come singoli cittadini, sia, al contempo, come soggetti appartenenti a un ‘noi’. L’appartenenza a un ‘noi’ è fondamentale per la realizzazione del singolo cittadino; in tal senso per Taylor non esistono beni individuali che non siano, al tempo stesso, beni comuni. Il filosofo canadese riprende quindi il valore dell’amicizia aristotelica in un’ottica di solidarietà che si colloca a fondamento della moderna vita democratica. Il repubblicanesimo di Taylor non ha nulla a che vedere con il laicismo e nemmeno con un proceduralismo liberale, dal momento che la libertà repubblicana si caratterizza per essere ‘libertà di’, piuttosto che ‘libertà da’. Se la prima descrive un ideale di bene comune nutrito dall’attiva partecipazione, da parte dei cittadini, agli affari pubblici, la libertà negativa si configura come una difesa dell’interesse privato radicato in una prospettiva atomistica. Lo stesso atomismo, alla prova dei fatti, non è tuttavia in grado da offrire una solida base alla vita democratica, più che mai assetata di un senso del vivere e del con-vivere.
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