Con l’urgenza di ciò che sono
CE: Io vorrei partire da una domanda. Ripartendo dal decimo capitolo della scuola di comunità1, che rileggevo stamattina prima dell’Angelus. Quante volte lo abbiamo fatto e quante volte tu ci hai rilanciato; ma io non credo che l’abbiamo capito veramente: è la questione della ragione, è il percorso della ragione il decimo capitolo. È il rendersi conto della ragionevolezza del proprio stare al mondo. E in particolare quando dice: “Un individuo che avesse vissuto poco l’impatto con la realtà, perché, ad esempio, ha avuto ben poca fatica da compiere, avrà scarso il senso della propria coscienza, percepirà meno l’energia e la vibrazione della sua ragione”2. La mia domanda molto semplice è questa: ci puoi dire per te che cos’è questa vibrazione della ragione? Perché è chiaro che non è una spiegazione delle cose, non è una teoria delle cose, ma è un certo modo di essere tu nel mondo. Per renderla in maniera più “in prosa”, siccome tu da un po’ di tempo dici che per te questo periodo è esaltante, ma com’è che è esaltante?
Julián Carrón (JC): Salve a tutti. È esaltante proprio perché la fatica che tante volte facciamo in questo mondo, come abbiamo appena sentito nella canzone3 – una che ha cercato di parlare con il pianoforte, con la chitarra, e non si sente in fondo veramente capita: “ma c’è qualcuno che ascolta?” – allora, che cosa dice questa ragazza? Che vibrazione ha dentro di sé per poter gridare così? Questo è semplicemente un sentimentalismo, o è l’urgenza più radicale, più profonda, più “sua” della ragione? Che proprio per questa insofferenza che vive non si può accontentare con meno di un uso vero della parola ragione: apertura alla realtà secondo tutti i fattori. Cioè: più uno è cosciente della natura dell’io, della natura del bisogno, più fa fatica a rimanere ad un uso razionalistico della ragione.
Io non so come ve la cavate voi, se uno resta a metà strada, semplicemente a sopportare la situazione, senza sentire tutta l’urgenza di assecondare la propria esperienza, la propria insofferenza, il proprio disagio. Per poter sopportare voi stessi, come potete fare senza usare la ragione fino alla sua vera natura, che non è altro che riconoscere Colui che ci fa? Ciascuno guardi che esperienza fa di sé. Lasciamo perdere tutto il resto, sono distrazioni. La vera questione è: che esperienza fa ciascuno di sé.
E come dice Marracash, non pensate di cavarvela facendo la vittima. Sentite l’ultimo disco che ha appena fatto4. Dove rimprovera chi pensa di cavarsela facendo la vittima5. Cos’è fare la vittima? Fare la vittima è dare la colpa agli altri della situazione. No, questa è una bella giustificazione del nostro uso razionalistico della ragione. Perché nessuno ci impedisce, come questa ragazza, qualsiasi sia la situazione, di usare la ragione secondo la sua vera natura. Perché come dice Giussani nel capitolo nono6, è l’esperienza stessa che porta a scoprire la natura della ragione. Ma questo, in questo momento, è esaltante perché l’insofferenza è tale – malgrado tutte quelle distrazioni con cui uno può cercare di cavarsela – che è difficile, se non impossibile (basta leggere i giornali ogni giorno!), stare con sé stessi. Perché quanto più questo emerge, tanto più vediamo che cosa vuol dire “coscienza di sé”. Perché uno si rende conto della irriducibilità che abbiamo: che non ci basta qualsiasi cosa decidiamo noi per stare con noi stessi, per poter sopportare sé stessi. Non dico per poter abbracciare sé stessi. Allora ciascuno deve fare i conti con la propria esperienza. Perché ciascuno di noi – malgrado il tentativo di ridurci ai fattori antecedenti, o ridurci alla situazione, o ridurci alle circostanze, o ridurci all’influsso dell’uno o dell’altro, guardate: smettetela! – perché l’io è rapporto diretto col Mistero. E dico: questa per me è l’unica rivelazione. Se io lo faccio è per poter stare con me stesso. E se voi non lo fate, ciascuno verifichi se quello che fa gli serve per campare.
Qualsiasi altra cosa meno di questo non è all’altezza della nostra esigenza. Non è all’altezza di una amicizia vera. E allora tutti siamo conniventi con questa situazione. Quando Gesù ha cominciato a rispondere al bisogno della gente che lo seguiva per tutta la giornata, moltiplicando i pani, e in questo avevano riconosciuto che questa persona che era Gesù aveva preso sul serio il loro bisogno, ed erano tornati esaltati per farlo re, Gesù non si è accontentato con questo tipo di rapporto che loro volevano stabilire con Lui7. E allora ha cominciato ad alzare la palla. Cos’è alzare la palla? Guardate: non pensate che vi basti il pane che avete mangiato per campare. Non solo di pane vive l’uomo, non solo per la calma piatta vale la pena vivere. E allora, siccome pensava che non capissero, li ha sfidati fino alla fine: “guardate che se non mangiate la carne del figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue non potrete avere vita”8, vita! Al prezzo di poter rimanere da solo. Alza la palla fino al rischio di poter rimanere da solo. Tanta era la passione di Gesù per quelle persone. E quindi, a un certo punto, neanche ai discepoli l’ha risparmiata. “Anche voi volete andare via?”9 Sottinteso: “potete andarvene anche voi. Ma se io vi sfidassi a meno di questo io non sarei credibile. Potreste stare un po’ più tranquilli, ma io avrei perso tutta la mia credibilità come possibilità di risposta al vostro bisogno”.
È lì dove si vede l’autorevolezza, perché non cede. Poi, dà il tempo alle persone perché ciascuno faccia la propria strada. Alcuni rispondono subito, altri se ne vanno. Non c’è problema. Ma tutti devono fare i conti con questa sfida, che Lui ha proposto loro.
E qui – come dice Marracash ancora, impressionante – “taci la tua umanità, per questo piaci all’unanimità”10. Ciascuno decida, se vuol tacere la propria umanità per piacere all’unanimità, a tutti quelli che ha intorno, oppure se ama minimamente la sua umanità anche se non piace all’unanimità. E questo è esaltante. Molto di più di qualsiasi altro momento, perché prima sentivamo queste cose come la “sana dottrina”, e ce la raccontavamo così. Adesso è talmente sfidante la sensazione, che non ci sono santi! Per questo solo chi accetta questo mangia e beve dell’unica cosa che dà vita alla vita, e quindi se ne frega assolutamente dell’unanimità – ossia: ha la vita per poter essere libero – oppure si deve arrendere all’unanimità perché “fuori fa freddo”.
Decidete che cosa volete fare con la vita. Ma non date la colpa agli altri, almeno siamo leali con questo. Voglio decidere di accontentarmi? Fai i conti con l’esperienza, ma non raccontiamocela, perché sappiamo che è falso. Perché nessuno, qualsiasi sia la situazione, è ridotto ai fattori antecedenti psicologici, sociologici, storici, circostanziali… Il potere ha incidenza solo su quelli che hanno ridotto la loro umanità, si sono arresi all’unanimità. Per questo la libertà è un bene così scarso. Questo non è un problema di ordine. Perché come dice ancora Marracash “pensano che basti riempire il vuoto con l’ordine”11. Se questo vi serve, coraggio!
Domanda: Avevo un bell’intervento pronto, ma reagisco a quello che stai dicendo. Se io mi trovo qui è per una serie di fatti, dall’amicizia con Costa a quando ho incontrato il movimento nel ’95 fino alla trapunta della mamma di Don Giussani. Due settimane fa Don Eugenio Nembrini ha iniziato a lavorare su “C’è Speranza”12. Sarà per il periodo faticoso, ma mi sono trovato a pensare “Don Eugenio, era quasi meglio che non lo iniziavi questo lavoro”. Seguo la lezione e lui ripete ossessivamente “quella inquietudine diventa il criterio di giudizio per intercettare ciò per cui il suo cuore è fatto”13. Rimane quel giudizio, ma questa frase si pianta qua. Riprendo il testo a casa, e penso “ma dov’ero quando lo abbiamo letto?”. Sembrava tutto nuovo, e rispondeva, fino a “i particolari che ci lasciano uno strano malessere, sono decisivi”, frase che tu hai detto a Roma. Allora: io mi leggo tutto, devoto al movimento. Poi impatto alcune persone, o ancora te, e tu effettivamente riprendi dalle viscere la vita. Non so se è moralismo o devozione, ma cosa c’entra il movimento? O io che il venticinque…
JC: A me non interessa niente! Tu decidi…
D: Ma io non ti ho incontrato così, per caso, Julian.
JC: Tu adesso, qualsiasi spiegazione noi possiamo dare – io le accetto tutte –, tu adesso devi decidere, con te stesso: quella frase ti si è puntata qui per che cosa? Perché tu l’hai sentita come espressione vera di te, o no?
D: Verissima.
JC: Punto. Non è perché l’ha detto Tizio, Caio o Sempronio. Tizio, Caio o Sempronio ti ha ricordato chi sei. Allora tu devi decidere, adesso, davanti a questa situazione, a questa coscienza che per grazia un altro ha risvegliato in te, che cavolo fai con te stesso. E nessuno ti impedisce niente, come nessuno ti costringe a niente. Per questo dico che è esaltante: perché non puoi scaricare la tua umanità su nessun altro, dare la colpa a nessun altro, dare la colpa a nessuna circostanza, diventare vittima di nessuna circostanza. Oppure, tu devi abbracciare, prendere in mano, diventare protagonista della tua umanità, e dire: “che cosa vuoi da grande?” Punto e finito. Tutto il resto è distrarci.
Per questo è esaltante. Perché questa situazione – dopo lo stancarsi di dire, non dire, commentare – alla fine deve arrivare lì, capito? Deve arrivare lì: che uno per caso sentendo una cosa si ficca qualcosa nel cervello, che è l’espressione più vera di sé. Coscienza di sé. E quindi, forse questa fatica che tu stai facendo – come stanno facendo tanti – è l’occasione di prendere veramente coscienza di te e vedere che cos’è la vibrazione della tua ragione. Non come definizione, ma come esperienza del capitolo decimo del Senso religioso. Perché possiamo fare il decimo capitolo senza lasciarci toccare dalla prima frase del testo. E quindi, alla fine, diventando scettici per il resto della vita. Perché abbiamo fatto, finito, letto tutto quanto, ma qui non si è spostata di un millimetro la mia vita. Questo è amore alla nostra umanità. E io te lo dico con tutta la passione per la tua umanità. Perché è più facile abbassare il livello. Per Gesù era più facile abbassare il livello. Ma era troppa la passione per l’umanità di coloro che aveva davanti, e non poteva prenderli per i fondelli.
Capito? Se uno tiene a sé stesso, anche se rimanesse da solo, dovrebbe fare i conti con quella sua umanità. Perché come abbiamo studiato nel capitolo ottavo del Senso religioso14, la libertà è questo rapporto diretto con il Mistero, l’io è rapporto diretto col Mistero15. E questo è libero. E la grandezza con cui Giussani ci ha guardati è che non ha consentito, da parte sua, che noi riducessimo noi stessi a meno di quella irriducibilità. Perché ogni volta che ci ha parlato, ci ha parlato a questo livello, come Gesù ai suoi. Dal primo che arriva all’ultimo, non ha fatto distinzione: la “gente-gente”. Nessun ruolo in tutta quella folla, nessuna gerarchia. Nessun niente di niente. Gente-gente, gente come me e come te, che ha a cuore il problema della propria umanità.
Volete qualche abbassamento di questo rapporto? Cercatelo altrove. Ci sono tanti luoghi cha abbassano questa esigenza. Chi te lo impedisce? Nessuno! Ricordo sempre una ragazza che, mentre preparava la maturità, mi dice: “io voglio fare medicina, ma non voglio perdere il tempo tutta l’estate”. “Chi te lo impedisce, vai alla spiaggia! Vuoi che adesso io ti convinca a studiare per fare medicina? Vai alla spiaggia!”. “Ma io voglio fare medicina!”. “Perfetto: falla”.
D: C’è una cosa che hai detto quest’anno che mi ha veramente colpito: “Il cristianesimo è solo per gli audaci”.
JC: Vedete? Vedete perché è per gli audaci?
D: Per chi non rinuncia alle pretese che sente vibrare in sé.
JC: Non sono pretese, è la natura della nostra natura.
D: Da qui mi sono trovata a fare come un cammino rispetto alle cose. La cosa che ha cambiato il mio modo di vivere è che mi sono resa conto di me, nelle circostanze, in quello che facevo e che vedevo, partendo dalla mia umanità e prendendo sul serio i disagi che sentivo. Ad esempio sul lavoro mi trovavo a ragionare come il mondo. Allora, di fronte a questa mia posizione, mi fermavo semplicemente al dolore, alla ferita di questa mia riduzione. È il motivo per cui ho iniziato a fare come dici tu, rispetto alla ragione, a chiedermi “ma è tutto qui?”, sono veramente solo questo? Perché mi sono trovata spesso a sguazzare nel dolore dell’errore. Invece mi sono accorta che tanto più sentivo questo dolore, tanto più nasceva in me la domanda di Lui, tanto poi da accorgermi che Lui è all’origine di me. Me ne sono resa conto incontrando tanti clienti che vengono da me, per le ragioni più diverse: dalla persona sola che viene in banca per parlare, a quello che viene per prendersi il caffè, o quello che si arrabbia per una fesseria ma capisci che ha un rancore dentro più profondo, o la collega che ha l’ansia di avere sempre ragione perché in famiglia il ruolo della donna è secondario. Incontrando l’umanità dell’altro mi sono accorta della mia umanità, tanto da scoprire che non sono sola perché Lui mi fa compagnia. Trovo su di me questo sguardo di misericordia che solo Lui ha su di me, se penso ad una giornata come oggi, dove la corrispondenza è così gande, il cuore respira. Ma poter iniziare a respirare dentro le piccole e grandi tempeste della giornata, per me è stata una conquista. E ti devo ringraziare, perché ho visto te fare questa cosa, e ci ho provato.
JC: Non ho detto altra cosa in tutta la mia vita, che è quello che faceva vivere me. Io non ho responsabilità sul resto, capito? L’ho detto dal primo giorno all’ultimo. Grazie! Perché quando uno fa un errore è lo stesso: se uno rimane lì a rimpiangere l’errore o a leccarsi le ferite del dolore, invece di leggere il “Sì di Pietro”16, si arrangi! Perché nessuno ha gli strumenti che abbiamo noi per affrontare qualsiasi cosa ci capiti. Ditemi se, qualsiasi dolore uno abbia, qualsiasi errore uno abbia fatto, se leggi il “Sì di Pietro” rimane come prima. Vi sfido, se lo fate sul serio. E se non lo fate, o non lo fate sul serio, ditemi: come vi sopportate?
Se io lo faccio non è perché voglio raggiungere chissà quale santità, non me ne frega niente. È per stare con me stesso! Per questo, a voi interessa o no? Un minimo di tenerezza con noi stessi.
D: Vorrei tornare su una affermazione che hai fatto più di una volta: “L’io è rapporto diretto con il Mistero”. Potrei mettermi – lo dico in modo un po’ teatrale – di fronte ad una immagine e pensare di avere un rapporto con il Mistero. Che è una stupidaggine, ovviamente.
JC: Prova a vedere! Ciascuno veda, se riduce il rapporto ad una immagine, ossia un uso riduttivo della ragione in cui uno si ferma lì dove lui pensa che è il Mistero, se poi se la cava per guardare sé stesso.
D: Anche i protestanti dicono che hanno un rapporto diretto con il Mistero.
JC: Va bene, e i protestanti vedono che problema hanno con sé stessi.
D: Faccio un esempio pratico per capire meglio. Un collega ha un incidente sul lavoro, ritorna dopo un lungo coma farmacologico, gli chiedo: come stai? “Molto bene, non vedo l’ora di tornare al lavoro”, invece di chiedere soldi all’azienda. Capisco che anche lui non può vivere senza un significato. Ma io, come sto difronte a queste cose? Non credo di poter rispondere ancora bene sul “come”. Posso rispondere sul “dove”, forse. Posso dire che ho imparato a leggere il reale, e a imparare dal reale, perché sono stato immerso in un luogo. Di fronte a questo rapporto con l’io per me è essenziale anche questa immersione nel “dove”, e intendo qui. Per me è essenziale questo vincolo, e non è secondario per non finire a parlare con una immagine. Mi spiego?
JC: Certo. Ma la questione è che non qualsiasi “dove” è all’altezza dell’esigenza dell’io.
D: Beh, certo: Marracash e la Lovato cantano così ma non hanno un “dove”.
JC: Ma riconoscono il dramma.
D: Si, però gli serve un “dove” per rispondere.
JC: D’accordo, ma dico: la questione è che, se noi che siamo qui ci giustifichiamo in qualsiasi modo perché non rispondiamo all’esigenza del nostro umano, perché non sappiamo “dove”, è un problema nostro!
Sai, io sto parlando a voi. Stiamo parlando qui tra amici a cui è capitato quello che ci è capitato. Gli altri dovranno vedere: quando uno trova uno o un altro che può vivere a questa altezza, dovrà decidere come hanno dovuto decidere quelli a cui Lui si rivolgeva.
Per quelli che hanno ascoltato Gesù alla moltiplicazione dei pani, qual era il loro “dove”? Il loro “dove” era uno solo: avevano uno davanti che guardava il loro umano come quell’uomo lo stava guardando. Allora, ciascuno ha dovuto decidere davanti a quello sguardo che quell’uomo stava vivendo con sé. La samaritana, ovviamente, dove aveva cercato il compimento di sé? Cinque mariti e quello che aveva non era il suo. Finché non si trova davanti Uno che le dice “questo ti va bene? Soddisfa la tua sete?” 17. Dove uno percepisce il “dove”? Il “dove” è quello che risponde alla mia esigenza. Se non risponde alla mia esigenza è un “dove” che mi lascia ancora peggio, perché mi rende ancora più scettico. Quindi, la questione è che per poter scoprire il “dove” – come Giussani ci ha detto sempre: non c’è risposta ad una domanda che non si pone – occorre che io decida davanti a me stesso fino a che punto io voglio fare i conti con la mia esigenza umana. Perché se io non faccio questo, qualsiasi “dove” è uguale, lo decido io a capocchia. La questione è: quale “dove” è all’altezza? Io il “dove” potrei ancora non saperlo, ma quello che so è che non sopporto me stesso! Come vedi…
Quindi, il valore della fatica è che ci fa capire veramente qual è il problema della vita. La coscienza di sé è la vibrazione della sua esigenza della ragione. Allora, solo questi hanno accolto il “dove”. Non è che prima avevano la malattia e poi hanno incontrato. No. Solo quelli che avevano il bisogno, che erano ammalati, hanno incontrato in Gesù la risposta al loro dolore, al loro male. “Sono venuto non per i sani ma per gli ammalati, per i bisognosi”18. Quando Gesù insiste: “Beati quelli che hanno fame e sete, perché solo loro saranno soddisfatti” sta dicendo questo. Sta dicendo che questa esigenza, questo io che è rapporto diretto con il Mistero, trova veramente, intercetta il “dove” non abbassando il livello dell’esigenza. Allora ciascuno poi decide, se si accontenta di un qualsiasi “dove”, o c’è un “dove” che è all’altezza di questo, e altri preferiscono andare via.
Gesù ha fatto a tutti la stessa proposta, sono rimasti in dodici. Qual era il “dove”? Il “dove” l’avevano davanti. “Ma questo è pazzo, troppo esigente, troppo radicale”19, tutte le frasi che si ripetono. Allora ciascuno deve decidere qual è l’esigenza. Perché quando uno è ammalato non è che gli basta qualsiasi chirurgo. Proprio per la coscienza che ha della gravità della malattia – che non è un’influenza – cerca un “dove” adeguato alla natura del problema. Per questo dico che è esaltante questa situazione: perché meno ci viene risparmiata la fatica, più vediamo la coscienza di noi e più vediamo l’esigenza, la vibrazione della ragione.
E questo è il nostro io. E perciò quella donna che aveva avuto cinque mariti quando trova uno che dice “c’è un’acqua”: “dammi quest’acqua!”20. O i dodici rimasti dopo la moltiplicazione dei pani si sentono dire: “Anche voi volete andarvene?”: “Dove andremo?”21. O leghiamo queste due cose oppure, come ciascuno si può fare un’immagine di sé, si può fare un’immagine del “dove”. Ma né io mi posso ridurre all’immagine di me, né posso decidere l’immagine del “dove”. Né l’uno né l’altro, perché tutti e due sono irriducibili. E quando è irriducibile il mio dramma, non mi basta qualsiasi “dove”. E ciascuno deve vedere chi trova come compagno al destino. A che destino? Decidete voi che destino volete!
D: Scusa, forse torno un po’ indietro. Sono rimasta molto colpita quando nell’intervento di Natale22 hai parlato dell’insofferenza. Ho acceso “play” per ascoltarlo, due minuti dopo aver divorato il mio primario con tutte le mie lamentele di quest’ultimo periodo in ospedale. E quando ho spinto “play” e ho sentito…
JC: Prima di sentire il “play”: quando hai fatto questo con il tuo primario, ti sei liberata?
D: No.
JC: Per favore non saltiamo l’esperienza che facciamo! Se ti basta buttare tutta la tua insofferenza sul tuo primario, non hai bisogno di Cristo. Andate e buttate tutta l’insofferenza sul primo che passa per la strada. Ma provate a vedere se scaricare su un altro la vostra insofferenza vi serve per liberarvi.
La prima questione è: il tentativo che noi facciamo di risposta a questa nostra insofferenza è all’altezza della nostra esigenza di giustizia? Se vi basta questo non avete bisogno d’altro. Il problema è che prima di qualsiasi altra cosa, prima del “play”, c’era già! Non possiamo saltare questo. Perché altrimenti quello che dice il “play” te lo macini come ti sei macinata la tua esperienza prima. E come ci siamo macinati la prima esperienza pensando che ce la caviamo buttando tutta l’insofferenza sul primario, poi ce la caviamo dando la colpa a qualcun altro dopo il “play”. Capito? Perché è un problema di lealtà con l’esperienza. E dobbiamo aiutarci a non farcene passare una su questo. Perché il nostro problema è che ce le passiamo tutte, le spie che l’esperienza accende. Immaginate che lasciate tutte le spie della macchina. Va bene, non c’è problema: l’esperienza non inganna mai, dice Lewis23. Se uno non si rende conto di questo, ti capiterà la prossima. E allora, il “play”? Adesso si il “play”, ma con la consapevolezza di quello che abbiamo detto.
D: Nel “play” ho capito che quello che mi era successo, e che per mesi non avevo minimamente contemplato, è che quella era già un’esperienza che potevo leggere come la mia esperienza elementare. Per me quell’insofferenza erano le cose che non vanno, non la mia esperienza elementare che sgorgava da tutti i buchi. E quando in quell’’intervento tu dici “non sappiamo leggere quest’inquietudine”…
JC: Lo dice Giussani questo, attenzione! La genialità di Giussani è che vent’anni prima della nostra situazione aveva già identificato questo. Siccome noi non leggiamo adeguatamente l’esperienza, non leggiamo adeguatamente il nostro bisogno, lo riduciamo costantemente. Per questo ti ho fermata: perché se noi saltiamo questo, non leggiamo adeguatamente tutto il resto del “play”, perché già l’abbiamo ridotto alla nostra immagine. E come hai ridotto te alla tua immagine, ridurrai quello che ascolti secondo la tua immagine, perché è tale e quale. Perché la grande genialità di Giussani – mi correggerà poi il filosofo se non è così! – è la condizione di possibilità del capire: che occorre perché io capisca? Per poter capire, dice Giussani, ho bisogno di avere un’esperienza simile a quella dell’altro che mi sta parlando. Leggo, per essere preciso, perché è impressionante. Gli domanda uno come avvenga nella sua vita l’esperienza che sta comunicando ad un gruppo di universitari negli anni Novanta. “Come avvenga nella mia vita non posso dirtelo, amico mio. Se non in quanto già, nella tua vita, qualcosa di simile compare”24, cioè è sperimentato. Se tu non hai esperienza di quello che io ti posso dire, tu non capisci un tubo! Immaginate di comunicare ad uno che significa innamorarsi senza che abbia fatto l’esperienza: che pasticcio si fa nella sua testa! Può avere li davanti la persona, ma lo riduce a quello che lui ha sperimentato. Si capisce solo quello che in qualche modo corrisponde a qualcosa che già sperimentiamo.
Questa è la condizione della possibilità di capire il “play”. Se io non ti fermo e ti dico: “guarda la tua esperienza prima del play”, tu riduci quello che senti all’immagine che ti sei fatta, e quindi non capisci, anche se dici di capire. Mi dispiace. Non per cattiveria, come tu sai, ma per incapacità. Perché per poter capire tu il messaggio o la proposta di un altro devi avere una sintonia in te con quello che l’altro ti dice.
Questo è quello che non passa. Perché si dice: “No, io ti dico la sana dottrina, e per il fatto di ascoltarla tu la capisci”. Un tubo! Un tubo. Questo è quello che si è dimostrato fallimentare dall’Illuminismo in poi. Riduciamo il Cristianesimo a una serie di valori, ripetendolo: basta ripetere il Cristianesimo ridotto a dottrina o a etica, e diventa nostro! Basta semplicemente che ci sia un luogo che me lo ripete e diventa nostro. Va bene, allora verifichiamo dove sono le chiese piene… Perché per poter capire la proposta di un altro, occorre che trovi sintonia in quello che già io ho sperimentato. Altrimenti non capiamo. «Se chi ascolta una persona non ha in sé qualcosa che in qualche modo lo avvicini alla esperienza dell’altro, può travisare il significato della sua parola»25.
E se pensiamo di capire, è solo perché capiamo una minima parte di quello che ci viene detto, ma riducendolo come abbiamo ridotto la nostra esperienza umana. Questo circuito, nella stragrande maggioranza non l’abbiamo capito. Ma questa è stata la genialità di Giussani. E se non lo capiamo, lo pagheremo sulla nostra pelle. Non me ne frega niente, andremo tutti in cielo per grazia di Dio. Per la misericordia di Dio. Ma il problema è la vita. Il problema non è che Dio abbia misericordia di me, già lo so. Il problema è vivere adesso con me stesso! Il problema non è neanche che quella donna aveva fatto quello che aveva fatto: non è che Gesù cancella che aveva avuto cinque mariti. Il problema è che Lui sa che il problema della vita è la fame e la sete. E se Cristo non risponde alla fame e alla sete, quella donna cercherà altrove la soddisfazione. Come noi, perché non possiamo evitarlo. È irriducibile la nostra fame e la nostra sete di pienezza. Tanto è vero che altrimenti cercheremo di soddisfarla altrove. E se non la trovi in te, cercherai la tua soddisfazione nel buttare contro il primario tutta la tua insofferenza. Ma guarda se buttare la tua insofferenza sull’altro ti pacifica. Possiamo essere leali un istante con noi stessi?
CE: Come documentazione vorrei dire una cosa che non dimenticherò mai. Tanti anni fa ti venni a trovare a casa e salutandoci, sulla porta, ti dissi con molta presunzione: “io sono uno che capisce le cose, però il mio problema è poi come le realizzo”. E tu dicesti: “no, non le capisci”. Ma era vero! È vero che le “capivo”, però, se non trovavano quella corrispondenza in me, avevo sempre il problema che poi non riuscivo a fare il passo.
JC: capito? Non ci rendiamo conto neanche di quello che diciamo. Prego.
D: Mi ha colpito molto un episodio: vado in Cina per lavoro, un viaggio che non volevo fare, devo andare e cerco di svangarmela, navigando questi giorni per tornare a casa. Mi portano a vedere il più grande monastero buddista della Cina. L’accompagnatrice cinese mi chiede se sono cattolico. Le rispondo di sì e le chiedo se lei è buddista. Mi dice “no, tradizionalmente sono buddista ma fondamentalmente sono atea, tutti i ragazzi della mia generazione sono di fatto atei”. Invece mi racconta con nostalgia di sua nonna che abita in una valle sperduta della Cina, in cui hanno un Dio che si sono inventati loro, hanno costruito un tempio e adorano questo Dio. E a cento chilometri di distanza, accanto, c’è un’altra valle in cui hanno un altro Dio sempre inventato da loro. Mi sono commosso a pensare che questa gente, nel lavoro dei campi e nella vita quotidiana, ha vissuto una tale esigenza di senso che ha dovuto esprimere costruendosi un Dio! Nel tempio in cui c’è il Buddha sdraiato mi trovo in imbarazzo di fronte al rito della preghiera al Buddha. L’accompagnatrice si accorge del mio imbarazzo, e mi dice sottovoce: “rendi semplicemente grazie a ciò in cui credi”, e io ho detto una preghiera alla Madonna. Mi sono accorto che in quel momento avevo tutto presente, ero tutto lì, senza più la voglia tornare a casa appena possibile. Io lì ho riconosciuto Gesù senza bisogno di nessun altro: quella ragazza mi è stata amica così. Gesù era lì per me. Ho bisogno di persone che mi aiutino a vivere qualsiasi istante non pensando al futuro o rimuginando sul passato. Il presente è già tutto lì.
JC: È impressionante che possiamo cercare di imporre l’ateismo attraverso tutte le fasi dell’educazione di un popolo, ma c’è qualcosa che rinasce sempre, perché riemerge la natura dell’io. Questo esempio che stai raccontando, di coloro che si creano il proprio tempio, dimostra l’esigenza che hanno a partire dall’esperienza che vivono di sé. Potrà essere a tentoni, attraverso le immagini che si fanno. Ma, malgrado abbiano cercato in tutti i modi di asfaltare qualsiasi sentimento religioso, questi ripartono. Poi, non sanno interpretarlo, o lo interpretano a tentoni, come abbiamo visto in ogni forma di religiosità, per cui da quando il Verbo si è fatto carne tutti i tentativi sono a tentoni. Ma hanno questa esigenza.
Quindi, per poter cancellare questo non basta nessun tentativo ideologico: occorre ammazzare la natura dell’uomo perché non riparta in qualsiasi modo questa esigenza che è costitutiva della nostra natura. In questo, vedete, nessun potere, neanche quello più organizzato per cercare di far tacere questa natura, è in grado di farla tacere. Che è quello che vediamo. Da una parte in Cina, dove hanno provato in tutti modi. Dall’altra parte, in Occidente, lo vediamo dove abbiamo tutte le possibilità, e vediamo l’irriducibilità che costantemente viene a galla con altre forme di idolatria – perché è una diversa situazione – e ciascuno fa il proprio tempio. Ma in tutti e due i casi il problema è lo stesso: la natura della persona. Quanto più la persona fa fatica per un motivo o per un altro, più fa emergere la coscienza di sé, e la vibrazione della sua ragione.
Poi, a uno come te davanti a questa situazione ti viene da pensare a Cristo. Ma non è perché quella persona ti porta Cristo. È perché quella persona fa rivivere in te quello che tu hai ricevuto, anche se lei non conosce Cristo. Vuol dire che qualsiasi situazione per te è occasione di far memoria di quello che hai nelle viscere. Allora qualsiasi situazione, qualsiasi fatica, qualsiasi circostanza diventa parte di questo ridestarsi, ti porta alla memoria quello che hai nelle viscere. Che non ti dà lei, ma che tu hai per l’esperienza che hai incontrato, per la fede che hai.
Ma questo ci dice che l’irriducibilità che vediamo gli uni negli altri – e che è la nostra – non potremo mai cancellarla e dovremo farci i conti. Potremo rimandarla in tanti modi, potremo cercare di gestirla come vogliamo – ciascuno può costruire il proprio tempio–, va benissimo. Ciascuno, poi, deve fare la verifica del tempio che costruisce. Come? Con la vendetta con il capo? Nel tentativo di risposta ciascuno deve fare la verifica.
Questo è cruciale per noi. Il fatto che qualsiasi tentativo che facciamo si scontra con una irriducibilità nostra vuol dire che abbiamo tutti i fattori per giudicare il tentativo. Non avremo bisogno che nessuno ci dica quando il medico se la cava con la nostra malattia: lo vediamo nella nostra salute. È oggettivo, è infallibile. Non è che mi metto a discutere con il medico o il medico si mette a discutere con me. “Dottore, mi dispiace molto ma non sto bene”. Potrò essere scemo quanto vuoi, non so niente, ma non sto bene! Posso dirlo? Posso dirlo o no? C’è ancora la libertà di dire questo? E ciascuno deve fare i conti con questo. Ti va bene quello che dice il medico? Bene. Ma ti va bene perché ti sottometti all’unanimità o ti va bene perché è risposta al tuo bisogno? Decidete.
Perciò questo momento è esaltante. Perché non fa sconti a nessuno. Sia nella Cina, nelle valli più sperdute della Cina, come nell’Occidente. Ma questo dice che, ancora più esaltante di tutto, è la irriducibilità della persona.
D: Anche a me in questo periodo la fatica del vivere, grazie a Dio, non è risparmiata. Qualche mese fa abbiamo accolto in affido un bimbo, che ha un po’ scombussolato psicologicamente e fisicamente la nostra vita familiare, essendo molto impegnativo. Dopo un mese di convivenza bella è accaduto un fatto grave, che non ci saremmo mai potuti aspettare: durante un incontro protetto con la madre biologica, il bimbo è stato rapito e portato in un luogo a noi sconosciuto. Sono iniziati otto giorni di vero e proprio incubo, non lo auguro a nessuno, imparagonabile anche alla morte: è il totalmente misterioso, un film in cui ti ritrovi dentro. Eppure, già in quei giorni, miracolosamente, abbiamo sperimentato la grande compagnia del Mistero, non appena la compagnia di chi ha provato a starci accanto. Il fatto di doverci affidare totalmente ha purificato il nostro rapporto col bambino e radicalizzato il nostro rapporto con la realtà. In quei giorni non era appena un pietistico “sia fatta la tua volontà”. Non bastava niente.
JC: Che vuol dire “pietistico”? Che non era adeguato all’esigenza della ragione.
D: L’unica cosa adeguata era che Lui si facesse vedere.
JC: Vedete? Perché non ti accontenti con meno? “Che si facesse vedere” vuol dire che tu devi usare la ragione fino a lì: a “che Lui si facesse vedere”. Questo è l’unica cosa che ti dà pace.
D: Letterale.
JC: Tutto il resto è troppo poco per l’esigenza della tua ragione, per la vibrazione della tua ragione. Perché la ragione come tu vedi – e non lo auguri a nessuno – non è un sentimentalismo devoto, no! È tutta la drammaticità del vivere, talmente potente che tu non la auguri a nessuno. Questa è la vibrazione della ragione. Perché tu vedi emergere la tua esigenza umana davanti a una cosa così, non quando te la racconti o quando ti smarrisci con i tuoi pensieri. È quando la realtà ci provoca fino a quel punto lì, col rapimento di un bambino, che fa emergere tutta la tua ragione, tutta la tua esigenza, e ti accorgi che qualsiasi cosa che non arrivi fino all’ultimo punto non è adeguata. E tu questo lo chiami “pietismo”. Non c’entra niente con la religiosità. Questo non c’entra niente con il vivere intensamente il reale, che è la definizione della religiosità. E quando tu la riduci a pietismo, cioè a positivismo, tu soffochi. Allo stesso tempo che usi il pietismo, stai soffocando dentro te stesso. Soffochi per il razionalismo. Quindi: l’esperienza accende tutte le spie. E allora?
D: Allora paradossalmente questa realtà costringente…
JC: vedete che non ci rendiamo conto, ragazzi! Quando cominciamo a parlare dell’esperienza usiamo verbi o aggettivi che sono allucinanti. “Costringente”: ti costringe! È talmente esigente, è talmente tuo che ti costringe. Ma ti costringe come spinta, e tu devi decidere davanti a questa costrizione se dire “si”, assecondarla, o dire “no, è troppo!”. Vediamo allora cosa decide ciascuno, quando vede questa costrizione davanti a sé. Perché noi non siamo animali per cui ad uno stimolo corrisponde una risposta, meccanicamente. Sempre c’è di mezzo la libertà. Quindi: “costrizione” tra virgolette, perché sempre è una provocazione più potente, tanto che uno non può rimanere senza prendere una decisione. E quindi?
D: si, nel senso di “facilitante”,
JC: facilitante, perfetto. Voglio dire che tante volte pensiamo che quando usiamo queste parole è come se avessimo eliminato la libertà. Perché un altro davanti alla stessa contingenza dice “basta, non voglio sapere, mi distraggo, voglio scappare da qui, non voglio sapere nulla di nulla!”. Capito? È importantissimo questo. Perché tante volte noi pensiamo che siamo costretti ad una cosa o siamo costretti ad un’altra. No, no, no! Siamo costretti, come facilitati, per questa esigenza che vediamo dentro di noi, a decidere. Ma non ci viene risparmiata la decisione. E quindi?
D: Durante la vertigine di questi giorni era una continua sfida, come dicevi tu. “Anche questa circostanza Tu me la stai dando, per me, perché io possa essere totalmente me stesso e totalmente figlio”, oppure è il buio. L’abbiamo percorsa tutta con l’ipotesi che Lui sia padre, cioè che anche in quella circostanza Lui ci stesse parlando. E tutti i segni che sono arrivati, anche i più bui quando sembrava che il bambino non si sarebbe più trovato, non abbiamo perso la speranza, non di ritrovarlo, ma la speranza che ci fosse un destino buono per noi.
JC: Perfetto, e per lui!
D: E per lui, assolutamente. Uno dice “Bellissimo, è una acquisizione per sempre!”. È successo il miracolo, il bambino è stato ritrovato, vive con noi dal 1° settembre. È iniziata la nostra nuova vita, molto complicata, post-trauma: è un bambino difficilmente gestibile. In una delle sue crisi di rabbia estreme mi ha attaccato fisicamente. L’impatto con la realtà per me è un impatto fisico.
JC: Devi allenarti!
D: Infatti! Dopo una giornata devastante, in cui ci ha sfinito fisicamente, ci ha assalito un moto di tenerezza nei riguardi nostri e del bambino. Lo vedevamo nel lettino e ci siamo detti: “caspita, questo bambino non c’era e c’è; poteva non esserci e c’è”. E noi possiamo o decidere di concentrarci sul fatto che non va, oppure ripartire dal dato. Per questo per me il decimo capitolo non è un’immaginazione, è la mia vita. Questo bambino: la cameretta era vuota, e a un certo punto si è riempita di nuovo. Allora posso ripartire da quello che non va, che comunque stiamo affrontando, oppure dal dato che è un dono, e partire da questo.
JC: e con questo che esperienza fai rispetto a prima?
D: è liberante.
JC: Il fatto che ci sia, lì nella culla, rispetto al fatto che sia stato rapito: la differenza è lì, non tutte le altre conseguenze, le malattie o robe varie. E questo vi va fare un tipo di esperienza assolutamente nuova. Se voi, invece di guardare che c’è, guardaste tutto il resto, fareste un altro tipo di esperienza.
D: e la facciamo perché è il bivio di tutti i giorni.
D: Mi sono accorto, ascoltando la canzone di Demi Lovato all’inizio, che in realtà non ci stavo difronte a questo disagio, alla fatica che faccio. Eppure, a casa faccio molta fatica, con mio padre che non sta bene e altre fatiche familiari. Ma siccome ero riuscito tutto sommato ad essere bravo, a sistemare un po’ le cose, mi è bastato. Senza contare che devo stare di fronte al fatto che mio padre non guarisce, è una fatica che dovrò fare sempre di più. Però fino a stasera questa fatica me l’ero nascosta, forse perché non l’accetto. Ma di fronte a te…
JC: che non ti abbasso l’asticella
D: non basterebbe neanche quello, ma soprattutto che ti vedo così, esaltato di fronte a questa cosa, non posso accettare di meno.
JC: Perfetto, vedi? Questa è la questione. Se accettiamo di meno o no. Perché, se anche tu guardi dall’altra parte, questo sarebbe risolutivo? Come la vendetta con il capo? No.
D: Sembrerebbe, perché alla fine, più o meno…
JC: va benissimo, questa è la realtà, a me interessa solo questo. Ciascuno lo farà quando vuole. Accettare con lealtà quello che gli capita. Tu avresti potuto continuare, se non ci vedevamo questa sera, a vivere come prima.
D: Questo per me non è stato così indifferente, è una roba pazzesca no?
JC: Io ti capisco. Ma in un certo modo questo ti ha aiutato a renderti conto di te, di quello che tu stavi censurando, e adesso non sei riuscito a censurarlo più.
D: Esatto
JC: Ma va bene, e siccome la malattia di tuo padre sta andando avanti, a un certo punto, prima o poi tu ti saresti dovuto imbattere in quella situazione ed essere consapevole di qual è la situazione, e non avresti potuto scappare! Allora, la questione è questa: potrebbe il Mistero usare con ciascuno il metodo che ha deciso Lui – la fatica che diceva Costa all’inizio – per renderci consapevoli della nostra esigenza e della vibrazione della nostra ragione? Ma il punto è che, quando arriviamo lì, non possiamo campare semplicemente cercando di non guardare. Come tu questa sera non hai potuto.
Ma questa è la liberazione che ha introdotto un altro nella nostra vita: che non siamo costretti a dover censurare niente. Senza censurare niente, cancellare niente, ci ha detto sempre Giussani. E noi sappiamo che lì siamo all’altezza di questa nostra umanità, quando non abbiamo niente da censurare, niente da cui scappare. Perché sennò è illusorio. Tu per qualche momento durante la giornata potrai far finta che qualcosa non c’è, ma è illusorio. Perché basta qualsiasi disturbo del papà, o di un familiare, o di tutto l’ambaradan, perché ritorni alla tua consapevolezza. Ed è lì, quando la situazione ti trova come disarmato, inerme come questa sera, è lì dove tu devi fare i conti con quello: “ma io voglio guardarlo o voglio far finta di non vederlo ancora”?
D: Quindi può accadere anche a casa questo?
JC: Può accadere anche domani mattina.
D: Magari!
JC: Ma per me è questo! Per voi è una palla al piede. Per me è la possibilità attraverso cui il Mistero mi sta chiamando. Tu non sei costretto a vivere scappando da te. Io quello che sto cercando di dire è che non siamo costretti a vivere scappando da noi stessi, o cercando risposte che non sono all’altezza della nostra umanità, alla vibrazione della nostra ragione. Non siamo costretti, è una decisione. E questa è nostra, non è di nessun altro. Capito?
D: Stasera si.
JC: Perfetto. Allora, questo è il nostro io che è rapporto diretto con il Mistero. Non perché questo lo possiamo fare da soli, ma perché con questo – malgrado la situazione che vediamo, con tutte le spie che il Mistero ci dà – possiamo essere leali o non essere leali. Chiaro?
D: A proposito di sfide esaltanti, i miei figli mi chiedono di fare una cena con amici con cui due anni fa mi sono scontrata e da cui sono rimasta molto ferita per delle pesantissime riduzioni ideologiche. Alla fine per vedere felici i figli ho accettato, ma anche con libertà, senza aspettarmi chissà che. Succede veramente l’imprevedibile: questi amici presentano le stesse riduzioni di due anni fa, e io li ascolto e rimango esterrefatta pensando “ma perché ero incazzata con loro”?
JC: Stupendo. E cosa è capitato a te?
D: È capitato che per questioni personali ho attraversato due anni di ferro e fuoco e ho fatto un cammino grande, che mi ha liberata dentro una marea di sofferenza, in cui sono attualmente, che però mi ha reso libera e non dipendente dallo sguardo riduttivo degli altri su di me. Tant’è che due anni fa pensavo: “ma che problema hanno questi?” Durante quella cena ho pensato: “ma che problema avevo io?”.
JC: Perfetto, capite la differenza? Nello stesso “dove”. Ma qual è la differenza? Il cammino che uno ha fatto. E questo chi lo decide? Ciascuno. Perché se uno non lo fa, alla fine avrebbe potuto continuare a scaricare sull’altro il problema che ha. Ma tu avresti continuato a vivere nell’insofferenza. Adesso vivi libera da quella insofferenza, anche se loro stanno dove erano prima. E io tifo per la loro libertà, perché facciano il proprio cammino senza nessuna costrizione. Ma io sono contento di aver fatto un cammino, di sentirmi libero davanti a una situazione così, o no? Questo nessuno ce lo può impedire, ma nessuno ce lo può risparmiare. Questo è il dramma che viviamo in qualsiasi realtà o circostanza in cui ci troviamo. Grazie. Ultimo!
D: Nelle ultime quattro settimane, la mamma di mio marito è morta dopo vent’anni di malattia. In questo contesto di sofferenza estrema – mio marito è malato da trent’anni, sua sorella è morta a quarant’anni per un tumore – l’unico fratello di mio marito, che sta bene, era il più arrabbiato con questo Dio ingiusto, secondo lui, verso la sua famiglia. Io mi sono trovata a disagio. Ero addolorata, e lo sono – abbiamo fatto il funerale sabato –, ma anche molto serena e molto certa. Il disagio è perché questo lo si vedeva. Non solo lo vedevano gli amici e i parenti. Ogni volta che andavo a trovarla in rianimazione, gli operatori mi dicevano sempre: “Signora, quando viene lei è diverso, lei ha un’altra faccia”. Mi sono trovata continuamente a spostarmi da quello che avevo in testa io: prima la speranza che guarisse, poi la preghiera che finisse. Invece il punto che a me ha aiutato di più è stato essere in quel dialogo che dicevi prima con il Mistero. Sospesa, ma non sospesa al niente. Sospesa a vedere cosa c’era per me in quella situazione. E ho capito questo: ho fatto esperienza, con tutta la fatica che vivo da tanti anni con mio marito – che io chiamo una preferenza, perché mi costringe a non poter dare per scontato mai nulla, ogni giorno –, di una cosa che ho sentito da te: si può stare di fronte alla morte se c’è qualcosa nella vita, prima, che ti permette anche di stare di fronte alla morte. Perché sennò poi di fronte alla morte non c’è una cosa che tiene. Sono grata per questa continua scoperta del mio bisogno costitutivo di essere felice, di essere voluta bene. Di fronte alla realtà che è dura, ho bisogno di venire qui – ho fatto ottocento chilometri e domani mattina me ne vado – perché ho bisogno di guardare degli amici che rispetto alla drammaticità della vita vivono all’altezza di questo desiderio, di questo essere irriducibili di fronte a questo.
JC: Perché l’alternativa qual è? Quello che hai visto nel fratello: essere arrabbiato per trent’anni. Stesse identiche circostanze – o peggio le tue, perché tu hai il marito. La questione è che davanti ad una situazione così, uno si può arrabbiare, e vede se questo gli fa risolvere il problema, se glielo fa affrontare meglio, oppure accetta di essere sospeso a questa cosa così volubile come sono le circostanze, ogni giorno. E questa è la decisione di ciascuno. Questo che racconti lo dicevo nel dialogo con Violante26. Lui aveva posto il problema in questi termini, che è la genialità di quello che dice: “noi non siamo in grado di guardare in faccia queste cose perché non abbiamo una vita che ci consente di guardarle”. Io a questo avevo risposto: “sono totalmente d’accordo”; per me la sintesi di questa situazione, di come mettere d’accordo la vita con la morte, è San Paolo quando dice: “per me il vivere è Cristo, e la morte un guadagno”27. Uno che riconosce che per lui vivere è Cristo, non ha paura della morte, di guardare questo. Poi il resto è nelle mani di un Altro. Ma che certezza deve avere San Paolo, per poter dire sinteticamente qual è il problema reale del vivere. Tutto il resto è distrarsi, perché, quando arriva il problema della morte, lì facciamo tutti il test di come abbiamo vissuto, di come viviamo: perché non abbiamo possibilità di scappare da qualcosa come la morte. Quindi, come noi viviamo, lo scopriamo quando arrivano queste circostanze che fanno emergere il cammino che uno ha fatto. Per questo, siamo insieme solo perché noi vogliamo vivere all’altezza di questa vibrazione della ragione, per poter stare da protagonisti davanti alla vita e davanti alla morte.
Costantino: volevo solo dire in conclusione perché ho fatto quella domanda iniziale. Perché, da due o tre anni, ti sentivo parlare di questa “esaltazione”. All’inizio ho detto “che invidia, come vorrei vivere così”, ma non bastava. Poi tu continuavi, e io ho pensato “forse però è un po’ esagerato: va bene le sfide della realtà, però che addirittura sia un’esaltazione…”. Alla fine, per il fatto di una certa situazione, anche nel movimento (ma non mi interessa il caso), io ho detto: “ma io lo voglio prendere sul serio questo…”, e ho capito che era un’occasione per liberarmi. Comunque, stasera secondo me siamo arrivati ad un livello vertiginoso. Cioè al livello del nostro io, ed è il più bel regalo di compleanno. Grazie!
JC: Grazie, tanti auguri!
- Appunti non rivisti dall’autore.
1.- Luigi Giussani, “Il Senso Religioso”, BUR (2023), pagg. 139-151.
2.- Ivi, pag. 139.
3.- Come introduzione all’assemblea è stato eseguito “Anyone” di Demy Lovato, Bibi Bourelly, Eyelar Mirzazadeh, Jay Moon, Sam Roman, Dayyon Alexander; da “Dancing with the Devil… the Art of Starting Over”, Island Records (2021).
4.- Marracash, “È finita la pace”, Universal Music Italia (2024).
5.- Ivi, “Vittima” di Fabio Rizzo (Marracash), Stefano Tognini (producer), Alessandro Pulga (producer).
6.- Luigi Giussani, op. cit., pagg. 129-137.
7.- Cfr. Mat 14:13-21; Mar 6:34-44; Lu 9:11-17; Giov 6:1-15.
8.- Cfr. Giov 6:53.
9.- Cfr. Giov 6:57.
10.- Marracash, op. cit., “È finita la pace” di Fabio Rizzo (Marracash), Ivan Graziani, Stefano Tognini (producer), Alessandro Pulga (producer).
11.- Marracash, ivi, “Crash” di Fabio Rizzo (Marracash), Stefano Tognini (producer), Alessandro Pulga (producer), Alessandro Civitelli (producer).
12 .- Ciclo di incontri tenuti da Don Eugenio Nembrini, iniziati il 14 Novembre 2024 a Bergamo, sul testo “C’è Speranza” di Julián Carrón: https://youtu.be/WLI6y4e-a1M?si=qJyCbWaZFccYZbTW
13.- Julián Carrón, “C’è speranza? Il fascino della scoperta”, Editrice Nuovo Mondo (2021)
14.- Luigi Giussani, op. cit., pagg 109-128.
15.- Luigi Giussani, ivi, pag. 124: “in un solo caso questa immagine di uomo libero è spiegabile: se si suppone che […] sia diretto rapporto con l’infinito, diretto rapporto con l’origine di tutto il flusso del mondo”.
16.- Luigi Giussani, “Il Sì di Pietro come impeto di ogni giorno”, Litterae Communionis – Tracce, Milano (1995).
17.- Cfr. Giov 4:5-42.
18.- Cfr. Mat 9:12; Lu 5:31-32, Mar 2:17.
19.- Cfr. Giov 6:60.
20.- Cfr. Giov 4:15.
21.- Cfr. Giov 6:67-68.
22.- Intervento di Don Julián Carrón alla Convention della Fondazione San Michele Arcangelo dal titolo: “Tutte le Circostanze sono fattore Essenziale della nostra Vocazione”, 19 Dicembre 2024, https://youtu.be/Jte2YVimHrM?si=4M1TJ1b0GAG6Ylcd
23.- “Quello che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate; ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete aver ingannato voi stessi, ma l’esperienza non sta cercando di ingannarvi. L’universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente.” Da C.S. Lewis, “Sorpreso dalla gioia”, Ed. Jaca Book (2021), pag. 131.
24.- Luigi Giussani, “Attraverso l’Umano”, Incontro con la comunità di Comunione e Liberazione di Scienze (Università Statale di Milano), 22 maggio 1995. In: Luigi Giussani, “Avvenimento di Libertà, conversazioni con giovani universitari”, Marietti 1820 (2002).
25.- L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Volume secondo del PerCorso. Milano: Rizzoli, 2011, 102.
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