Quando tutto sembra «contro»… come si fa a vivere?*
DON MARCELLO BRAMBILLA
Buonasera a tutti. Iniziamo questa sera il ciclo dei nostri incontri quaresimali, come è tradizione per questa parrocchia. Il tema che abbiamo deciso insieme a Don Eligio, anche sotto la pressione delle notizie sempre più incalzanti che ci assalgono, è: Quando tutto sembra contro, come si fa a vivere? È venuto fuori poi il percorso che faremo: questa sera con don Julián Carrón, che ringraziamo, la volta prossima ci troveremo con padre Ielpo che ci racconterà della Terra Santa e come si fa a vivere lì in quella situazione, e poi con Silvio Cattarina che è un grande uomo, nostro amico, che ha fondato una Comunità per tossicodipendenti, e anche lì, in quella situazione: come si fa a vivere? E poi don Leonardo Poli, un sacerdote di una zona alluvionata della Romagna, della cui testimonianza siamo rimasti molto colpiti l’anno scorso.
Perché abbiamo invitato don Julián? Perché quando abbiamo scelto questo tema, abbiamo pensato a lui. Se c’è una cosa che io ho imparato, che noi abbiamo imparato, è che le circostanze sono amiche. L’abbiamo imparato da lui che ogni persona è un bene per noi, e allora gli abbiamo chiesto di aiutarci ad affrontare questo tema. La sua presentazione è un po’ difficile perché sarebbe molto lunga, dico solo che è un teologo, biblista, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; mi colpisce molto che è anche insegnante in un Istituto professionale paritario, che è una bella sfida! E, comunque, segno di un impeto educativo non da poco.
La serata è molto semplice, la domanda l’abbiamo già fatta: Quando tutto sembra contro, come si fa a vivere? Alla fine, ci sarà spazio per domande assolutamente libere, non c’è niente di preparato, prendete il microfono e si interloquisce. Grazie.
DON JULIÁN CARRÓN
Buonasera a tutti, grazie per questo invito a condividere questa serata all’inizio della Quaresima. Già il fatto di dover preparare un intervento su questa domanda, mi ha fatto riflettere. È sempre un bene per me essere provocato con una domanda come quella che avete scelto per questa serie di incontri: Quando tutto nella vita sembra contro, come si fa a vivere? Quando siamo colpiti da una circostanza avversa – non occorre fare l’elenco, ne abbiamo tutti negli occhi – in cui abbiamo la percezione di non farcela, ciascuno può farsi questa domanda con un velo di scetticismo, come aspettandosi che, quando tutto va contro, in realtà non sia possibile farcela. Sembra che la risposta sia già scontata, sembra sia difficile rispondere in un modo diverso. La prima cosa che ho pensato è: «E se invece, proprio quando tutto va contro, fosse l’occasione di sorprendere di più, più facilmente, come si riesce a vivere?!». Il contrario! Perché, la realtà, le circostanze sono costantemente una provocazione che ci chiama a stare davanti, che ci costringe, quasi, a stare davanti! Tante volte non decidiamo noi le circostanze, l’abbiamo visto con il Covid in modo spettacolare, lo vediamo in tante situazioni personali, familiari, sociali che ci chiamano a prendere posizione. Nel prendere posizione davanti a una provocazione che, quanto più è sfidante più ci costringe perché non la si può evitare, possiamo accettarla, oppure ritirarci cercando di risparmiarcela, o almeno illudendoci di potercela risparmiare. Vivere la vita come vocazione, come risposta a qualsiasi provocazione, significa vivere la vita attraverso tutte le circostanze che ci capitano. Possiamo camminare verso il destino, che è la nostra vita, solo abbracciando queste circostanze per arrivarci.
Mi ha sempre colpito a riguardo una frase di don Giussani che ho ripetuto tante volte. Perché dico che una circostanza o una provocazione come quella che viviamo, a qualsiasi livello, può facilitare la risposta alla domanda Come si fa a vivere? Dice don Giussani: «Un individuo che avesse vissuto poco l’impatto con la realtà [fosse stato troppo poco sfidato] perché, ad esempio, ha avuto ben poca fatica da compiere, avrà scarso il senso della propria coscienza, percepirà meno l’energia della vibrazione della sua ragione» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p.139). Invece, quando assecondiamo le sfide, cioè accettiamo di non ritirarci e di guardarle in faccia, esse provocano la ragione, ciascuno di noi a dare il meglio di sé! E quindi a far crescere l’autocoscienza, a far venire fuori energie, intuizioni, modalità di stare nel reale che non ci sognavamo di avere. È da qui che comincia già a cambiare l’atteggiamento dell’essere scettici o sconfitti prima di cominciare la partita, perché ci consente di ingaggiare una lotta con qualche speranza di riuscita. Tutto quello che noi siamo, emerge alla nostra consapevolezza proprio quando siamo provocati! Tante volte infatti rimaniamo senza parole nel vedere persone che, quando tutto crolla, fanno venire fuori il meglio di sé.
Lo abbiamo visto tutti in un personaggio noto, a Sanremo, in un luogo dove sembrerebbe che non potessero capitare queste cose. «All’improvviso mi è crollato tutto [sembrerebbe che la partita sia finita] non suono più il pianoforte davanti ad un pubblico da quasi due anni. Nel mio ultimo concerto, alla Konzerthaus di Vienna, il dolore alla schiena era talmente forte che sull’applauso finale non riuscivo ad alzarmi dallo sgabello. E non sapevo ancora di essere malato. Poi è arrivata la diagnosi, pesantissima. Ho guardato il soffitto con la sensazione di avere la febbre a 39 per un anno consecutivo. Ho perso molto, il mio lavoro, i miei capelli, le mie certezze, ma non la speranza». Come ha potuto, quando tutto è crollato, non aver perso la speranza? Che cosa ha fatto per rispondere alla domanda: «Come si fa a vivere?» in una situazione così? Anzi, non semplicemente non ha perso tutto, ma: «Era come se la malattia mi porgesse, assieme al dolore, degli inaspettati doni». Tutto letterale, perché è quello che ha detto davanti a tutti. Colpisce che quando tutto crolla, può diventare l’occasione di percepire la realtà come dono! Quello che abbiamo davanti ci sembra spesso già saputo, dato per scontato, ma quando all’improvviso lo vediamo a rischio, diventiamo consapevoli fino a che punto è dato, “dono”! Che cosa occorre per prendere consapevolezza? Occorre avere attenzione a dettagli che possono sembrarci insignificanti, da passare quasi inosservati, ma che all’improvviso acquistano un valore tale da portarci a scoperte inaspettate. Come una «poltrona vuota» si rivela piena di significato. «Quali doni?» si domanda questo musicista. «Vi faccio un esempio… Non molto tempo fa, prima che accadesse tutto questo [la malattia], durante un concerto in un teatro pieno, ho notato una poltrona vuota [avrebbe potuto guardare tutto il pieno. No, va a fissarsi su una poltrona vuota e questo determina tutto!]. Come, una poltrona vuota?! Mi sono sentito mancare! Eppure, quando ero agli inizi, per molto tempo ho fatto concerti davanti a un pubblico di quindici, venti persone ed ero felicissimo!». Come mai? Che cosa è successo per aver perso la freschezza dell’inizio? Perché lo sguardo sul reale degli inizi, così puro da renderlo felicissimo, da godersela alla grande, era venuto meno fino al punto di sentirsi mancare al vedere una poltrona vuota in un teatro strapieno?
La malattia, paradossalmente, gli ha ridonato lo sguardo sorpreso, stupito, dell’inizio: «Oggi… dopo la malattia, non so cosa darei per suonare davanti a quindici persone». Com’è possibile che una simile situazione possa portarlo a recuperare uno sguardo così pulito? Proprio per questa malattia! Perché la malattia gli ha ridonato quello sguardo sul reale che aveva da giovane, agli inizi della sua carriera e l’ha portato a scoprire qualcosa di veramente importante. Che cosa? Che «I numeri… non contano! Sembra paradossale detto da qui [davanti alla platea di Sanremo]. Perché ogni individuo, ognuno di noi, ognuno di voi, è unico, irripetibile e a suo modo infinito». Ma chi avrebbe pensato, con la domanda che ci siamo fatti all’inizio, che quando tutto è contro, uno possa imparare a vivere tutto daccapo, come nuovo?! Che impressione vedere che niente è da scartare, che «una poltrona vuota» può diventare l’occasione per rendersi conto che «ogni individuo, ognuno di noi, è unico e irripetibile».
E poi, altri doni: «La gratitudine nei confronti della bellezza del Creato. Non si contano le albe e i tramonti che ho ammirato da quelle stanze d’ospedale». Basta pensare a quanti di noi oggi si sono stupiti dell’alba o del tramonto. E lui abbia dovuto aspettare questo per godersi le albe e i tramonti dalla finestra dell’ospedale. «La riconoscenza per il talento dei medici, di tutto il personale ospedaliero, della ricerca scientifica, dell’affetto delle persone». Quante cose nel quotidiano diamo per scontate per la nostra disattenzione! Diventano motivo di stupore quando siamo consapevoli del loro valore. E allora, arriva al dunque: «Quando tutto crolla [invece dello scetticismo] e resta in piedi solo l’essenziale, [quando prevale questo essenziale] il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più! Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo». Quanti desidererebbero essere liberi dal giudizio degli altri, senza avere la malattia, eppure non hanno neanche un istante di questa libertà. È stupefacente dunque constatare che quando tutto crolla, noi ci domandiamo: «come si fa a vivere?», lui invece si sente facilitato a riconoscere l’essenziale, perché è facile, perché è l’unico che resta in piedi. Riconoscere l’essenziale lo rende libero dal giudizio che riceve dall’esterno, che tante volte a noi angoscia e ci determina rendendo la nostra vita ancora più pesante. All’improvviso «il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più». Che liberazione! Quanto è vero che «la forza del soggetto è l’intensità della sua autocoscienza», che quando uno acquista coscienza di sé comincia a vivere, a respirare! Con la malattia, non quando guarisce.
E che cos’è l’essenziale? Anche se «Il cielo stellato può continuare a volteggiare […] e io posso essere immerso in una condizione di continuo mutamento, eppure sento che c’è qualcosa che permane! Ed è ragionevole pensare che permarrà in eterno. Io sono quel che sono». Invece di portarlo allo scetticismo più profondo, più prende consapevolezza di sé, più si rende conto di quello che tante volte noi non riusciamo a dire: che siamo eterni e che è ragionevole affermarlo! Cioè, prendendo coscienza di sé, lui arriva a questo “suo essere” che permane come l’essenziale del vivere. Dire: «Io sono quel che sono» acquista una intensità, una densità di autocoscienza da renderlo libero. E finisce: «Io voglio andare fino in fondo con questo pensiero [perché lì si apre tutta una possibilità di strada da percorrere], se le cose stanno davvero così, cosa mai sarà un giudizio dall’esterno? Io voglio accettare il nuovo Giovanni [che è nato da questo crollo di tutto!]». È questa coscienza nuova di sé che permette di abbracciare il “nuovo Giovanni”. Perché quando tutto crolla – dunque – c’è la possibilità di fare un cammino come ha fatto lui, che ha condiviso con tutti quelli che lo ascoltavano, che consente di recuperare tutto, moltiplicato perché pieno di significato! Con una intensità, con una densità in qualsiasi cosa, che prima non aveva! Anzi, lo ha recuperato, lo ha tirato fuori dall’abitudine con cui prima guardava tutto, dando per scontato tutto.
Questa è la possibilità di chi accetta la sfida del vivere quando tutto va contro, di chi non si sottrae alla provocazione della realtà facendo i conti con il dolore della malattia, o il disagio per una poltrona vuota. Solo chi è così audace da non lasciarsi bloccare e va fino in fondo, può scoprire il significato e sorprendere la vita riempita di una pienezza mai immaginata prima. Allora lì appare come «In tutte le circostanze e contingenze della vita, quello che conta [non è la difficoltà delle circostanze], ciò da cui sempre si può partire, ciò che sostiene la novità…». Voi cosa direste che sia? Cos’è ciò da cui sempre si può partire? «Si chiama “persona”: è il soggetto, si chiama “io” […]. Quanto più i tempi sono duri, tanto più è il soggetto che conta, è la persona che conta» (L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo (1990-1991) Bur, Milano 2013, p.37, p.39). Ma che cosa può persuadere ciascuno di noi a fare questo lavoro? A percorrere un cammino senza grandi riflessioni, come lui ha fatto? A prendere sul serio la domanda sulla vita? Solo un’affezione a se stesso, una tenerezza con se stesso. È questo amore a se stessa che ha portato un’amica a prendere sul serio la sua situazione, per percorrere anche lei un cammino. Lei è più giovane, stava attraversando un momento abbastanza crudo, sfidante, pieno di difficoltà perché nulla le corrispondeva, niente le rimaneva aggrappato, tutto le sfuggiva dalle mani. Dice: «come un contenitore vuoto che cercavo di riempire, ma rimanevano solo silenzi strazianti, giganteschi punti di domanda, rabbia e oscurità, insomma un grande vuoto». Anche a lei tutto le sembrava contro. Questa situazione l’ha portata a rifiutare per un periodo, qualsiasi tentativo di risposta le venisse dato e quando uno rifiuta le possibili risposte, allora deve verificare la propria! Non è che per questo può fermare la vita, deve verificare quell’ipotesi di lavoro con cui uno pensa di cavarsela. Allora, dice: «Mi buttavo, partecipavo a qualcosa, ma poi lasciavo perdere perché non mi interessava. E alla sera mi sentivo senza energia, insoddisfatta, con la sensazione di non aver fatto niente di importante durante il giorno. Mi sentivo inspiegabilmente vuota, nonostante le decine di attività eseguite durante la giornata». È un denominatore comune questo: riempiamo la vita di attività, ma il vuoto permane. «Riempio il tempo e non colmo il vuoto», dice Marracash. E allora: «Davanti alla verifica della mia ipotesi di lavoro, che mi portava a questo risultato, mi sono regalata la possibilità di fermarmi». E ha accettato di fermare tutto e darsi un tempo per quello che lei chiama: una “indagine esistenziale”, per guardarsi dentro. «E, grazie a tutto quel dolore [come il musicista], ho capito».
Questo fa capire che cosa è stato necessario per fare emergere «la nuova io, la nuova me, ancora più consapevole». Allora, mi domando, davanti a questi casi, che possiamo allungare con altri simili, dobbiamo aspettare la malattia o che uno finisca male per regalarci la possibilità di fermarci? Per guardare come stanno le cose? La Quaresima può essere questo regalo che possiamo fare a noi stessi per fermarci a vedere e a guardare, come ci ha ricordato il Papa, il Mercoledì delle Ceneri: «Entra nel segreto: questo è l’invito che Gesù rivolge a ognuno di noi […]. Come ammonisce il profeta Gioele. Si tratta di un viaggio dall’esterno all’interno, perché tutto ciò che viviamo, […] non si riduca ad esteriorità, […] ma nasca da dentro […], cioè ai nostri desideri, ai nostri pensieri […]. Ritornare al cuore significa ritornare al nostro vero io […]. Significa guardarci dentro e prendere coscienza di chi siamo davvero, togliendoci le maschere che spesso indossiamo, rallentando la corsa delle nostre frenesie, abbracciando la vita e la verità di noi stessi» (Francesco, Omelia della del Mercoledì delle Ceneri, 14 febbraio 2024). Come Giovanni, e la nostra giovane amica. «La vita non è una recita – dice il Papa – e la Quaresima ci invita a scendere dal palcoscenico della finzione, per tornare al cuore, alla verità di ciò che siamo. Tornare al cuore, tornare alla verità». Alla portata di mano di tutti… senza malattia! Non è necessario aspettare l’infarto, possiamo darci una mossa prima, perché possiamo scoprire di nuovo tutto come dono! Per una pienezza che ci è capitata. Pirandello si era reso conto del rischio che tutti corriamo: «Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo e quest’altro da fare; correre qua, con l’orologio alla mano, per essere in tempo là. “No, caro, grazie: non posso!” “Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare…” “Alle undici, la colazione” “Il giornale, la borsa, l’ufficio, la scuola…” “Bel tempo, peccato! Ma gli affari…” “Chi passa? Ah, un carro funebre… Un saluto, di corsa, a chi se n’è andato.” “La bottega, la fabbrica, il tribunale…”. Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo» (L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1974, p. 3).
La Quaresima è il tempo di «arrestarsi a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che gli convenga». Questo è il senso con cui la Chiesa ci introduce a questo momento, come quella frase bellissima del profeta Osea: «Io la sedurrò, [parlando del popolo d’Israele come la sposa] la condurrò nel deserto, e parlerò al suo cuore». Per riscoprire chi siamo; perché lì senza distrazioni, che oscurano il vero dramma, sia più facile riconoscere l’essenziale: chi siamo? Cosa è il nostro vero “io”? Cosa significa abbracciare la vita e la verità di noi stessi? Come possiamo scoprirlo? Prendendo sul serio, tra le altre modalità, la Quaresima, questa possibilità della Quaresima per «entrare nel segreto» e guardare dentro di noi, la nostra vita, l’esperienza che facciamo. Perché, quanto più entriamo in noi stessi, tanto più vediamo che ciascuno di noi – per il fatto che Dio ci ha creati liberi – è chiamato a scegliere quello che ritiene che compie la vita, che riempie il vuoto, quello che risponde alla sete di pienezza per cui il nostro cuore non smette di bramare! Ci sono momenti in cui questa urgenza di pienezza è particolarmente sentita, quando non ci sono distrazioni e ciascuno è messo alla prova.
E più ci sentiamo chiamati, più siamo sfidati ad approfondire che cosa corrisponde veramente alla nostra attesa, perché ci rendiamo conto che non lo possiamo scaricare su nessun altro. Come il nostro amico che per un anno guarda il soffitto: non può scaricare la sua condizione sul primo che passa, come noi non possiamo scaricare il vuoto che sentiamo, o la mancanza di pienezza che viviamo. Ciascuno di noi è chiamato per nome, nella propria irriducibilità, a decidere, perché ciascuno di noi è questo rapporto diretto col Mistero. Sono momenti in cui ciascuno si percepisce chiamato alla verità di sé, dall’intimo della propria esperienza, fino a domandarsi veramente: chi sono io? Cos’è questa brama di compimento che urge dentro senza darmi mai pace? Cos’è questo anelito che spinge dentro di me senza sosta? Quanto più ciascuno è consapevole della natura di questa bramosia, tanto più è messo alle strette perché con una urgenza così potente non si può scherzare, non ci sono giochi da fare, è una questione radicale, la vita dipende da questa questione. E davanti a questa urgenza di compimento l’uomo è chiamato a riconoscere che cosa può essere all’altezza, «che cosa gli conviene», diceva Pirandello. Tutti viviamo davanti a un elenco di possibilità – lo sappiamo bene, e ne abbiamo fatto esperienza tante volte – e più ciascuno prende sul serio lo smisurato bisogno che si trova addosso, più si rende conto che non qualsiasi tentativo, o qualsiasi scelta può rispondere a questo incalzare incessante del proprio desiderio di trovare una risposta soddisfacente. Allora la domanda acquista sempre più urgenza: che cosa può rispondere a questo desiderio irriducibile di compimento che sono io e che scopro dentro di me quando entro nel segreto del mio cuore?
La liturgia della Quaresima ci offre una risposta: come uno, Gesù, vive la verità di sé. Perché nemmeno Gesù, nella sua umanità, ha voluto evitare di affrontare questo dramma. Anche Lui è stato portato nel deserto: «Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e rimase quaranta giorni, tentato da Satana». Nelle tentazioni Gesù entra nel dramma dell’esistenza umana, ed è chiamato a decidere dove poggia tutta la sua persona, cosa ha a cuore Lui veramente! Cosa realmente conta nel portare avanti la sua vita e la sua missione. Gesù non resiste ad assecondare lo Spirito, non ha paura delle tentazioni, perché per Lui ogni occasione è buona per mostrare cosa conta per Lui. Ogni circostanza è un’occasione per dire che cosa abbiamo a cuore e, più siamo sfidati, più siamo costretti a rispondere che cosa abbiamo a cuore. E ogni volta vediamo che quello che realmente per Lui conta, è Suo Padre, l’attaccamento a Suo Padre. Proprio questa sua coscienza di Figlio lo rende in grado di smascherare la menzogna di qualsiasi altra attrattiva, alternativa al suo rapporto con il Padre. Per questo «Egli è il primo uomo con la coscienza adeguata e perfetta che tutto il suo contenuto di uomo è la presenza del Padre». (L. Giussani, Dare la vita per l’opera di un Altro, Bur, Milano 2021, pag. 33). Il Padre era il suo pensiero dominante. Lui percepiva ogni cosa come dono del Padre, non occorre aspettare la malattia! «Quando guardava il passero cadere, quando osservava i gigli del campo, le messi, i capelli dell’uomo, che cosa gli dava la certezza di trarre da tutto spunto per raggiungere il significato del mondo, il senso della sua vita? Ciò che faceva fiorire tale certezza era il suo rapporto col Padre, la compagnia del Padre». C’è un’alternativa alla malattia? Essere se stessi con questa consapevolezza di sé. Come esce Gesù da queste tentazioni lo vediamo da come si pone dopo la prova. Continua il Vangelo: «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”» (Mc 1,14-15). Lui esce dalla prova con un tale incremento della sua autocoscienza da dire a tutti: «Il tempo è compiuto», è arrivato il momento del compimento, il male non ha vinto! Satana è stato sconfitto dall’attrattiva del Padre. Per questo con la sua vittoria Gesù inaugura il tempo del compimento e apre anche a noi la possibilità che accada il compimento e che possiamo anche noi vincere le tentazioni! Quelle che Eliot riassume sinteticamente nelle tentazioni fondamentali che l’uomo trova nel «deserto e vuoto»: «l’Usura, la Lussuria e il Potere» (T.S. Eliot, Cori da «La Rocca»). Perché? Perché «l’Usura, la Lussuria e il Potere» è troppo poco, piccino per la capacità dell’animo! Questa è la nostra grandezza! Noi non ci accontenteremo mai con «l’Usura, la Lussuria e il Potere» perché è troppo poco e per questo, prima o poi, ci delude. Ma non solo perché sia sbagliato, ma perché è troppo poco rispetto alla nostra grandezza, perché «sentire l’insufficienza e la nullità delle cose, patire mancamento e voto, e la noia, è il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana» (G. Leopardi, «Pensieri» LXVIII, in Poesie e prose, Mondadori, Milano 1980, vol. 2, p. 321.). Perché niente ci rende più consapevoli di che razza di grandezza abbiamo – siamo! – che quando vediamo che niente è sufficiente. Per questo dopo la vittoria di Cristo ogni uomo ha la possibilità di raggiungere il compimento di sé, non siamo costretti a vivere schiavi di niente – Usura, Lussuria o Potere che siano – è possibile raggiungere l’unica pienezza che rende liberi.
Per questo «Il regno dei Cieli è vicino», è a portata di mano di chi vuole essere libero, cioè di chi vuole compiersi! L’invito che la Chiesa ci fa ad entrare nel segreto, nel nostro vero “io”, per farci uscire vittoriosi come Gesù, per passione per il nostro destino, non per punirci per i nostri mali, ma per farci sperimentare già ora, qui, in mezzo alla storia, che è possibile raggiungere quella pienezza. E come si raggiunge? Col suo porsi, Gesù dice davanti a tutti il come raggiungere la pienezza: «Convertitevi e credete nel Vangelo». Convertirsi non è uno sforzo sovrumano, ma è lasciarci affascinare dalla Sua presenza, lasciare entrare dentro di noi quella presenza che Lui pone davanti a tutti come attrattiva. Perché credere è riconoscere questa buona notizia che è la Sua persona, che c’è una presenza talmente in grado di riempire la vita, che può renderci liberi. Questo la gente lo intuiva. Da che cosa? «Tutti ti cercano». Sintetico! «Tutti cominciano a intravedere che tu hai qualcosa che vale più della vita!». È come se ci invitasse a fare la verifica: «Potete verificare voi stessi fino a che punto la verità che vi porto è unica, dal fatto che vi renderà liberi!». Perché «La verità vi farà liberi», dice San Giovanni (Gv 8,32), saprete che avrete trovato la verità dall’esperienza di libertà che fate! Perché la libertà è il compimento del desiderio di soddisfazione che ognuno ha, di questa irriducibilità che siamo! E così il Signore ci porta a capire qual è lo scopo della nostra irriducibilità, perché ci ha fatto irriducibili! Perché ci ha fatto così grandi, con questo desiderio smisurato di pienezza. Lo dice Sant’Agostino: «Tu mostri in modo abbastanza evidente la grandezza che hai voluto attribuire alla creatura razionale; alla sua quiete beata – perché alla sua quiete beata – non basta nulla che sia meno di Te, e perciò nemmeno se stessa» (Agostino, Confessioni, Sei 1992, XIII, p. 453). La nostra grandezza è l’essere fatti per qualcosa di così grande che nulla basta meno di Te, o Cristo. Perché meno di Te, è troppo poco. Infatti, meno di te, o Cristo, è troppo poco per il nostro cuore. È a questa esperienza di pienezza di Cristo a cui ci invita la Quaresima. A ciascuno di noi la propria decisione di cosa vuole fare.
Allora, se è questo quello che ci può dare la pienezza, il problema fondamentale qual è? Rendere sempre più abituale la coscienza della Sua presenza, che già è presente in mezzo a noi, nella storia. Ma come possiamo rendere abituale in noi il desiderio di Lui, la coscienza della Sua presenza? Il cambiamento non lo possiamo realizzare da soli, come titani, né applicando un automatismo, ci vuole tempo e occorre seguire qualcuno. «Il desiderio del ricordo di Cristo matura come storia in noi, cresce non automaticamente ma, come cresce ogni nostra capacità, seguendo qualcuno», il metodo non cambia. Così ha cominciato Gesù. «Nella coscienza di Gesù vive la totalità dell’invadenza del Padre». E attraverso Gesù «il Padre introduce l’uomo nel riconoscimento della Sua paternità, della familiarità suprema con il Mistero», perché «nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6) (L. Giussani, Dare la vita, p.32). Dio ha inviato suo Figlio per introdurci a guardare come Lui tratta i gigli del campo, come guarda i bambini, come guarda la realtà, come vive se stesso, per mostrare che è facile, anzi, è l’unico modo di vivere bene il reale, di vivere bene con se stessi: vivere come Lui. «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me». Chi mi segue avrà il centuplo quaggiù, la vita si moltiplicherà, alla grande! Oggi è lo stesso, il metodo non cambia: seguire qualcuno che mi introduca costantemente alla familiarità con la Sua presenza, si chiama “testimone”. «Il vertice della formazione, della crescita della persona, il suo orizzonte più adeguato è la figura del testimone: egli diventa punto di riferimento proprio in quanto sa rendere ragione della speranza che sostiene la sua vita (cfr. 1 Pt 3,15), è personalmente coinvolto – dice Papa Benedetto – nella verità che propone» (Discorso di sua santità Benedetto XVI all’apertura del convegno ecclesiale della diocesi di Roma su famiglia e comunità cristiana. Basilica di San Giovanni in Laterano. Lunedì, 6 giugno 2005).
Vediamo delle persone che vivono un tale un rapporto con Cristo, che vedendoli vivere siamo noi stessi introdotti a quel rapporto che è già costitutivo della loro persona. Perché «il testimone non rimanda a sé, ma a qualcosa, a qualcuno più grande di lui». Altrimenti non sarebbe interessante. Per questo, come possiamo, in questo frangente, farci compagnia? Identificando questi testimoni, perché solo così possiamo anche noi, in qualsiasi circostanza, essere introdotti da persone che già lo vivono, perché diventi anche nostro. Questo è il metodo di Dio, dall’inizio alla fine. Lo dà a uno, per raggiungere altri. È facile intercettarli, si vede dalla loro faccia, dal modo con cui vivono. Quindi basta assecondarli perché questa Presenza entri talmente nella vita, nelle pieghe del nostro “io” più profondo, da vedere che ci conviene, che ci conviene vivere così. È per questo che la Chiesa ci invita a «entrare nel profondo, nel segreto di noi stessi», perché possiamo uscire da questo tempo ancora più noi stessi, con l’“io” più rinnovato, tutto moltiplicato nel vivere. Perché Lui già anticipa nella storia l’eterno nel tempo, per noi, per chiunque sia disponibile ad assecondarlo, nella modalità con cui è attratto da persone che già lo vivono nel presente. Grazie.
DON MARCELLO
Adesso abbiamo un po’ di tempo, ognuno risponda personalmente alla provocazione che ci è stata fatta, c’è la possibilità di avere un microfono per porre le domande.
Faccio io una domanda. All’inizio hai fatto questi passaggi: partendo dallo scetticismo, poi hai detto: «No, la circostanza è un’occasione, una provocazione». Ponendoci davanti Allevi, hai detto: «Ma, il punto di partenza è la tua persona». Io a volte faccio questa esperienza, mi capita di trovarmi davanti alla fragilità mia, ma anche di altri, ed è come se l’energia della persona venisse meno, e quindi questa partenza, dalla persona, diventa difficoltosa. È come se il punto di partenza che tu hai indicato avesse un tarlo dentro. Quindi quando è così, com’è?
DON JULIÁN
Io ho fatto degli esempi dove le persone provocate – come il musicista, o la ragazza – hanno la stessa fragilità tua e mia. Tante volte noi possiamo usare questa fragilità come un alibi per non accettare la provocazione. E possiamo vedere che questi, non sono diventati all’improvviso dei Superman o Superwoman, ma hanno semplicemente accettato la provocazione e da lì è cominciata la scoperta. Questo mi ha stupito: trovare una persona che, scoprendo di avere questa malattia, comincia a percepire la realtà come dono. È questo il metodo a cui Dio si piega verso di noi ponendoci davanti suo Figlio, o quando ci pone davanti un testimone. Ciascuno può vedere qual è la modalità con cui il Mistero lo provoca. Ho cominciato da una circostanza brutta, in cui tutto sembrava contro, ma anche quando tutto ciò che si ha davanti è un’attrattiva, uno può vedere che cosa mette in moto il proprio io. Don Giussani dice che riconoscere il testimone non è automatico, e che anche il testimone non può supplire la nostra collaborazione. Leggo un testo che ho già letto in altre occasioni perché mi sembra che risponda alla tua domanda. «L’incontro con un testimone desta e facilita il coinvolgimento della mia persona [il senso religioso]. Ma l’uomo impara riflettendo su se stesso nella propria esperienza». Cioè, «Neppure l’incontro con un testimone può supplire il lavorio della ragione» (L. Giussani, “Intervista a Monsignor Luigi Giussani.” [A cura di] Antonio Sicari. Communio: Strumento internazionale per un lavoro teologico, 98-99 (1988) 210).
E questo, l’ho detto tante volte, [questa sera mi sembrava di avere già abusato della vostra pazienza e non l’ho sviluppato] quando Gesù ha fatto segni spettacolari, pensiamo alle due moltiplicazioni dei pani (segni grandi come due castelli), eppure, i discepoli che erano fragili come tutti, non avevano energie particolari, faranno la verifica di che cosa era rimasto in loro dopo quella moltiplicazione dei pani, quando si troveranno davanti a una banalità (come il musicista davanti alla poltrona vuota). Quando un giorno i discepoli vanno a pescare e discutono come pazzi perché si sono dimenticati del pane, Gesù avrebbe potuto dire: «Ma perché vi preoccupate? Non avete visto che ho moltiplicato i pani per cinquemila persone? Siamo “quattro gatti” qui sulla barca… Che problema c’è?». Gli altri che avevano visto il miracolo avrebbero potuto dire: «Abbiamo qui un panificio! Perché dobbiamo preoccuparci?». Invece, è come se Lui non ci fosse! Erano fragili come tutti, senza la coscienza di che cosa era capitato, era come se Lui non ci fosse. Gesù come risponde a questa questione? Gliela risparmia? Moltiplica di nuovo i pani? No, li manda a casa con tre domande: «Quanti pani erano avanzati la prima volta? Quanti la seconda? E ancora non capite?». Se voi non imparate da quello che avete visto, anche se continuo a fare miracoli, risparmiando il vostro coinvolgimento, è inutile perché non crescerete! E, anche se avete visto miracoli (figuratevi quanti ne avevano già visti!), anche se continuate a vederne, non per questo, quando vi troverete davanti alla sfida successiva, sarete cresciuti nella consapevolezza. Non che all’improvviso siete voi capaci di moltiplicare i pani, no, no! Ma rendendoci conto che qui c’è chi ha già moltiplicato i pani, uno può tornare lì dove è stato colpito, dove può ripartire costantemente nel vivere. Non che all’improvviso diventiamo giganti. No, semplicemente la crescita dell’autocoscienza è la crescita di sapere dove andiamo a trovare la risposta. Ma tante volte, questo è quello che non capiamo, e continuiamo a pensare di cavarcela dicendo che siamo fragili. Non è che la nostra fragilità non potrà permanere, siamo poveracci, ma possiamo crescere nella consapevolezza di sapere da chi dobbiamo tornare quando ci troviamo incapaci. Loro erano lì, con tutta la loro incapacità, con Gesù accanto! Non nella memoria, in carne e ossa, perché nella memoria, potrebbe dire qualcuno: “è intimistico”. In carne e ossa, ma è come se non ci fosse!
INTERVENTO
Volevo chiedere: c’è una frase della Liturgia che dice: «il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato», e sembra proprio come un po’ la sintesi di tutta la prima parte che dicevi. La domanda che volevo farti è questa: ma la verifica è sempre una situazione drammatica per l’uomo?
DON JULIÁN
Tu cosa dici?
INTERVENTO
Io dico di sì.
DON JULIÁN
Io dico di no! Con l’aggettivo “drammatico” non so cosa intendete, perché se uno si innamora, la verifica che quell’amore è in grado di risvegliare la persona è “drammatico”? Sì, è drammatico perché ti risveglia, non perché sia doloroso, o perché sia una sofferenza. La questione è: possiamo rispondere a questo per un’attrattiva – che è il tentativo che la Chiesa ci propone in continuazione – o dobbiamo aspettare l’infarto, o la malattia? Allora sì, ma non perché il metodo di Dio sia quello. Non è che il metodo di Dio fosse che il figliol prodigo si stancasse di mangiare carrube. L’ultima drammaticità della verifica è che, quando uno ha perso il lume della ragione e ha deciso di fare di testa propria, c’è una verifica che gli impedisce di rovinarsi completamente: che uno si renda conto che quello non corrisponde. Il Mistero non ci ha fatto così, per qualche tentativo maldestro. No, è che l’ultima risorsa che Lui ha, o che noi abbiamo è benvenuta per svegliarci. È meglio che appaiano certe spie quando uno ha una malattia, piuttosto che arrivi la malattia senza nessuna spia e quando uno si rende conto, già non c’è più rimedio. Siamo tutti più grati quando appaiono dei sintomi prima che la situazione sia impossibile da affrontarsi, ma tutto dipende da quanto tempo abbiamo bisogno per arrenderci a questa modalità attraverso cui il Mistero ci sta chiamando. Per questo la vita è vocazione, perché sta costantemente richiamando la vita. Quando siamo testardi – come il figliol prodigo – alla fine, va bene: «Vai! Ti aspetto al varco». Buona verifica a tutti.
DON MARCELLO
Basta? Nessuno? Ultima possibilità, ultimissima. Vai!
INTERVENTO
Non è tanto una domanda, sì anche una domanda perché mi sta colpendo, forse perché non me l’aspettavo così. A 50 anni pensavo di essere già arrivata. Pensavo che certe cose diminuissero come importanza, invece mi sta facendo impressione che quello che sto scoprendo come importanza del cuore, perché ne hai parlato tanto stasera, non me l’aspettavo, come importanza di quello che è il cuore per vivere, e di come è importante il testimone. Perché a me ha fatto impressione, lo sto ripetendo da un mese, appunto, ho passato tre settimane proprio brutte e mi ha fatto impressione che a un certo punto mi sono ritrovata a piangere, ma davanti a quel pianto mi sono detta: «Stai piangendo, sei viva!». E questo mi ha fatto riprendere, cioè l’accorgermi che ero viva! Non che non piangevo, ma che ero viva! L’altra cosa che mi fa impressione è che sto cercando il testimone stesso, mi sto attaccando a chi vedo come testimone, come lo facevo quando ero piccoletta, non perché poi non ne ho più avuto bisogno, ne ho sempre avuto bisogno, ma mi colpisce che lo sto facendo, con le stesse modalità di quando avevo a 20 anni, adesso.
DON JULIÁN
Vedete che quando uno racconta un’esperienza si ritrova con l’esperienza iniziale? Che uno recupera, attraverso le provocazioni del vivere, quello che dice lei: una situazione che la fa piangere, è quello che la rende ancora più attenta a scoprire il dono dei testimoni. Facile, non occorre nessuna energia particolare, semplicemente un riconoscimento che facilita l’assecondare quello che uno percepisce come un bene per sé. Grazie.
DON MARCELLO
Grazie, lo ringraziamo davvero anche perché abbiamo iniziato i Quaresimali, ma con il richiamo che lui ci ha fatto alla Quaresima totale, abbiamo iniziato un lavoro, un lavoro personale perché mi ha colpito la risposta: anche la fragilità può essere un alibi. Cioè, non abbiamo più alibi, occorre iniziare questo percorso per arrivare realmente alla risposta a quella domanda: «Come si fa a vivere?», che ci porta alla consapevolezza di noi stessi. Quindi, è un lavoro che continua. Ti ringraziamo e ci vediamo in questi giorni, alle Messe eccetera, eccetera, e ci vediamo venerdì prossimo con padre Ielpo e la situazione in Terra Santa. Grazie.
* Intervento en la parrocchia di San fruttuoso, Monza (23 febbraio 2024 )
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