Dall’esperienza alla speranza

Daniele Nembrini.* Carissimi amici, con gratitudine e commozione giungiamo al termine di questo ciclo di incontri* “Il brillìo degli occhi”, promosso dalla Fondazione San Michele Arcangelo; tra l’altro, vi porto i più calorosi saluti del Presidente, nostro caro amico, Luca Baravalle, che non ha potuto essere qui, questa sera, per impegni istituzionali.
Desidero, anzitutto, ringraziare di cuore don Julián e don Eugenio per la loro presenza, per la loro paternità discreta e profonda. Come ci ricordano, non si è padri se non si è figli: solo vivendo da figli, cioè affidandoci, possiamo diventare a nostra volta padri, cioè capaci di generare. Grazie al cammino percorso fin qui, abbiamo potuto riscoprire che il criterio di giudizio non ci è estraneo, ma abita nel cuore di ogni uomo: è una possibilità reale data a ciascuno per verificare in piena libertà se ogni circostanza, anche la più imprevista, o la più faticosa – e noi della San Michele ne sappiamo qualcosa – può essere un fattore essenziale per la nostra vocazione.
Al centro di tutto questo c’è un fatto avvenuto 2000 anni fa, che continua a raggiungerci oggi attraverso volti e parole che ci fanno compagnia e ci destano: è questo incontro che tiene viva la nostra umanità, ci educa a guardare ogni cosa con occhi nuovi. È grazie a questa esperienza che il criterio si risveglia e si illumina, permettendoci di riconoscere il brillìo negli occhi, segno che la vita anche oggi è una chiamata alla speranza e alla responsabilità.
Concludo, come ci ha sfidati recentemente Papa Leone XIV: «Non si tratta di dare, a domande impegnative, risposte affrettate, quanto piuttosto di farsi vicini alle persone, di ascoltarle, cercando di comprendere con loro come affrontare le difficoltà, pronti anche ad aprirsi, quando necessario, a nuovi criteri di valutazione e a diverse modalità di azione, perché ogni generazione è diversa dall’altra e presenta sfide, sogni e interrogativi propri»[1].
Grazie a ciascuno di voi di essere qui questa sera.
Don Eugenio Nembrini. Quindi, cominciamo. Certo che, in questi giorni, ad aprire al mattino il giornale e dire “c’è speranza”… ci vuole coraggio! Sembrerebbe che tutto dica esattamente il contrario.
Stasera vogliamo concludere il lavoro che abbiamo fatto quest’anno, con una sessantina di persone in presenza e tanti collegati. Visto che il grande tema era la “speranza”, abbiamo lavorato su questo libro[2] che tu conosci benissimo e noi siamo felicissimi di poter concludere questo lavoro, questo tentativo che abbiamo fatto, proprio con te. Visto che l’hai scritto, ti chiediamo di aiutarci in quel passo di serietà e maturità che ci interessa: vogliamo diventare grandi, lieti e certi. Comincio io con una domanda semplicissima. Se l’avessi scritto io il libro – non è possibile! –, però, se l’avessi scritto io, avrei messo tre punti esclamativi alla fine del titolo. Perché dico: “Certo che c’è speranza! Anzi, te la racconto”. Come mai hai fatto un libro dal titolo C’è speranza? con il punto di domanda? Vuoi lasciare aperto il dubbio? Partiamo così. E poi chi ha preparato domande…
Julián Carrón. Salve a tutti. Buonasera. Approfittiamo dell’occasione per affrontare direttamente questa domanda, perché, quando abbiamo scelto il titolo degli Esercizi spirituali, qualche anno fa, ce lo siamo chiesti: se fosse stato meglio porre un’affermazione o una domanda. Non una domanda qualsiasi: c’è una vera speranza? C’è speranza?
Perché, quindi, abbiamo deciso di porre la domanda? Volevamo, in un certo senso, abbracciare qualsiasi situazione umana, qualsiasi persona a cui fosse rivolta. Se si fa un’affermazione, è come se si escludesse qualcuno, che non ha la speranza. Invece, se uno pone una domanda, che sente proprio sua, tutti si sentono coinvolti, per il fatto che qualcuno prende sul serio anche i loro interrogativi. Ma si può pensare che questo riguardi solamente chi non è cattolico, mentre è una questione particolarmente interessante soprattutto per chi lo è, per tutti noi.
Mi ha sempre colpito una frase di Giussani di qualche anno fa, in cui descrive la situazione esistenziale in cui viviamo la fede. Dice: «Noi cristiani nel clima moderno siamo stati staccati non dalle formule cristiane, direttamente [la speranza, la carità, le risposte cristiane…], non dai riti cristiani, direttamente [ancora qualche rito resta], non dalle leggi del decalogo cristiano, direttamente [oggi sempre di più]. Siamo stati staccati dal fondamento umano, dal senso religioso. Abbiamo una fede che non è più religiosità. Abbiamo una fede che non risponde più come dovrebbe al sentimento religioso; abbiamo una fede cioè [questa è la conseguenza del saltare le domande] non consapevole, una fede non più intelligente di sé»[3]. Mi sembra che, spesso, abbiamo ripetuto “c’è speranza” dandone per scontato il significato. Quindi, se una persona ripete le cose senza porsi la domanda in modo consapevole, anche se conosce la risposta essa non risponde come dovrebbe al sentimento religioso. La conseguenza è una fede non consapevole di sé. Questo lo vediamo benissimo, perché è proprio una fede non consapevole di sé che porta poi a perdere la fede. Quello che stiamo vivendo, questo distacco di cui parla Giussani, è perché per tanti anni abbiamo ripetuto le formule cristiane senza essere consapevoli della domanda umana a cui esse rispondevano. Quindi, la scelta del “punto interrogativo” nel titolo non è semplicemente per il desiderio di abbracciare tutti, è prima di tutto per l’urgenza che abbiamo di non ripetere delle formule, in modo formale, perché, alla fine, ha le conseguenze che vediamo. Non è che non parliamo della fede – attenzione – sinceramente, non metto in dubbio la sincerità di nessuno, ma una cosa è la sincerità, un’altra cosa è la consapevolezza di quello che diciamo. E questo si vede quando la vita ci sfida.
Tante volte ci sorprendiamo perché quello che pensavamo fosse sufficientemente radicato in noi, in realtà non lo era. Possiamo ripeterlo, ma l’urgenza del vivere ci spinge di nuovo a prendere sul serio le domande, per poter fare il cammino che non abbiamo fatto. Mi stupisce che questa sensibilità, che noi abbiamo imparato in tante occasioni da don Giussani, è quello che urge oggi, come diceva nell’introduzione Daniele, citando Papa Leone, il quale in pochi mesi lo ha ripetuto in molte occasioni. Oltre al brano letto da Daniele, il Papa, in un videomessaggio rivolto ai giovani di Chicago, ha detto: «Tutti viviamo con tante domande nel nostro cuore. Sant’Agostino parla così spesso del nostro cuore “che non ha posa” e dice: “Il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te, Signore”». Poi aggiunge: «Questa inquietudine non è una cosa negativa, e noi non dovremmo cercare modi per estinguere il fuoco [di questa inquietudine], per eliminare o addirittura anestetizzarci alle tensioni che sentiamo, alle difficoltà che sperimentiamo. Dovremmo piuttosto entrare in contatto con il nostro cuore e riconoscere che Dio può operare nella nostra vita, mediante la nostra vita e, [proprio!] attraverso di noi, raggiungere altre persone»[4]. Solo se abbiamo questa percezione delle domande possiamo, poi, facilmente – o almeno, più facilmente – raggiungere altri che le hanno. Ed evitare la “lezioncina religiosa” di fronte alle domande, come spesso facciamo invece di percorrere con le persone il cammino che le rende consapevoli delle domande e le porti a trovare la risposta.
Proprio l’altro ieri, Papa Leone si è rivolto ai Vescovi italiani e ha ripetuto in un altro modo la questione: «In questo scenario, la dignità dell’umano rischia di venire appiattita o dimenticata [perché, se viene meno la domanda, la dignità viene appiattita o dimenticata], sostituita da funzioni, automatismi, simulazioni»[5]. Quando queste questioni fondamentali sono appiattite, invece di cercare una risposta vera, adeguata alla drammaticità della domanda, sostituiamo le risposte con funzioni, ruoli, automatismi, oppure simulazioni. «Ma la persona non è un sistema di algoritmi: è creatura, relazione, mistero. Mi permetto allora di esprimere un auspicio: che il cammino delle Chiese in Italia includa, in coerente simbiosi con la centralità di Cristo, la visione antropologica come strumento essenziale del discernimento pastorale», del cammino dell’annuncio cristiano. Altrimenti diamo risposte a domande che non viviamo, come abbiamo provato a fare tante volte, con le conseguenze che adesso sono palesi a tutti.
Giussani ha cominciato il movimento dopo essersi imbattuto nelle risposte dei tanti ragazzi che aveva a lezione, i quali avevano vissuto anni di catechesi, oltre all’iniziazione cristiana con il Battesimo e la Cresima, ore e ore di oratorio… Ma, dopo un po’, tutto si era svuotato e tanti avevano già svoltato. E allora, lui cosa ha fatto? Quello che stiamo dicendo: proporre la fede in modo ragionevole. Mostrare, cercare di mostrare, la pertinenza della fede alle esigenze della vita. Questo è un lavoro che occorre fare costantemente, non una volta ogni tanto, ma ogni mattina, quando si è subito appesantiti dalle preoccupazioni, al solo risveglio… “Ma c’è speranza?”. Non stiamo parlando di un lontano passato, ma di ogni mattina. Perciò, come dice il Papa, questa percezione dell’umano è strumento «essenziale» della comunicazione della fede. Se c’è qualcuno che lo può capire, siamo noi che abbiamo incontrato il carisma di don Giussani, perché quello che ha fatto lui è stato proprio questo: il punto di partenza per sperimentare che Gesù non è un puro nome, una parola in fondo vuota, è la percezione di sé. Solo chi ha questa tenerezza con se stesso, una piena coscienza di sé, del proprio dramma, potrà capire il significato di Cristo, che altrimenti sarà pronunciato come un puro nome.
Continua il Papa: «Senza una riflessione viva sull’umano – nella sua corporeità, nella sua vulnerabilità, nella sua sete d’infinito e capacità di legame – l’etica si riduce a codice [cose da fare, che non percepiamo come adeguate alle esigenze del vivere], la fede rischia di diventare disincarnata»[6]. Una fede, quindi, direbbe Giussani, non ragionevole, non percepita in tutta la sua consapevolezza.
Per questo motivo, mi sembra che non si tratti semplicemente di un problema di “punto interrogativo” nel titolo, ma che dietro questo “punto interrogativo” ci sia il metodo dell’annuncio cristiano. Ciascuno lo può vedere nella propria vita, perché il tentativo di rispondere alla tua domanda non sia formale: per noi, ogni istante, ogni momento del vivere, ha dentro questa drammaticità o è un vuoto formalismo? Tante volte, in fondo, ci svegliamo già appiattiti. Penso a una persona, con cui ho fatto un incontro la settimana scorsa a Madrid: si stupiva nel sentir parlare di questa drammaticità del risveglio. È come se, fin dal primo istante, l’appiattimento avesse già stravinto.
Nembrini E. C’è di bello che, nel lavoro che abbiamo fatto quest’anno, c’era ben poco appiattimento, anzi! La realtà, per tanti tra noi che erano presenti, ha toccato, ha provocato domande, che sono emerse. Per cui cominciamo.
Alessandra. La cosa che mi aveva colpito di più era proprio quel “punto interrogativo”, da sempre, che accende e mette in moto il lavoro personale. La risposta, infatti, non è preconfezionata. A questo proposito, mi hanno colpito, nel lavoro che abbiamo fatto, proprio i tre criteri che Giussani elenca per capire quando ci si può fidare di una persona o di un luogo. Questo gioco di capire, nell’altro e in se stessi, se i criteri sono veri, ti porta alla vera corrispondenza, come in un vero rapporto d’amore. Puoi spiegare meglio questo? Io l’ho visto come dinamismo, ma puoi spiegarlo meglio? Perché intuisco che quei tre criteri uno li fa suoi e poi li intercetta anche nell’altro, e viceversa. Però volevo capire se ho capito, ecco.
Carrón. No, io voglio capire esattamente qual è la tua domanda.
Alessandra. Se puoi spiegare meglio i tre criteri.
Carrón. Ma perché, che cosa ti ha colpito?
Alessandra. Mi ha colpito che, nella mia esperienza, quando io colgo questi tre criteri…
Carrón. Facci qualche esempio di dove li vedi.
Alessandra. Li ritrovo in me. Adesso non so spiegare, però, quando colgo in un rapporto che una persona è vera con me, mi chiedo: “Ma io, questi criteri, questa gratitudine, questa lealtà, li ho da donare anche all’altro?”. È un ridonare all’altro quello che vorrei in me stessa. Quindi, vorrei capire se ho capito… questa cosa per me è vera, perché capisco che mi fa camminare.
Carrón. Dove hai visto che è vera? Un esempio. Perché questo è il lavoro da fare, non potete pensare che io faccia il lavoro al vostro posto, dimenticatevelo!
Alessandra. Adesso così non mi viene…
Nembrini E. Ci pensi.
Isabella. Sono molto grata per il lavoro fatto insieme quest’anno sul tuo testo e ne approfitto per chiederti ancora un aiuto. Quattro anni fa, mi è stata diagnosticata la sclerosi multipla, che ha richiesto un cambiamento radicale della mia vita e mi ha introdotto a una coscienza nuova, che posso riassumere con le parole di don Eugenio: «Il punto, davanti alle cose, non è cosa fare, ma starci». Poi è arrivato Pietro, il nostro primo figlio, che è volato in Cielo durante il settimo mese di gravidanza. Anche in questo caso, è arrivata una frase di don Eugenio: «Il punto è se si tratta di un dolore disperato o di un dolore con Cristo». Ho capito che tanto più vivo era ed è quel dolore, tanto più viva è la domanda che Cristo si mostri nelle mie giornate. È proprio così che posso dire che Cristo ha vinto anche dentro quella morte. Arrivo al punto. Ci è stata fatta un’altra grande grazia: aspettiamo il piccolo Matteo. Come Pietro, da subito ci è stato chiaro che quella vita ci era stata donata. Allo stesso tempo, però, in me si è introdotta l’ansia e la paura che anche lui possa volare in Cielo anzitempo: ansia che, in alcuni momenti, diventa davvero grande. A volte, anche dopo tutto quello che abbiamo vissuto, mi ritrovo a dire quello “sperèm” totalmente sterile. Poco prima di una visita al piccoletto, un’amica dei Quadratini mi ha scritto: «Prego perché sia fatta la Sua volontà», e io ho ripetuto il Padre Nostro pensando che, se per una volta la mia e la Sua volontà coincidessero, non sarebbe tanto male. Raccontando questo a don Eugenio, mi ha detto: «Prega che vada tutto bene e che sia fatta la Sua volontà: le due cose coincidono». Da quel giorno, prego perché il piccoletto cresca e stia bene e perché cresca anche la mia fede; perché io faccio fatica ad avere questo affidamento totale a Cristo, ed è su questo che ti chiedo un aiuto. A volte mi chiedo se la mia non sia una fede piccola e sterile, incapace di generare la speranza certa di cui ci hai offerto tanti esempi nel tuo libro.
Carrón. I criteri di cui parlava prima Alessandra emergono nell’impatto con la realtà. Isabella potrebbe essere stata appiattita, tante volte, dando tutto per scontato, ma una sfida come quella che ha dovuto affrontare ha risvegliato tutta la sua esigenza. E dopo aver attraversato quei momenti, di nuovo adesso, davanti a Matteo, tutto si amplifica ancor di più. Quindi, che cosa vediamo nell’esperienza? Spesso tendiamo a pensare che questi siano ragionamenti artificiosi e un po’ astrusi che dobbiamo fare lungo il cammino, invece no. Dice Giussani, rispetto ai criteri di cui si parlava: «Nell’esperienza, la realtà di cui prendi coscienza e che provi – da cui, cioè, tu sei colpito, scioccato (affectus) – ti fa balzare fuori i criteri del cuore, ti desta il cuore che prima era confuso e dormiva, perciò ti desta a te stesso. Lì incomincia il cammino tuo, perché sei desto, critico»[7]. Diventi cosciente di te stesso. Quindi, questo, come succede? Spesso la nostra mitica domanda è: “Ma come si fa?”. Come se fosse qualcosa di macchinoso, solo per addetti ai lavori, per persone che non hanno altro da fare che elucubrazioni mentali. No, la vita urge! E più urge, più ti sfida. Lo abbiamo ripetuto più volte: chi si vedrà risparmiata la fatica del vivere non potrà prendere consapevolezza di sé, risvegliarsi ed essere realmente cosciente di sé, della propria esigenza umana e della vibrazione della propria ragione! Tu non hai dovuto fare un cammino macchinoso per risvegliare tutta l’urgenza della tua ragione. Ti è venuta fuori semplicemente vivendo! E poi ancora, dopo il percorso fatto, non è venuta meno davanti a quello che hai vissuto e davanti all’attesa di Matteo: è ancora più viva!
Noi, in fondo, pensiamo che Cristo venga per appiattire tutto: una volta che abbiamo attraversato la situazione, tutto si appiattisce. In realtà, se osserviamo cosa succede, è proprio il contrario, in due aspetti: 1) Cristo non ci ha promesso che l’incontro con Lui ci avrebbe risparmiato la fatica del vivere. L’urgenza continua: dopo quello che hai vissuto in precedenza e adesso con l’arrivo di Matteo, l’urgenza rimane ancora viva. 2) L’incontro cristiano non solo non appiattisce la domanda, ma la risveglia ancora di più, se siamo attenti all’esperienza. Più si vede in azione la presenza di Cristo, più la Sua eccezionalità diventa familiare; più siamo colpiti costantemente dalla novità che introduce, più ridesta, come in tutti coloro che gli stavano davanti, la domanda: «Ma chi è costui?». È il contrario dell’appiattimento delle domande, in tutti i sensi. Più una persona è provocata, in un modo o in un altro, da qualcosa di reale, più emerge la domanda.
Quindi, cosa puoi rispondere all’urgenza che senti adesso, davanti al dono di Matteo e di fronte all’ansia? Che cosa hai imparato? E se questa ansia, che è provocata dall’affezione che hai per Matteo, fosse l’occasione perché la risposta non fosse mai scontata e Cristo diventi qualcosa di reale, che scopri sempre di più nella sua densità e nella sua pertinenza alla tua ansia? Se venisse a mancare, domani, quando tutto va bene, la passione per il destino di Matteo? Cosa comunichi a tuo figlio? Formule vuote? O gli comunichi, vivendo, ogni volta che ti vedrà in volto, che la risposta al suo essere, alla sua esistenza, è qualcosa che sta accadendo per te? Se noi ci risparmiamo questo, vedremo che una fede che si stacca dal senso religioso diventa formale. Noi, in fondo, un istante dopo, diventiamo formali, perché lo sappiamo già. Qual è la modalità con cui puoi liberarti dal “già saputo”? L’ansia. Perché, come ha detto il Papa, non pensate che l’ansia, qualsiasi sia la modalità in cui si esprime, sia negativa. Questa è la percezione che abbiamo noi. Ma se tu non la sentissi, non potresti riconoscere Cristo, ogni giorno, come risposta, non potresti vedere come risponde alla tua inquietudine, come un fatto presente, una Presenza presente in grado di risponderti. Se non è così, tutto è formale! Possiamo perfino ripetere le formule, ma «il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
La fede è il riconoscimento di una Presenza di cui abbiamo bisogno per vivere, non la ripetizione formale di formule già sapute. Infatti, l’ansia documenta che la fede è poca, come riconoscimento, mentre, come ripetizione formale di formule, ce n’è da vendere! Se non capiamo questo, non vediamo – come dice il Papa – che l’inquietudine non è negativa, è «il fuoco» che noi vogliamo spegnere, eliminare o anestetizzare. Ma se noi ci anestetizziamo, la conseguenza è che Cristo è un puro nome! In fondo, non dice niente innanzitutto a noi. Immagina Matteo, quando ti vedrà in faccia; immagina i vicini, che ti incontrano… come se tutto fosse già saputo e non qualcosa che ti sorprendi a vivere, qualcosa che sta accadendo ora! E che viene costantemente risvegliato, in qualsiasi modalità: attraverso l’ansia, la preoccupazione, la pesantezza… Ciascuno può rintracciarlo nella propria vita, basta che si domandi oggi [oggi!]: “Come mi sono risvegliato? E come ho risposto a questo risveglio?”. Era già tutto anestetizzato, abbiamo prolungato il sonno per l’intera giornata o, in qualche momento, ci siamo sorpresi con l’urgenza del vivere? E quando ci siamo sorpresi con l’urgenza del vivere, come l’abbiamo affrontata? Cosa abbiamo sorpreso? Qual è la struttura della reazione che abbiamo avuto? È stato il riconoscimento gioioso di una Presenza – “Meno male che ci sei!” –, oppure è stato solo il ripetersi di un “già saputo”, senza la percezione di qualcosa che accadeva in noi come un avvenimento presente? Se Cristo non è un avvenimento presente, infatti, è inutile per vivere.
Mi ha stupito che Giussani usi una formula veramente stupefacente: «Il Cristianesimo, essendo una Realtà presente», non una formula ripetuta formalmente, «essendo una Realtà presente, ha come strumento di conoscenza [come posso conoscere veramente cos’è l’avvenimento presente] l’evidenza di un’esperienza»[8]. L’evidenza di un’esperienza! Si comunica come l’incontro con la persona amata: l’evidenza di un’esperienza. Non una ripetizione: «Ah, lo so già!». Perché, essendo un avvenimento presente, l’amore – così come l’avvenimento cristiano – ha come unico strumento di conoscenza l’evidenza dell’esperienza che accade. Si capisce? E allora, lì, si vede se risponde ai criteri che abbiamo nel cuore. Noi vediamo se uno, nel risponderci, sta parlando dell’esperienza che fa di fronte all’esigenza che si trova addosso quando la vita ridesta le domande. Altrimenti, ripetiamo il “già saputo” senza che succeda niente!
La cosa peggiore è che diventa così anche il cristianesimo: qualcosa di già saputo. Se non partiamo dal percepire il cristianesimo come percepiamo l’esperienza amorosa, come l’esperienza che viviamo per il contraccolpo che produce la presenza dell’altro dentro di noi, ci abituiamo a ripetere parole vuote. Ma l’urgenza di una presenza è talmente decisiva che, solo quando accade, trova risposta. Come vedete, non occorre aggiungere niente all’esperienza, che sia macchinoso. Lo rendiamo più complicato quando ci arrampichiamo sui vetri, mentre, nell’esperienza, succede così. Come succedeva all’inizio: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!», dicevano quelli che si trovavano ogni giorno con Gesù. «Non abbiamo mai visto nulla di simile». Per il riaccadere costante di questa esperienza, perché lo strumento di conoscenza di un avvenimento presente è l’evidenza di un’esperienza.
Lucia. Leggo la domanda di una Quadratina che non poteva venire: «Dopo l’esito non buono della Tac di controllo, il tumore è progredito, mia figlia di 19 anni mi dice: “Ma, allora, le preghiere non funzionano”. Io le ho risposto che non sempre il disegno di Dio corrisponde a quello che noi vogliamo, ma questa risposta non ha soddisfatto me per prima. Mi è sembrato come se quello che ci accade, nel momento in cui non corrisponde ai nostri desideri, anche se buoni, sia fatto da Dio non tenendo conto del nostro bene. Mi puoi aiutare?».
Carrón. E tu come l’hai aiutata?
Nembrini E. Lei avrebbe tanto da dire!
Lucia. La sua è una domanda che posso sottoscrivere.
Carrón. Vedi? Se non prendi sul serio la domanda per te, quando arriva una persona che ti fa questa domanda, non sai cosa rispondere. Facciamo il test di quello che viviamo davanti alle domande degli altri. Perché abbiamo saltato le nostre. Questa domanda ti ha fatto guardare la tua. E come le hai risposto? Come rispondi a te stessa, per poter rispondere agli altri?
Lucia. Ho perso mio marito due anni fa per suicidio e questo di sicuro non mi corrispondeva. Però, quello che è successo da due anni a questa parte, sia per me che per mio figlio, che è in comunità di recupero, è stato un fiorire.
Carrón. Cioè, tu come hai trovato risposta a quella domanda?
Lucia. Anche se non corrispondeva di sicuro a quello che volevo, però dopo che è successo…
Carrón. Gesù ha ascoltato le tue preghiere o no?
Lucia. In un’altra forma, sì.
Carrón. A queste domande non possiamo rispondere di nuovo formalmente. Come per te. Ricorda quando è capitato a te: chiunque ti avesse risposto, sarebbe stato in grado di convincerti come ne sei convinta adesso?
Lucia. No.
Carrón. No. Perché? Perché lo strumento di conoscenza, dicevamo, è l’evidenza di un’esperienza! E quindi, se non fai esperienza della risposta, come tu l’hai fatta, un altro te lo può dire come ipotesi di lavoro, ma non ti convincerà fin quando non succede in te la risposta, la verifica dell’ipotesi che ti è stata offerta. Si capisce? Quindi, che cosa possiamo dire alla tua amica? Non puoi risparmiarle la strada che tu hai fatto. Mi interessa, soprattutto, che tu leghi l’esperienza che hai vissuto alla domanda che poni a me. Perché hai già nella tua esperienza la risposta alla domanda! Ma dato che tante volte non ci rendiamo conto dell’esperienza che viviamo, ripetiamo delle cose: chiedete delle risposte, ma, se non partite dalla vostra esperienza, le risposte vi risultano, in fondo, astratte. Io non potrei dirti nulla di più pertinente dell’esperienza che hai fatto in questi ultimi due anni! È, senza paragone, una risposta più pertinente, più evidente ai tuoi occhi, come esperienza, di qualsiasi cosa io ti dica. Siccome non ce ne rendiamo conto, allora ripetiamo la domanda in astratto, dimenticando quello che il Mistero ha fatto, e cambiando il metodo con cui il Mistero ha risposto alla nostra domanda! Come ha risposto alla tua domanda il Mistero? Facendoti una lezione? No, facendoti fare una certa esperienza, perché lo strumento di conoscenza di un avvenimento presente è l’evidenza di un’esperienza. Ti ha fatto fare un’esperienza tale che tu adesso, quando ti ho incalzata, hai dovuto raccontarla: è stato un fiorire. E solo questo può convincere!
Ma se tu non impari che è quello che ha convinto te, cosa potrai dire all’amica che ti fa la domanda?
Qual è stato l’errore che hai fatto? Invece di averle raccontato come il Mistero ha risposto a te, hai astratto la risposta. Come l’astrazione della risposta non ha convinto la figlia della tua amica e nemmeno la tua amica. È normale, perché per convincere di un avvenimento, occorre partecipare di quell’avvenimento, occorre riaccada quell’avvenimento! Questo, allora, vuol dire che non si può dirle niente? Tu puoi dirle qual è stata la strada attraverso cui il Mistero ha risposto a te! Perché è molto più stringente di qualsiasi risposta teorica: “Guarda, tu mi dici questo del tuo tumore, a me è capitato questo, questo e questo… Io ho visto che Lui mi ha risposto attraverso questa esperienza, questa esperienza e questa esperienza. Adesso decidi se vuoi verificare tu quello che ho verificato io. E poi mi dici se il Mistero risponde o non risponde alla domanda”.
Solo così è possibile rendersi conto che risponde oltre qualsiasi misura: non perché ci guarisce dalla malattia, ma perché ci riempie, con una tale sovrabbondanza, della Sua presenza, da rendere tutto diverso. E questo è più decisivo della guarigione. Perché? Perché tutti abbiamo una malattia cronica, sapete? Che prima o poi arriva, come il treno alla stazione, puntuale. Gesù non è venuto a guarire tutti gli ammalati del suo tempo, né a guarire tutte le malattie che ci possono capitare. È venuto ad accendere una speranza che consenta di rispondere a quello che è capitato a te, come a quello che è capitato a lei. Solo se mi rendo conto di che grazia significa la Sua presenza, di come risponde in un modo così sovrabbondante… allora capisco che ha risposto. Oltre qualsiasi mia misura!
Se di nuovo, in fondo, pensiamo di avere la risposta in tasca e non abbiamo capito la portata della Sua presenza, domani saremo da capo, come diceva Isabella. Se lei non ha imparato da quello che ha vissuto prima per guardare ora Matteo, si ritrova con l’ansia, si ritrova da capo, sperando solo che tutto vada bene. Così fa la verifica di quello che ha imparato prima. Non è meccanico che, per averlo sperimentato, sia rimasto qualcosa nella sua esperienza, nella sua vita, nel suo sguardo, da poterlo trasmettere a Matteo. E la vita di Matteo sarà tosta, sarà senza speranza, senza qualcuno che gliela trasmetta!
Quindi, mi interessa che ci rendiamo conto di come spesso ci spostiamo dal metodo che Dio usa con noi, quando rispondiamo alle domande degli altri. Con noi il Mistero fa in un modo, ed è l’unica possibilità per persuaderci, ma poi, non facendone veramente esperienza, non crescendo nella consapevolezza di come opera il Mistero, quando l’altro ci fa una domanda, gli diamo una risposta che non sarebbe servita a noi. E non stupiamoci che non gli serva! Che mistero c’è, che non serva all’altro quello che non è servito a te? Quindi, non è che non ci sia risposta, il problema è che noi non impariamo dalla risposta, dal metodo attraverso cui il Mistero risponde. E tu non puoi rispondere alla tua amica con le istruzioni per l’uso: devi darle il suggerimento del cammino che può fare, se vuole sapere come il Mistero risponde alla sua domanda, alla sua preghiera. Altrimenti, nessuno la convincerà.
Nembrini E. Faccio io una domanda: l’ultimo capitoletto su cui abbiamo lavorato era “Sostenere la speranza della gente”. Rosa, la nostra segretaria, ha mandato questa domanda, perché si è vissuto un momento anche molto tosto tra di noi, intendo tra noi Quadratini: «A distanza di due giorni l’una dall’altra, due mie amiche, una dei Quadratini e l’altra che anni fa è stata in missione del Pime con me, si sono tolte la vita. Due persone a cui ho voluto bene e che reputo di grande fede; certo, con il male di vivere, questo mostro terribile che ti mette sempre davanti agli occhi l’inconsistenza della realtà e nel cuore un bisogno che è una voragine infinita. Ma non riesco a liquidare la questione pensando semplicemente alla malattia che le divorava, non mi basta. È venuto fuori in me con evidenza che né la compagnia dei Quadratini, né gli affetti più cari, né la fede, paradossalmente, hanno potuto evitare il gesto estremo di queste amiche. Ma, allora, io come posso affermare che è possibile sostenere la speranza degli uomini, se non basta la mia speranza, la mia fede o anche la mia vita come testimonianza di speranza?».
Carrón. Stupendo. Cosa dite? Ciascuno di noi deve rispondere a questa domanda, perché – se non è oggi, potrà essere domani – ci si ritorce contro. In fondo, pensiamo che la nostra testimonianza – che è assolutamente un fattore decisivo – possa essere il “toccasana”, il rimedio magico. Non vuol dire che la testimonianza non sia fondamentale, innanzitutto per noi, indipendentemente da come l’altro la recepisce o no, ma la testimonianza da sola non risolve meccanicamente la vicenda.
Vi sfido con un fatto a cui ho dovuto ricorrere tante volte davanti a domande come questa. A Gesù è stata risparmiata questa questione? O Lui deve passare tutta l’eternità a lamentarsi, piuttosto che a essere punito, per non aver bloccato Giuda? Mancava qualcosa alla testimonianza di Gesù? O la sua testimonianza è qualcosa che non cancella per nulla la libertà, e quindi lascia tutta la drammaticità del vivere per rispondere o no alla potenza della testimonianza? In fondo, possiamo dire: per quanto sia grande la testimonianza, forse non è stata abbastanza… E così si spiega quello che è successo. Ma alla testimonianza di Gesù mancava qualcosa? O lui era il testimone? A cui non è stata risparmiata la questione che affrontiamo ora. Non stiamo dicendo che, siccome a Gesù non è stata risparmiata, allora noi possiamo fregarcene nella testimonianza. No. Come Gesù non ci ha privato della sua testimonianza fino alla fine, anche noi siamo chiamati, nella misura del possibile, a rendere testimonianza di quello che il Mistero ci ha donato come grazia. Gesù ha risposto al disegno del Padre come tutti sappiamo. È la testimonianza che ha vissuto anche davanti a Giuda e a coloro che poi l’hanno abbandonato, ai dodici. Quindi, anche una testimonianza così non è meccanica, ma lascia sempre lo spazio della libertà, in qualsiasi modo essa si esprima.
Allora, come risponderebbe Gesù alla domanda che stiamo affrontando? La risposta di Gesù è la sua Risurrezione, perché se fosse mancato qualcosa alla sua testimonianza, il Padre non l’avrebbe risorto. E se Cristo è risorto vuol dire che ci può essere speranza anche per Giuda e per chiunque altro. Gesù ci mette davanti che l’ultima parola sulla sua vita, sulla sua testimonianza, è la conferma del Padre, che lo fa risorgere, per tutti: guardate che l’ultima parola sulla vita e sui tentativi nostri, a volte estremi, a volte tragici – e che noi non possiamo neanche giudicare, perché de internis neque Ecclesia, ancor meno davanti a certe situazioni come quella che descrivevi –, l’ultima parola sulla storia è quella di Dio, che è la Risurrezione. Tutta la nostra fragilità non ha impedito al Padre di metterci davanti la vittoria di Suo figlio: l’ultima parola sulla vita è la sua Risurrezione. Convincerà solo questo, come i discepoli non si sono convinti fin quando non hanno fatto esperienza del Risorto.
Guardiamo i racconti della Risurrezione: gli altri non erano arrivati a fare quello che ha fatto Giuda, ma Pietro è lì, ancora tutto ingarbugliato con il suo rimorso: «Mi ami tu?»; i due di Emmaus ritornano a casa già sconsolati, senza speranza; Tommaso, che se non mette il dito… A nessuno, neanche dopo la Risurrezione, è stato risparmiato il cammino. Che cosa li ha vinti, in ogni caso? L’esperienza della Risurrezione, non l’affermazione della Risurrezione: «Non ci ardeva forse il cuore mentre egli conversava con noi lungo la via?». Cioè, di nuovo, come dicevamo prima, il cristianesimo, essendo una realtà presente, ha come strumento di conoscenza l’evidenza di un’esperienza. Questo è vertiginoso, perché non bastano le formule, non basta la ripetizione formale dell’annuncio. È vertiginoso, perché dobbiamo aspettare che accada, come loro hanno dovuto aspettare che a tutti i dubbi rispondesse l’esperienza, l’accadere di un’esperienza viva!
Questo è il bello del momento storico che viviamo: prima ci accontentavamo delle formule cristiane, adesso non più. Se il cristianesimo non ritorna a essere quello che è – un avvenimento –, nessuna riduzione dell’avvenimento a dottrina, nessuna riduzione dell’avvenimento a etica, nessuna riduzione dell’avvenimento a spiegazione, potrà rispondere alla drammaticità della vita. Ma questo è un problema o è un vantaggio per scoprire la natura del cristianesimo? Il fatto che non possiamo fare a meno dell’avvenimento, perché solo l’avvenimento è pienamente corrispondente alle domande, ai criteri di giudizio. Altrimenti, rispondendo teoricamente, non saremo convinti. Perché il cristianesimo, essendo una realtà presente, ha come strumento di conoscenza l’evidenza dell’esperienza, cioè la partecipazione all’avvenimento che è il cristianesimo. Ma questo è stupendo a pensarci.
Nembrini. Sì, però, io ti fermo, perché in tanti mi hanno chiesto: “Ma, alla fine, questa speranza la possiamo avere solo noi cristiani? O è una questione di ragione? È una questione di fede o di ragione?”. Sono tanti a chiedermelo, anche nella concretezza di esperienze, di persone che incontrano gli ammalati, li vedono vivere in un certo modo e dicono la famosa frase: “Fortunato tu, che hai la fede!”, “Quanto vorrei averla anch’io…”, per poter stare davanti alla circostanza. Quindi, è una questione di fede o di ragione? La speranza, questo cammino che mi sembra tu abbia descritto in modo stupendo stasera, è possibile per tutti o è possibile solo…
Carrón. Ciascuno – anche a questo – deve rispondere con la propria esperienza. Come non possiamo risparmiarcelo con delle formule tra noi – come vedete, non è che ci diciamo le cose e allora ci convincono –, così non possiamo risparmiarlo agli altri. E qui ciascuno deve fare la verifica di quello a cui aderisce come ipotesi di lavoro. Io ti posso testimoniare quello che vivo e per cui vivo così. Se questo tu lo riesci a vivere, io sono felice con te! Ma non è che io ti dico che “deve essere così”, io ti dico quello di cui faccio esperienza. Tu vedi che io faccio esperienza di questo? Perché quella domanda non sorgerebbe, se non vedessero qualcosa nei Quadratini, per come vivono le loro sfide che, come sappiamo, non sono banali: si accompagnano, istante per istante, nel cammino all’incontro con il Mistero, non hanno un raffreddore o una gamba rotta. Sono persone che stanno guardando in faccia la morte, no? E che si salutano, una settimana dopo l’altra. E questa modalità di stare davanti alla morte senza scappare, l’altro la vede, la riconosce, perché altrimenti non si farebbe la domanda; se avesse già la risposta, la asseconderebbe. Ma se, malgrado tutti i tentativi che fa, non trova la risposta, cosa possiamo fare? Solo testimoniarla.
E qui succede anche agli altri quello che succede a noi: lo scandalo per la modalità con cui il Mistero agisce. Perché noi abbiamo la stessa domanda – ne abbiamo parlato in altre occasioni – che Giuda Taddeo pone a Gesù: «Signore, ma come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?». La risposta è impressionante: come risponde Gesù a questa domanda? Vi leggo una cosa che ha detto Papa Benedetto in una delle omelie private, pubblicate di recente:
«Il Risorto non dovrebbe mostrarsi solo a un piccolo gruppo di eletti, ma dovrebbe andare anche da Pilato, dovrebbe andare anche dai sommi sacerdoti, al Sinedrio, e così, con la sua forte presenza, dovrebbe chiarire a tutti che Lui è il risorto, e non lasciare nessun dubbio, dovrebbe vincere proprio con la forza della sua presenza»[9]. Cioè, dovrebbe imporsi con la forza della sua presenza viva. E quando Taddeo dice “non dovresti mostrarti solo a noi, dovresti andare anche dagli altri”, «anche noi siamo tentati di dire lo stesso», continua Papa Benedetto: «Ma Dio è diverso». E qual è la diversità? Che se facesse così, si imporrebbe, calpestando la libertà. Perché sarebbe talmente evidente… Invece, dice Ratzinger: «Dio è diverso, Dio ci lascia la libertà». Noi siamo sicuri che, se apparisse davanti a tutti quelli che dicono di non credere, loro non potrebbero dire che è una visione? Qual è la differenza tra un cambiamento reale e l’immagine di cambiamento che hanno? «Dio è diverso», e noi lo vediamo sulla nostra pelle: «Dio ci lascia la libertà e ci aspetta in un cammino di ricerca», dice Papa Benedetto. Lascia tutto lo spazio alla nostra libertà. E vedere l’esperienza dei Quadratini è una risposta più che pertinente a questo. Perché tanti arrivano con obiezioni, bestemmiando, ribellandosi, protestando, arrabbiati neri con tutto e con tutti, e non è che, arrivando lì, il giorno dopo cambiano. Non è che vedono una “visione” di tutti i Quadratini contenti e si arrendono all’evidenza. Lui aspetta anche loro in un cammino, rispettoso della libertà.
Nembrini E. Mi regali ancora due minuti? Perché era proprio su questo l’altra domanda che è emersa tanto: il cammino – è bellissima l’espressione che hai ripreso: «Dio ci lascia la libertà e ci aspetta in un cammino di ricerca» –, tante volte tra di noi, come abbiamo visto anche quest’anno, lo concepiamo come cose da fare, anche religiose. Quindi: cosa devo fare per fare questo cammino? Mi sembra che, invece, quando tu dici cammino, quando il Papa dice cammino, dite un’altra cosa rispetto al “cosa fare”. Allora, magari è una domanda un po’ personale, ma tu che cammino stai facendo adesso?
Carrón. Il cammino che io sto facendo è quello che vi dico ogni volta che parlo. Il cammino che faccio è che io, ogni mattina, mi ritrovo con la voragine e potrei ripetermi delle cose, ma non convincerebbero me. Non è “che cosa faccio”. È che io so che cosa è successo nella mia vita, che esperienza ho incontrato, che tipo di Presenza è entrata nella mia vita. E allora, che cosa faccio? Lascio entrare questa Presenza, di nuovo, nella vita. Che cosa fa un bambino quando ha paura? Lascia entrare la presenza della madre. Il cammino non è un’astrazione, il cammino non è fare non so che cosa.
Attenzione, non è che non occorra fare niente, occorre vedere che cosa succede in coloro che arrivano arrabbiati: quale cammino fanno? Stanno davanti ai Quadratini, anche protestando, perché “loro sono contenti, mentre io sono ancora incastrato e non riesco a vivere contento come vivono tanti di loro… E che cosa faccio?”. Stare davanti a quella presenza. E stando davanti a quella presenza, mi lascio investire da quella presenza, come voi vedete che le persone cominciano a lasciare entrare in questo cammino una presenza che fa la differenza. Se questa presenza non diventa familiare, noi la sostituiamo con delle formule che non ci convincono e continuiamo a lamentarci. Per questo, Giussani, come avevo ripreso anni fa[10], diceva: al mattino, al risveglio, se uno non attraversa tutta la “ganga” dei pensieri – con tutte le sfaccettature di questi pensieri, preoccupazioni, arrabbiature, ribellioni, tutto tutto tutto tutto tutto! – fino alla Sua presenza, Gesù sarà sempre uno sconosciuto. Perché, se uno non Lo lascia entrare, non può stare davanti alla realtà. Per un bambino, qual è il lavoro da fare? Invece di lasciarsi determinare dalla sua misura, dalla sua paura, lasciare entrare la presenza della madre.
La questione è se noi siamo disponibili, a un certo punto – con il tempo di cui abbiamo bisogno, vedendo che tutti i nostri tentativi non cambiano niente –, ad arrenderci all’evidenza di cosa succede se Lo lasciamo entrare. E solo quando le persone, dopo anni o mesi di convivenza con i Quadratini, cominciano a lasciare lo spazio a quello che vedono, cominciano a partecipare di quello che accade negli altri. Questo si può solo testimoniare, non si può imporre in nessun modo.
Noi tante volte pensiamo che serva un potere. Papa Benedetto ne parla, dopo quello che vi ho letto, perché anche i discepoli hanno dovuto fare questa strada. Spesso crediamo che il potere sia l’unico in grado di cambiare, di «creare un mondo buono. Questo sembra a tutti molto evidente, ma anche lì Gesù dice: “No!”. E come le altre due tentazioni accompagnano tutta la sua vita [a Gesù non è stato risparmiato di attraversarle tutte], anche questa tentazione appare diverse volte nel corso della sua vita. Pensiamo ad esempio al momento in cui, a Cesarea di Filippo, Pietro aveva capito e confessato: “Tu sei il Messia”. Gesù lo elogia e gli dice: “Sì, questo non lo hai capito tu, il Padre ti ha dato questa conoscenza”; ma poi continua: “Tu non hai capito ancora che cosa è davvero il Messia; il Messia deve soffrire, essere tradito, dato ai pagani, crocifisso”. Allora san Pietro prende Gesù da parte e gli dice: “Ma no! Tu sei il Messia e un Messia non soffre!”. Qui Gesù si sente proprio come nella situazione del deserto, davanti al diavolo, e dice: “Diavolo, vattene!” (cfr. Mt 16,13-28). Proprio questa tentazione rimane sempre, anche nella storia della Chiesa. Tante volte con gli imperi cristiani abbiamo tentato di dare il potere a Gesù, di escludere la debolezza di Dio; anche oggi facciamo tanti tentativi in questa linea, e Gesù ci dice: “No! Questo non è il modo in cui io posso essere vostro re. Posso essere vostro re solo in un cammino molto diverso, nel cammino della passione e dell’amore”. In altre parole, Gesù non è venuto a liberarci dalla sofferenza, ma a liberarci attraverso la sofferenza, per entrare in questo mistero della trasformazione, che fa parte dell’essenza dell’amore»[11].
Non risparmia la sofferenza, ma attraverso la sofferenza introduce a una modalità di viverla che rende tutto diverso, come vedete nei Quadratini. Quindi, è solo questo cammino, che è tutto tranne che macchinoso, che dobbiamo imparare. Perché – hai perfettamente ragione – tante volte la gente si perde in questo cammino. Per questo, l’unica modalità è, prima di tutto, come abbiamo detto rispondendo a Lucia: se non capisce il cammino che Dio fa con lei, non saprà indicare qual è il cammino da fare. Perché il cammino che Dio fa con noi è semplice, è quello che fa con Pietro e con gli altri. Se noi non lo capiamo attraverso l’esperienza, proponiamo agli altri un cammino artificioso o ci inventiamo il cammino, invece di assecondare la modalità con cui Lui fa le cose. Per questo mi auguro che lo impariamo noi, perché senza questo non ci sarà una risposta adeguata alla domanda: c’è speranza?
Nembrini E. Grazie, don Julián. Ma grazie perché ci fai vedere e ci fai sperimentare che il cammino umano è semplice. Non è facile, è semplice: prendersi sul serio, abbracciare – come hai descritto stasera – tutte le domande che abitano il nostro cuore, non scappare dalla realtà come luogo dove il Mistero dialoga con ciascuno di noi. E chiediamo a Dio di non farci mai mancare facce, persone, testimoni, in cui emerge con più verità e bellezza che “io sono fatto bene”… Ma, come ci hai detto, non è sufficiente neanche il testimone, neanche Gesù in persona: servi tu, con tutta la tua umanità, che è fatta benissimo per fare questo cammino. Grazie mille.
Appunti non rivisti dall’autore
* Incontro sul testo C’è speranza? in dialogo con don Julián Carrón e don Eugenio Nembrini 19 giugno 2025, Bergamo – Centro Congressi Papa Giovanni XXIII
[1] Leone XIV, Messaggio Pontificio ai partecipanti al Seminario del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, 2 giugno 2025.
[2] J. Carrón, C’è speranza? Il fascino della scoperta, Editrice Nuovo Mondo, 2021.
[3] L. Giussani, «La coscienza religiosa dell’uomo moderno», Chieti 1986, in A. Savorana, Vita di don Giussani, Bur, Milano 2014, p. X.
[4] Leone XIV, Videomessaggio ai giovani di Chicago e del mondo intero, Rate Field di Chicago, 14 giugno 2025.
[5] Leone XIV, Discorso ai Vescovi della Conferenza episcopale italiana, Aula della Benedizione, Vaticano, 17 giugno 2025.
[6] Ibidem.
[7] L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, Bur, Milano 2011, p. 83.
[8] L. Giussani, Avvenimento di libertà, Marietti 1820, Genova 2002, p. 190.
[9] Benedetto XVI, «Imparare a essere cristiani», il Foglio, 17 maggio 2025.
[10] Cfr. «Nessun dono di grazia più vi manca», Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Comunione e Liberazione, 25 settembre 2021.
[11] Benedetto XVI, «Imparare a essere cristiani», il Foglio, 17 maggio 2025.
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