In Giussani non c’è contrapposizione tra soggetto e autorità
Banna spiega che in Giussani ci sono tre «vettori» di oggettività dell’esperienza: l’inizio da un fatto oggettivo al di fuori di noi, il criterio oggettivo del cuore che giudica l’esperienza, la verifica di ciò che ci ha fatto crescere in modo pienamente adeguato, corrispondente alla totalità del reale. Il problema è che anche oggi c’è chi si illude che l’annuncio cristiano, per trovare nuova efficacia, debba cercare una chiara ripetizione e una netta riaffermazione della «sana dottrina», almeno per salvare l’essenziale dei principi. Una concezione protestante, non accettata dal Concilio di Trento, ci spinge a credere che l’uomo, a causa del peccato originale, sarebbe ormai privato della sua impronta creaturale. Invece, già san Tommaso affermava che anche negli infedeli resta pur sempre una «certa conoscenza della verità», quanto meno dell’insufficienza del proprio errore. È questo «nucleo incandescente», questo «centro di gravità», questa «certa conoscenza», questo «cuore» che registra una corrispondenza inaudita. Banna spiega che spesso si confonde la verifica della fede con l’applicazione dei principi cristiani che Gesù ci ha insegnato. Questo è troppo poco.
Quanto è importante l’esperienza nel metodo educativo di Giussani?
Giussani è nato e cresciuto nella cattolicissima Brianza del XX secolo. Basti pensare che da bambino andava a messa alle sette del mattino e che è entrato in seminario a soli undici anni, cose abbastanza comuni a quei tempi. Era una società che molti a stento oggi riescono a immaginare. Il cristianesimo sembrava permeare nel concreto ogni aspetto della vita: segnava lo scandirsi del tempo, dello spazio, delle relazioni e dei costumi.
Eppure, Giussani si accorse che qualcosa stava cambiando. Anzitutto in sé. Nella sua tormentata adolescenza, trovò un compagno alle sue “inquietudini” non tanto in qualche pratica di devozione, ma nel poeta Giacomo Leopardi. Poi, appassionandosi nel dialogo con alcuni ragazzi in confessionale o in treno, realizzò che anche in quella società, esteriormente cristiana, si stava verificando uno scollamento. Lo scollamento tra il modo di affrontare i problemi della vita (gli affetti, lo studio e il lavoro, la politica) e l’annuncio cristiano.
Quel cristianesimo in cui era nato e cresciuto, puntuale nelle sue prescrizioni, rischiava di restare un apparato di principi e norme che poco aveva da dire a quel nucleo di esigenze originali di verità, di giustizia, di felicità e di amore che sono costitutive della nostra umanità, perché danno «fuoco e tensione a ogni nostra parola, urgenza a ogni nostro problema» (Thomas Mann).
Giussani, si rese conto, in questo modo, che l’unica via in grado di sanare lo scollamento tra principi cristiani e realtà umana poteva essere il cammino dell’esperienza: “Il cammino al vero è un’esperienza”, come afferma il titolo di uno dei suoi scritti.
Cosa significa questo?
La via dell’esperienza è la via del cristianesimo. L’aveva scoperta lo stesso Giussani, quando aveva sedici anni, durante una lezione al Seminario di Venegono. Quel bel giorno si accorse che il cristianesimo era l’annuncio del fatto che Dio, la Bellezza, si era fatto carne, si era reso esperienza concreta in Gesù di Nazareth, per rispondere alle domande costitutive di ogni uomo, anche del seminarista Luigi e del poeta Giacomo. Il bisogno di partire dall’esperienza è perciò un’urgenza esistenziale nella vita dello stesso Giussani e, di conseguenza, ciò che distinguerà il suo metodo educativo.
Personale non soggettivistico
Perché nell’approccio di Giussani l’esperienza non è qualcosa di soggettivistico?
Come ancora oggi si può sentire in qualche audio, Giussani possedeva un impeto nell’annuncio che restituiva il senso originario alle parole. Questo è il caso della parola “esperienza”.
Nel linguaggio comune, non per forza filosofico, la parola “esperienza” indica qualcosa che si prova nella solitudine della propria intimità e risulta anche, in qualche modo, incomunicabile.
Non è così per Giussani. L’esperienza è per lui qualcosa che coinvolge sì la persona, ma nella sua totalità, fino a farla maturare; non è un semplice provare, ma è accorgersi di crescere. Con personale, perciò, intende tutt’altro che soggettivistico.
Cioè…
Pensiamo all’esperienza del cieco nato che ritorna a vedere grazie al miracolo compiuto da Gesù. Quest’esperienza, certamente personale, lo aveva stravolto, ma era tutt’altro che soggettivistica. Quel miracolato non può non toccare i suoi occhi che per la prima volta scoprono il volto delle cose, senza pensare al momento della guarigione, senza tornare continuamente all’impatto suscitato dalla potente figura di Gesù. È sempre e solo un fatto fuori di noi, un fenomeno oggettivo che mette in moto le viscere della nostra interiorità.
In secondo luogo, a dispetto delle provocazioni della folla, dei farisei e persino dei genitori, c’è qualcosa di oggettivo, il cuore di quell’uomo, che non cedendo alle lusinghe del comodo, dell’istinto e della popolarità, dà un giudizio: “Non si è mai visto che un uomo che era cieco dalla nascita abbia riacquistato la vista”. Questo giudizio è frutto del paragone con un criterio non manipolabile che è dentro ognuno di noi, il nostro cuore, a dispetto delle tendenziose pressioni che provengono dall’esterno.
Infine, l’intelligenza e la libertà, la baldanza e persino l’ironia delle risposte del cieco guarito, fino all’incontro con Gesù, mostrano un terzo livello d’oggettività. Se un’esperienza è vera, permette di vivere in modo adeguato tutta la realtà, corrispondendo alla totalità dei fattori, perché un’esperienza è tale se fa crescere il soggetto e lo introduce al significato ultimo di ogni cosa. Un povero ignorante, grazie all’esperienza che fa del vero, si mostra più acuto nel vedere il fondo della realtà di tanti uomini colti, pieni di pregiudizi, ma privi di esperienza.
Questi sono per Giussani i tre “vettori” di oggettività di un’esperienza: l’inizio da fatto oggettivo fuori di noi, il criterio oggettivo del cuore che giudica l’esperienza, la verifica di ciò che ci ha fatto crescere in modo pienamente adeguato, corrispondente alla totalità del reale.
Come ha perciò detto, nell’esperienza, come la descrive Giussani, ci sono tre fattori: un fatto, la percezione del suo significato e la coscienza della corrispondenza. Come si sviluppano questi fattori?
In un suo scritto del 1963, Giussani dichiara che questi tre fattori sono simultaneamente implicati all’interno dell’esperienza. La nostra mentalità tende a scomporre questi elementi e a contrapporli. Credo che questo accada perché ci manca anzitutto un’adeguata comprensione del primo fattore, cioè della verità come avvenimento.
Anche oggi c’è chi si illude che l’annuncio cristiano, per trovare nuova efficacia, debba ricercare una chiara ripetizione e una netta riaffermazione della “sana dottrina”, almeno per salvare l’essenziale dei principi. La verità cristiana, però, non si lascia ridurre ad un “pacchetto di dogmi” – come diceva il cardinale Ratzinger al funerale dello stesso Giussani – che non interessano la drammatica complessità della vita.
Se, invece, la verità cristiana è un avvenimento, una vita che accende vita intorno a sé, non c’è altra via per riconoscerla se non coinvolgendosi con questa vita, cioè facendone esperienza. Solo grazie al coinvolgimento di un’umanità viva, ragionevolmente e affettivamente impegnata con l’avvenimento che la sta afferrando, si arriverà a percepire l’eccezionale novità del cristianesimo.
Ancora una volta, come ci ha testimoniato tante volte proprio don Giussani, diventa tutto più chiaro, se torniamo al Vangelo e pensiamo a Giovanni e Andrea o agli altri primi discepoli di fronte a quest’uomo eccezionale, il figlio di Maria, che era stato loro additato da Giovanni Battista.
Se Dio è entrato nella storia come un avvenimento di vita, un uomo eccezionale con cui trascorrere appassionatamente intere giornate, cosa ha permesso di comprenderne la portata? Non chi scrutava le Scritture cercando di coglierlo in fallo, ma chi gli ha chiesto “dove abiti” e, dopo quel pomeriggio, trascorso con lui, portandogli tutte le croci della propria vita, ha fatto esperienza di una tale corrispondenza tra sé e quello che quell’uomo era, da correre da amici e fratelli a dire: “Abbiamo trovato il Messia”.
Se non si sorprendono in simultanea dentro l’avvenimento di un unico incontro i tre fattori dell’esperienza cristiana (l’evento, la percezione del significato, la coscienza della corrispondenza), inevitabilmente si isolano questi tre fattori e non si fa esperienza.
Non solo la verità si cristallizza in una dottrina, ma anche la percezione si riduce alla proiezione dei propri preconcetti, e, cosa più diffusa, la corrispondenza viene interpretata come lo sforzo moralistico per adeguarsi nel concreto della vita al messaggio cristiano.
Autorità della Chiesa
Torniamo al primo fattore all’interno dell’esperienza cristiana. Nell’esperienza cristiana, l’autorità della Chiesa è un fenomeno esterno o interno all’esperienza stessa del credente?
Vede, la contrapposizione tra autorità e soggetto, tra eteronomia e autonomia, tipiche della mentalità moderna, cadono nella concezione di esperienza di Giussani.
All’inizio di tutto, c’è certamente il fatto di qualcosa che proviene “autorevolmente” dall’esterno: dal nome che mi danno i miei genitori e non mi sono scelto, alla lingua che mi hanno insegnato senza il mio assenso, fino al battesimo e alla storia nata da Cristo che mi raggiunge autorevolmente attraverso l’insegnamento del Papa, dei vescovi e la vita quotidiana della comunità a me più prossima.
Tutto questo è indubbiamente un fenomeno esterno a me, ma non solo. Se restasse puramente esterno, potrebbe anche lasciarmi indifferente, oppure venire trascurato, strumentalizzato, manipolato, se non rifiutato. Come, d’altra parte, è accaduto a scribi e farisei con l’autorità della Legge. In nome di quell’autorità, estrinsecamente concepita e strumentalmente interpretata, hanno persino condannato a morte colui che era il compimento della Legge.
L’autorità non può restare solo esterna…
Non può restare solo esterna, ma diventa comprensibile nella sua portata nella misura in cui ne viene percepita la pertinenza alle esigenze della vita, la corrispondenza all’esperienza elementare dell’uomo.
All’interno dell’esperienza, perciò, l’autorità si afferma proprio per la sua capacità di mettere in moto il cuore dell’uomo e farlo sussultare come nient’altro è capace di fare. «Questo sì che parla con autorità» – dicevano le folle sentendo Gesù –, perché riconoscevano di trovarsi davanti a un uomo che non si appellava alla Legge come principio, ma che incarnava in sé tutta la pienezza della Legge in un modo nuovo e unico, fino a lasciarli senza parole, pieni di stupore.
Queste espressioni della gente semplice davanti a Gesù, che il Vangelo ci regala, non sono forse il segno dell’esperienza dell’autorità che Gesù ha introdotto nel mondo, o dobbiamo considerarle solo come pennellate sentimentali di cui ogni cristiano a un certo punto può fare a meno nel proprio cammino di fede?
A ben vedere, il primo luogo in cui abbiamo visto con chiarezza un’autorità esterna non contrapporsi all’interiorità dell’uomo è proprio nella coscienza che Gesù aveva del rapporto col Padre. Quell’autorità istante per istante veniva riconosciuta come la verità della propria vita: «il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre». In queste affermazioni, secondo lei, c’è contrapposizione tra autorità esterna e soggettività interna o si ritrova l’origine di quell’unità tra autorità e libertà che si dà anzitutto e soprattutto nell’esperienza cristiana?
Gesù viveva una corrispondenza nel rapporto col Padre, ma noi, uomini feriti dal peccato originale, non rischiamo di scambiare la corrispondenza con l’istintività o con la mentalità comune?
Non so lei, ma io corro ogni giorno questo rischio di identificare ciò che mi corrisponde con ciò che mi pare e piace o con ciò che altri suggeriscono. E le posso “confessare” una cosa? Spesso, con la mia libertà, nonostante io riconosca dov’è il bene, mi capita di scegliere il male. Non solo sbaglio nel riconoscere ciò che mi corrisponde, ma anche decido di non seguirlo. Mi sa che capitava anche a san Paolo questa cosa….
Ma sa cosa mi sorprende? Che, sempre, l’errore non mi corrisponde! C’è in me qualcosa di irriducibile alle mie scelte sbagliate, come un nucleo incandescente. Scriveva Franz Kafka che neanche la più pazza educazione (e neanche gli errori più efferati, aggiungerei io) sono riusciti a spostare questo «centro di gravità», questo cuore in grado di sussultare davanti a ciò che è più buono, più vero, più giusto della situazione in cui mi trovo. Posso fare di tutto per ignorare, trascurare questo richiamo dentro di me, ma non posso strapparmelo di dosso, perché è un complesso di evidenze e di esigenze di cui Dio mi ha costituito e nessuno può levarmelo di dosso.
Come richiamato da Ezio Prato recentemente, una concezione protestante, non accettata dal Concilio di Trento, ci spinge a credere che l’uomo, a causa del peccato originale, sarebbe ormai privato della sua impronta creaturale. Invece, già san Tommaso affermava che anche negli infedeli resta pur sempre una «certa conoscenza della verità», quanto meno dell’insufficienza del proprio errore.
È questo “nucleo incandescente”, questo “centro di gravità”, questa “certa conoscenza”, questo “cuore” che registra una corrispondenza inaudita quando peccatori seriali e conclamati (pensi a Zaccheo, la Samaritana, il buon ladrone) incontrano Gesù. Nessuna malefatta era riuscita a spegnere in loro la sete di quell’acqua che solo Gesù stava finalmente portando alla loro vita.
Questo determina la forma di essere nel mondo dei cristiani?
Credo che il punto su cui la cultura nichilistica, nata all’ombra della cristianità, provochi maggiormente i cristiani di oggi è sulla ricerca di una ragione valida per credere nella bontà originaria del cuore umano, nel suo “fiuto per la verità” – come spesso dice Papa Francesco.
È una bella provocazione. Perché, in effetti, se non si trova nel cuore dell’uomo qualcosa di irriducibile al nulla che sembra travolgere ogni cosa, cosa resterebbe ai cristiani? Forse solo la ricerca di una (pur sempre provvisoria) messa a punto dei comportamenti morali incentrata sul timore e sull’accusa degli errori. Ricordiamoci, d’altronde, che sulla paura di sbagliare, Gesù ci ha fatto fare un bel salto in avanti rispetto al grande Giovanni Battista, con una sola domanda, la sua prima domanda, che esprime il suo sguardo pieno di passione nei confronti di ogni cuore umano: «che cosa cercate?».
Corrispondenza
Per chiarire ancora. Come interpretare allora il termine «corrispondenza»? Perché la corrispondenza non è un fenomeno soggettivistico?
La corrispondenza è un giudizio non a freddo, ma pieno di affezione, raggiunto secondo il criterio oggettivo che è in noi, il “cuore”, di cui abbiamo appena parlato.
Il primo passo per me decisivo, come mi ha insegnato più volte Julián Carrón, è riconoscere in questo cuore il criterio di giudizio per comprendere cosa corrisponde. Tutti sentiamo l’urto del cuore che bussa dal di dentro – come scrive la poetessa russa Elena Švarc. Ma non è detto per questo che lo usiamo come criterio di giudizio. Questo è impopolare, perché molto spesso preferiamo usare come criterio il ben pensare dei più o di chi fa la voce più grossa o di chi detiene qualsiasi forma di potere o il nostro calcolo politico o la nostra immagine di bene comune o, più banalmente, il nostro istinto. Sa come definisce don Giussani tutti questi casi in cui il criterio di giudizio non è il cuore? Alienazione, cioè la perdita della verità di sé e la connivenza col potere di questo mondo.
Invece, usando questo criterio, cioè paragonando con questo criterio tutto ciò che ci capita e ci viene proposto, possiamo riconoscere ciò che è più o meno corrispondente, cioè più adeguato a quella struttura originaria che ci costituisce. Questo riconoscimento è un giudizio. Il giudizio è perciò più corrispondente quanto più tiene conto di due grandezze. Da una parte riconosce ciò che come non mai viene incontro alla totalità delle esigenze del nostro cuore (verità, bontà, giustizia, amore); dall’altra tiene conto della totalità dei fattori della realtà che voglio giudicare.
Ciò non toglie che, in nome della corrispondenza, si possono dare giudizi parziali, imperfetti o persino sbagliati. Ma è sempre in nome della corrispondenza che mi accorgo dell’errore e questi giudizi possono essere riformulati e corretti, perché la nuova formulazione – lo dico ancora una volta – è più corrispondente al mio cuore e più adeguata alla totalità dei fattori del fenomeno in cui mi imbatto.
Un esempio
Torniamo al Nuovo Testamento dove tutto risulta più semplice. San Paolo perseguitava i cristiani, proprio in nome delle esigenze del suo cuore, che trovavano espressione in una fede ardente e combattiva nel Dio di Israele. La persecuzione per lui era ciò che più corrispondeva alla sua natura di israelita senza macchia e il modo più adeguato nell’affrontare la realtà della setta dei seguaci di Gesù, perché stavano seminando confusione dentro il popolo di Israele.
Ad un certo punto, però, accade qualcosa, resta accecato e ascolta una voce. Si accorge che c’erano ampi pezzi di sé e della realtà che sfuggivano al suo giudizio di prima. Quella voce accecante gli viene incontro in modo ancora più corrispondente ed evidente alla sua natura d’uomo: si rende conto che la realtà di quei presunti “eretici” era molto più grande e profonda di quel che prima aveva visto. Non si trattava di una setta, ma del popolo di Dio. Per questo, sempre in nome della corrispondenza, il giudizio di Paolo cambia: da persecutore, diventa convertito. Il suo desiderio che lo spingeva a perseguitare era abbracciato, superato e perciò trasfigurato dal suo desiderio di conversione. Convertirsi, adesso, era più corrispondente.
La fede, quindi, è un’esperienza di corrispondenza?
Scusi se riprendo alcune delle cose già dette. Giussani non permette di concepire nessuna parola in astratto, ma la coglie sempre in atto, nella sua relazione costitutiva: esperienza non è puro sentimento interiore, ma riconoscere ciò che accade; la libertà non è autonomia, ma dipendenza vissuta da ciò che ci genera; il cuore non è soggettivismo, ma impronta creaturale. Allo stesso modo, la fede non è assenza di ragioni, ma il vertice della ragione che riconosce di chi si può fidare, in tutti gli ambiti della vita: dall’ingegnere che ha progettato il palazzo dove poggio i miei piedi, all’amico che mi invita a cena, fino alla Presenza a cui consegnare tutta la mia vita.
Ma come l’uomo giunge a questa certezza morale, cioè alla certezza sui rapporti? Che percorso hanno compiuto Pietro, Giovanni e Andrea per arrivare ad affermare di Gesù: «Mio Signore e mio Dio»? Si tratta dello stesso percorso che abbiamo finora descritto.
Da quando Gesù è venuto sulla terra, l’uomo continua ad essere raggiunto dall’annuncio di un avvenimento, un avvenimento che ha la forma di un incontro. E il cuore dell’uomo, di fronte a questo incontro, continua a sussultare, a rimanere sorpreso, stupito, sperimentando una corrispondenza inaudita: per questo si fida. È già questo un primo passo della fede: una fede che viviamo anche nelle relazioni quotidiane, ma che con Gesù si illumina nel suo funzionamento e si potenzia, perché nessuno come Lui corrisponde al cuore.
Ma, il cuore, che ragione adeguata dà della totalità di questo fenomeno? Si potrebbe fermare alla sua esteriorità (le qualità umane di Gesù un tempo, la bellezza della compagnia cristiana oggi, eccetera), ma ancora non darebbe ragione adeguata alla totalità dei fattori sperimentati. Perciò, se vuole trovare ciò che è più adeguato, la ragione si allarga, si protende, prova a dare delle spiegazioni e, come portata oltre le proprie misure, si spalanca in una domanda: «Chi sei tu? Ma come fate ad essere così?».
Ma come? Abbiamo i Vangeli, abbiamo il credo, abbiamo la dottrina cristiana, abbiamo la testimonianza della Chiesa e c’è gente che ancora oggi continua a chiedersi: «Cosa rende possibile tutto questo?». Il sorgere di questa domanda è proprio il segno che l’esperienza della fede sta accadendo ora e non stiamo palleggiando da soli contro un muro con la palla dei concetti cristiani. Come è accaduto a un uomo come Giussani, che alla fine della sua vita, ancora cercava Gesù, cercava di capire chi era, attratto dal mistero della sua presenza. Ma è accaduto anche quest’estate, a un ragazzo universitario dopo aver partecipato a una vacanza di una comunità di CL, quando ha commentato sorpreso: «voi non solo parlate di Cristo, ma voi cercate Cristo».
Quando sorge questa domanda, la fede è spinta a un passo in avanti. La fede in quella presenza, suscitata dalla corrispondenza sperimentata, si apre al riconoscimento della grazia che quel fenomeno dice di avere in sé, confermata da tutta la tradizione vivente della Chiesa: «queste persone sono così perché Lui, Gesù, è qui, presente tra noi». La fede – come spesso ha detto Giussani – è riconoscere una presenza, una presenza non visibile, ma più che mai sperimentabile: la presenza del divino in un segno umano.
La gente che vide Gesù risuscitare il figlio della vedova di Nain, esprime questo giudizio: «Dio ha visitato il suo popolo». È questa l’esperienza della fede.
Ma se è qualcosa di cui fare esperienza nel presente, a cosa serve la tradizione?
Quando ci si accorge che Cristo è qualcosa che mi accade ora e mi è contemporaneo, ci si può rende conto di tutto il valore che i vangeli, la tradizione, le vite dei santi hanno: quando ci accade ciò da cui queste realtà sono nate, le comprendiamo sempre come nuove e le ritroviamo come una risorsa fondamentale per il cammino.
Il riconoscimento della fede è quindi un’esperienza di grazia. Ma se è una grazia, è ancora esperienza?
Io non posso riprodurre da solo in laboratorio l’esperienza della fede, neanche con tutta la mia memoria di Gesù e il bagaglio delle esperienze passate. Occorre che Lui accada ancora adesso, col suo metodo inconfondibile, sorprendente e corrispondente come non mai, sempre creativo e mai violento.
Eppure, questo suo accadere porta in sé un tratto di verificabilità. Rende più umano l’umano. Si tratta di quel centuplo promesso da Gesù a chi lo seguiva.
Molto spesso si scambia la verifica della fede con il mettere in pratica i principi cristiani che Gesù ci ha insegnato. Questo è troppo poco.
La verifica della fede è la constatazione, anche nel mezzo dell’errore e attraverso il sacrificio della croce, di come la presenza di Cristo ogni volta riesce a rivelarsi come l’ipotesi più persuasiva per il cuore dell’uomo, più in grado di abbracciare ogni aspetto, anche quello più complesso e contraddittorio, della realtà.
La fede, perciò è un dono di grazia, ma è una grazia la cui opera è pienamente sperimentabile e verificabile già in questo mondo: è, se opera.
Per questa ragione, la Madonna resta per tutti i cristiani quel vertice dell’umano dove la potenza della fede ha già toccato in pienezza la corruttibilità della carne. La sua assunzione in cielo rappresenta la primizia di quel centuplo a cui tutti noi siamo già chiamati in questa terra.
Come scrisse don Giussani verso la fine della sua vita e oggi è scritto sulla sua tomba: «Oh Madonna, tu sei la sicurezza della nostra speranza».
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