Possono emergere, per grazia, persone per la continuità carismatica

Sociedad · Alfonso Carrasco Rouco
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18 octubre 2023
Il vescovo della diocesi di Lugo, monsignor Alfonso Carrasco Rouco, è uno dei teologi che ha lavorato negli ultimi anni sulla natura dei carismi nella Chiesa. Il suo contributo è fondamentale per comprendere come avviene la successione in coloro che sono alla guida di un'esperienza carismatica.

Sostiene che «il compito principale delle persone nominate per assicurare la continuità carismatica non è l’organizzazione di una realtà associativa, ma essere un punto di riferimento per un’interpretazione autentica di ciò che è accaduto per grazia del carisma dato all’inizio». Queste persone «saranno proposte a tutti, quindi, per questa capacità primaria di espressione autentica del carisma, di fedeltà alla sua storia. Non deve essere sempre la stessa persona, poiché la sua condizione non è quella di chi ha ricevuto il carisma originale; possono emergere altre persone in cui si riconosce tale capacità, indubbiamente ricevuta per grazia». Carrasco afferma che «non sarebbe appropriato valutare una missione simile in termini di diritto naturale, come una semplice forma di organizzazione del potere sociale – ubi societas, ibi ius – senza prendere in considerazione la sua propria finalità soprannaturale». Queste e altre affermazioni le offre nell’articolo «Sul contributo di Luigi Giussani a una comprensione cattolica del carisma» incluso nel libro recentemente pubblicato Il cristianesimo come avvenimento (Carmine di Martino, Ed BUR). Offriamo un riassunto del lavoro. Monsignor Alfonso Carrasco Rouco è stato professore di Teologia Sistematica, ricercatore presso l’Istituto di Diritto Canonico dell’Università di Monaco. È dottore in Teologia presso l’Università di Friburgo.

Sebbene il carisma come tale non sia generalmente l’oggetto diretto della riflessione di Giussani, il suo significato nel pensiero dell’autore è centrale e la sua meditazione teologica su di esso profonda e molto rilevante. La maggiore ricchezza del suo contributo sta senza dubbio nella grande realtà di esperienza cristiana che ha generato – il movimento di Comunione e Liberazione in primo luogo –, accompagnata e resa possibile da una lucidissima coscienza della necessità di questa esperienza, del metodo che le è proprio e delle caratteristiche elementari che la costituiscono. Affermando chiaramente il realismo dell’incarnazione e il significato della Chiesa come «sacramento» – dell’incontro con Cristo e della salvezza del mondo –, Giussani presenta il carisma come parte integrante dell’«economia» neotestamentaria, della permanenza nella storia della verità della fede..

Ciò che è decisivo è l’incontro con la presenza di Cristo nel mondo, cioè con il mistero della Chiesa. Ma parlare di incontro implica una realtà di tempo e spazio, volti concreti, storie precise, che, per grazia, possono essere il modo in cui la persona di Cristo si rende presente alla coscienza, con la sua pretesa di salvezza e di significato; la forma in cui l’evento cristiano diventa esperienza umana con tutte le sue caratteristiche.

La realtà della vita in Cristo – il mistero del suo Corpo ecclesiale – deve esistere, ma è anche necessaria la modalità in cui lo Spirito la rende presente come tale davanti alla nostra coscienza, situata nel tempo e nello spazio. È in questo contesto, al servizio di questo avvenimento, che Giussani colloca la realtà del carisma come una grazia specifica. Spesso la descriverà così: la modalità in cui la persona di Cristo si rende presente alla mia coscienza, afferra e tocca la mia persona, dandole un compito nella storia – una missione – e un posto nella gloria del cielo; Oltre alla dimensione della particolarità, della vicinanza al tempo e allo spazio, il temperamento e la situazione culturale della persona danno ragione della modalità di manifestazione del mistero propria del carisma concreto.

Attraverso i diversi carismi, nelle diverse modalità, la persona è sempre comunque invitata alla relazione con Cristo, alla conoscenza e all’amore del Signore. In tal modo, si rivela una strumentalità intrinseca di questa grazia carismatica, che è al servizio della piena comunione con Cristo; ma ciò non ci permette di relativizzare il suo significato storico per la persona, come il modo in cui l’incontro con Cristo gli è dato nel quadro della sua esistenza. È opportuno sottolineare che questo incontro, e con esso il carisma che lo rende possibile, sono conformi alla natura del mistero ecclesiale: attraverso una realtà esterna, anteriore al soggetto, percepibile e visibile, attraverso la contingenza inevitabile di un’umanità concreta, si rende presente la persona di Cristo. Il metodo dell’incarnazione è così portato avanti fino in fondo.

Giussani, come logica conseguenza di ciò, porrà la necessità di queste grazie carismatiche in un modo o nell’altro per l’esperienza credente di tutti i fedeli, collocandole così nel grande orizzonte dell’economia della grazia e prendendo le distanze da ogni interpretazione come semplice privilegio di alcuni o come realtà marginale o occasionale nel cammino storico della Chiesa. Così il carisma si definisce in modo non individuale, per il bene di chi lo riceve, ma radicalmente ecclesiale, come una dimensione della strumentalità o sacramentalità della Chiesa. È dato ad utilitatem, per rendere possibile la presenza, l’edificazione, la missione propria del Corpo di Cristo nella vita degli uomini, nella storia. Manifestazione della presenza dello Spirito.

In continuità con la tradizione cattolica

Sebbene la concezione del carisma che offre Giussani risponda alla situazione attuale, condizionata dalle sfide proprie della modernità, essa è in continuità con la tradizione cattolica, non solo nella sua espressione magisteriale più solenne – il Concilio Vaticano II –, ma anche nelle sue analisi teologiche classiche.

La presentazione tomista del carisma (ad esempio), affronta così esplicitamente, molti secoli prima, il problema di fondo a cui risponde anche Giussani: come è possibile percepire la verità di una realtà che supera la ragione umana, che è al di là dell’esperienza naturale accessibile all’uomo? Come può esistere una qualche forma di manifestazione da me percepibile, una qualche forma di evidenza di una presenza diversa – divina – che non presenta in sé analogia con la mia sfera di esperienza? E la risposta è anche la stessa: da una grazia gratis data, un carisma, che serve alla manifestazione della presenza dello Spirito, attraverso segni che la persona riconosce essere al di là delle proprie forze e possibilità. Giussani lo descriverà come un avvenimento, un fatto sperimentabile

Giussani presenta il carisma come una grazia indispensabile nella missione della Chiesa, come costitutivo per rendere possibile l’incontro con Cristo e, quindi, per la possibilità di questa sequela: perché rende possibile che la Chiesa diventi immediata per ogni persona, così che l’uomo possa percepire la sua verità nella propria sfera di esperienza. La sequela personale dell’avvenimento cristiano, di Cristo, avviene sempre in una modalità storica, determinata dall’oggettività sacramentale e gerarchica della Chiesa, ma anche dalla forma di presenza ecclesiale prossima che lo Spirito introduce nel cammino di ogni persona e che le permette di non ridurre la sua esperienza ai propri limiti soggettivi – il che introdurrebbe una concezione riduttiva anche del sacramentale e gerarchico, interpretato a partire dai presupposti del fedele.

Permanenza nella storia dell’esperienza carismatica

Nel contesto dell’incontro con Cristo reso possibile dalla grazia dello Spirito, c’è una responsabilità verso il carisma che sarà assunto da ciascuno in modo personale. Questa assunzione del carisma avviene in primo luogo accettando la chiamata carismatica con più o meno generosità. E questa libera risposta si esprimerà come esperienza cristiana, nella modalità particolare in cui il carisma ha reso percepibile la proposta: «È nella responsabilità che in qualche modo assumiamo di fronte all’incontro fatto che incomincia la storia della personalità nostra, che acquistiamo cioè un volto inconfondibile e irriducibile, e diventiamo protagonisti nuovi […]».

L’assunzione del carisma avrà come primo frutto la condivisione di un «patrimonio carismatico», la partecipazione viva al mistero ecclesiale della presenza di Cristo nella storia, nella modalità in cui è stato reso manifesto e accessibile alla persona da un dono gratuito dello Spirito. Questo assunto «patrimonio carismatico» si riferisce dunque a tutto l’evento cristiano. Infatti, l’atto di fede è rivolto a Cristo, è una risposta alla sua presenza. Ma, proprio per questo, la testimonianza dei fedeli non può non includere la modalità secondo cui Cristo mi è venuto incontro, come presenza reale, irriducibile ai contenuti della mia coscienza, con cui stabilire una relazione di obbedienza nella fede, di sequela e di comunione. In altre parole, l’assunzione del carisma implica la testimonianza anche della modalità storica concreta della venuta di Cristo all’incontro, e non è credibile senza la testimonianza di questa modalità: di come e quando è avvenuto, come annuncio di un modo in cui anche un altro può incontrare Cristo.

L’assunzione del carisma implica quindi una responsabilità reale, una risposta di libertà che obbedisce e testimonia sia la presenza e l’amore del Signore, sia il modo in cui questo incontro è reale, la modalità storica del suo realizzarsi nella vita, che è parte costitutiva dell’avvenimento cristiano. Invece, non sembra possibile affermare tout court che questa partecipazione personale a un’esperienza carismatica significhi anche condividere la grazia gratis data che la origina, il carisma donato a una persona concreta con la missione specifica di trasmettere la presenza del Figlio di Dio al prossimo in modo preciso ed eloquente.

In ogni caso, ci può essere senza dubbio una continuità tra le grazie gratis datae (carismi) e la testimonianza di colui che è reso idoneo a esse dalla vita vissuta nella relazione filiale con Dio, secondo la modalità con cui è stato introdotto. Pertanto, non sembra esserci motivo di negare che i carismi possano essere dati anche per cooperare alla permanenza nella storia dell’esperienza carismatica originale. Giussani lo affermerà chiaramente in qualche occasione. Assumere responsabilmente il carisma significherà dunque renderlo presente come esperienza in una propria versione personale, che sarà sempre più o meno corrispondente, più o meno determinata dalla soggettività di ciascuno, più o meno capace di edificazione, e talvolta anche reinterpretata con criteri inadeguati. Per questo, sottolinea Giussani, è necessario lo sforzo di una fedeltà, di riferirsi e confrontarsi con il carisma nella sua realizzazione originale, per evitare di ridurlo a proprie interpretazioni. Tale fedeltà si manifesta nel paragone, nello sforzo di confrontare il proprio criterio con l’immagine del carisma così come è emerso; cioè con i testi del fondatore, se questi non è più presente, e con la successione delle persone indicate come riferimento vivo della vera interpretazione di ciò che è accaduto, della realtà storica del carisma, inseparabile da volti e persone.

Di fatto, la persona che ha ricevuto il carisma, che ha iniziato una particolare esperienza cristiana, è destinata a rimanere gradualmente indietro nel tempo, è destinata a scomparire. La sua persona ha una funzione storica che non può essere superata; ma è anche sempre «strumentale», come il carisma stesso, che non conduce a se stessi, ma all’opera del Signore nella storia. Per questo il riferimento storico al «fondatore» non può scomparire, né la sua testimonianza – a meno che Dio non permetta che l’esperienza del carisma scompaia –, ma la sua persona svanisce dietro la realtà della vita ecclesiale alla quale serve.

La preoccupazione di riferirsi al carisma nella sua origine storica e nella sua realtà esperienziale è necessaria perché la persona possa salvaguardare la manifestazione di questa opera dello Spirito nella sua verità, senza sottometterla al proprio criterio soggettivo. Non essendoci più il fondatore, una simile preoccupazione cercherà di confrontarsi con i testi che ha lasciato e con le persone indicate – nel modo corrispondente a ogni realtà storica – quali continuazione viva delle origini del carisma; quest’ultimo riferimento personale è il più significativo della fedeltà a una storia, perché i testi sono più soggetti alla propria interpretazione soggettiva.

Il compito principale delle persone nominate per assicurare la continuità carismatica non è l’organizzazione di una realtà associativa, ma essere un punto di riferimento per una vera interpretazione di ciò che è avvenuto per grazia del carisma dato all’inizio.

Sarranno proposte a tutti, quindi, per questa capacità primaria di espressione autentica del carisma, di fedeltà alla sua storia. Non deve essere sempre la stessa persona, poiché la sua condizione non è quella di chi ha ricevuto il carisma originale; possono sorgere altre persone in cui si riconosce tale capacità, indubbiamente ricevuta per grazia. D’altra parte, non sarebbe appropriato valutare una simile missione in termini di diritto naturale, come una semplice forma di organizzazione del potere societario – ubi societas, ibi ius – senza prendere in considerazione la sua propria finalità soprannaturale. In ogni caso, la responsabilità del carisma – che è propria di tutti, e manifestata in modo specifico in queste persone – non può in nessun caso consistere nel diventare il principio di una proposta diversa, che sostituirebbe il carisma originale, storicamente determinato. Questo significherebbe, semmai, l’inizio di un’esperienza ecclesiale diversa, la presenza addirittura di un altro carisma.

Coessenzialità tra doni gerarchici e carismatici

Il Concilio ha così chiarito il posto proprio dei carismi nella Chiesa, non cedendo alla tentazione di concezioni più riduttive – come una realtà propria soprattutto delle origini della Chiesa, occasionale oggi o addirittura marginale per tutta la vita ecclesiale – e rispondendo anche all’interrogativo che potrebbe venire dalla valutazione del carisma come principio organico della vita e della costituzione della Chiesa. In tal senso, anche senza entrare in dibattiti teologici, la proposta conciliare è un’alternativa positiva alla contrapposizione tra carisma e istituzione, tipica di grandi correnti della teologia protestante.

Il Concilio descrive il principio della giusta relazione tra i due doni, gerarchico e carismatico, con due grandi affermazioni: appartiene a coloro che guidano la Chiesa il giudizio sull’autenticità e sull’esercizio ordinato dei carismi. Infatti, i carismi sono al servizio della manifestazione della verità della fede e della comunione in Cristo, e sono quindi intrinsecamente legati a questa realtà ecclesiale oggettiva, che è presieduta dal ministero apostolico, principio visibile dell’unità nella fede e nella comunione. E questo ministero, continua LG, ha la speciale responsabilità «di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono»; perché i carismi hanno la loro origine in un dono dello Spirito e non sono generati dal ministero gerarchico, che è per sua natura «servizio ai fratelli». Certo, la cura pastorale è necessaria, non per correggere lo Spirito, ma per servire al buon esercizio di questo dono da parte dei fedeli, che sono sempre più o meno docili all’istanza dello Spirito, più o meno peccatori; come è anche il caso, a modo loro, dei fedeli che ricevono doni gerarchici nel ministero ordinato, e sono ugualmente chiamati a esercitarlo in fedeltà e docilità allo Spirito, rimanendo effettivamente e affettivamente nella comunione del popolo di Dio.

La ricezione post-conciliare di questi insegnamenti ha gradualmente formulato la tesi della «coessenzialità», che ha trovato accoglienza nel magistero ecclesiale, riaffermando sistematicamente che entrambi i doni – quelli gerarchici e quelli carismatici – sono necessari per l’edificazione della Chiesa nel tempo: «In definitiva, è dunque possibile riconoscere una convergenza del recente Magistero ecclesiale sulla coessenzialità tra doni gerarchici e carismatici. Una loro contrapposizione, come anche una loro giustapposizione, sarebbe sintomo di una erronea o insufficiente comprensione dell’azione dello Spirito Santo nella vita e nella missione della Chiesa». Al contrario, «la relazione tra i doni carismatici e la struttura sacramentale ecclesiale conferma la coessenzialità tra i doni gerarchici – di per sé stabili, permanenti e irrevocabili – e i doni carismatici. Benché questi ultimi nelle loro forme storiche non siano mai garantiti per sempre, la dimensione carismatica non può mai mancare alla vita ed alla missione della Chiesa». Infatti, se il dono carismatico serve a rendere manifesta la presenza del mistero di Cristo nel presente – davanti alla coscienza e nell’orizzonte di esperienza della persona –, esso presuppone radicalmente la realtà sacramentale della grazia e della comunione, al cui servizio sono posti i doni gerarchici. E questi, da parte loro, hanno bisogno dei doni carismatici perché si manifestino i loro frutti di vita e di santità: «I doni carismatici […] sono distribuiti liberamente dallo Spirito Santo affinché la grazia sacramentale porti frutto nella vita cristiana in modo diversificato e a tutti i suoi livelli». Sia i doni gerarchici che quelli carismatici «hanno la stessa origine e lo stesso scopo». Sono doni di Dio, dello Spirito Santo, di Cristo, dati per contribuire in modi diversi all’edificazione della Chiesa. Entrambi sono dati per un servizio, appartengono alla sacramentalità della Chiesa, che è «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano», inizialmente vissuta e sperimentata già ora e destinata alla perfezione escatologica. Entrambi i doni subiscono lo stesso destino: il loro vero significato si perde quando si dimentica o si nega l’esistenza di una vera esperienza cristiana, il cui cuore è un’umanità diversa, gradita a Dio per grazia e inviata in missione, a essere vera protagonista nella storia. Nella misura in cui la realtà della Chiesa, che include sostanzialmente la sua vita e la sua santità, non è pienamente affermata, e la sua presenza nella storia viene così negata, tutte le sue strutture – sacramentali e gerarchiche – tendono a essere giudicate con criteri mondani, sono interpretate dalla ragione critica sulla base dell’esperienza naturale, nel contesto dell’evoluzione e dei progetti – ideologici – umani. In modo simile, però, il carisma si riduce allora, nel migliore dei casi, a un intervento divino puntuale, senza alcun legame intrinseco con la forma dell’esperienza cristiana in quanto tale, che non è più intesa in termini di manifestazione della grazia divina – gratum faciens –, ma in termini di sole forze umane, religiose, morali o socio-politiche. Senza l’affermazione dell’essenzialità della vita, dell’esperienza dei fedeli, sia i doni gerarchici sia quelli carismatici perdono il loro significato e non possono più essere compresi correttamente. Entrambi fanno parte dell’«economia della grazia» prevista dal disegno divino; entrambi sono necessari, entrambi sono essenziali per la realizzazione di questo progetto, il cui centro, tuttavia, non è nessuno dei due, ma l’intima unione dell’uomo con Dio e quindi la vera realizzazione della sua vita sulla terra, affinché possa compiere la sua missione nella storia e raggiungere la gloria del cielo. Entrambi i doni provengono da Cristo e sono al servizio della sua missione, definita dall’amore di Dio per il mondo: Egli ha mandato il suo Figlio perché avessimo la vita, e la vita in abbondanza. Ci ha amati fino alla fine, perché vivessimo in unità con Lui, come figli adottivi, nuove creature, capaci di una esistenza rinnovata, guidata dal dono dello

Spirito che ci rende capaci di condividere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù».


Legge anche: In Giussani non c’è contrapposizione tra soggetto e autorità


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