Come si destano le domande ultime

Carrón · Julián Carrón
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16 octubre 2024
È possibile viverlo diversamente, così che alla fine non prevalga la delusione? O dobbiamo semplicemente accontentarci?.

La  drammaticità del vivere è qualcosa che ciascuno ha nelle proprie fibre. E tante volte questa drammaticità si esprime nella normalità della vita, nel quotidiano, come dice per esempio la canzone Un giorno dopo l’altro di Luigi Tenco. Qual è questa drammaticità? Che «un giorno dopo l’altro il tempo se ne va. Le strade sempre uguali, le stesse case. Un giorno dopo l’altro e tutto è come prima, un passo dopo l’altro, la stessa vita (…). Qualcuno anche questa sera torna deluso a casa piano piano. (…) E la speranza ormai è un’abitudine [uno non aspetta più niente]». È un’espressione in cui ciascuno si può riconoscere, sorprendendosi così nel quotidiano. Quindi, la domanda è: siamo condannati a questo o c’è un’altra possibilità di vivere la vita, di vivere questo quotidiano, «un giorno dopo l’altro»? È possibile viverlo diversamente, così che alla fine non prevalga la delusione? O dobbiamo semplicemente accontentarci?

Nel percorso che abbiamo fatto affrontando Il senso religioso, abbiamo potuto vedere che cosa intendiamo per “senso religioso”. Il senso religioso, come descrivono le parole di questa canzone, coincide con quel radicale impegno del nostro io con la vita, con la vita quotidiana, con il «giorno dopo giorno» che si documenta in certe domande. Qual è il significato ultimo dell’esistenza? Perché tutto non finisca per deludere. Perché c’è il dolore, la morte? Perché in fondo vale la pena vivere? Oppure: di che cosa e per che cosa è fatta la realtà? Quindi, il senso religioso a noi interessa perché ci interessa la vita, perché ci interessa non perdere la vita vivendo! Perché non abbiamo paura di guardare in faccia questa esperienza quotidiana, e vedere se c’è un’altra possibilità di vivere il quotidiano senza che finisca nella delusione. Per questo, il senso religioso coincide con questo livello dell’umano, di certe emozioni drammatiche, inevitabili, che uno si trova addosso. E se uno, addirittura, vede che «tutto» intorno «cospira a tacere di noi», a tacere questo dramma, allora – dice Rilke – ha quasi vergogna di avere questa «speranza ineffabile». Le domande che abbiamo affrontato nel capitolo quinto de Il senso religioso si possono svuotare, come abbiamo visto in quelli successivi. E, quando si svuotano e perdono questa drammaticità, non è senza conseguenze per la vita, è l’origine di quella delusione che abbiamo studiato nel capitolo ottavo, per cui prevale l’aridità: l’incomunicabilità con le persone più care, la perdita della libertà, fino – così si conclude quel capitolo – alla perdita del gusto del vivere, come se fosse inevitabile. Se queste domande sono così decisive per vivere e il loro svuotamento rende tutto piatto, «un giorno dopo l’altro», allora come si può ripartire quando vengono meno, quando si svuotano? Siamo condannati al fatto che la delusione prevalga, che lo svuotamento di questi interrogativi renda la vita piatta? È la grande questione che si affronta nel capitolo che stiamo per iniziare. Come si ridestano queste domande? Questo ci porterà a capire in modo sintetico qual è l’itinerario del senso religioso.

Il nostro intimo sostentamento

Don Giussani – l’autore del libro – ha una percezione chiara, netta: che il capitolo decimo de Il senso religioso sia «la chiave di volta» del nostro modo di pensare, della modalità con cui noi vogliamo vivere il reale, proprio perché la vita non diventi una delusione. Questa urgenza è particolarmente rilevante per un’osservazione che mi ha sempre colpito di una filosofa spagnola, María Zambrano, sul nostro tempo: «Quello che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere alla realtà, qualcosa di tanto profondo e fondamentale da essere il nostro intimo sostentamento». Se il rapporto con il reale di ogni giorno è talmente decisivo da essere il nostro sostentamento, al punto che, se viene meno, la vita si appiattisce, si svuota, delude, allora non c’è urgenza più grande che ricostruire il rapporto vero con la realtà. Non fuggire dalla realtà per cercare nei sogni – come dice la canzone – che, poi, «sono ancora sogni» e non sono in grado di rispondere all’urgenza del vivere… Allora, guardiamo in faccia la questione.

Come può succedere che la vita, in qualsiasi situazione ci si trovi, possa costantemente ridestarsi nel rapporto con la realtà? Come si ridesta la vita con le sue domande? La risposta a questo interrogativo ci costringe a individuare la struttura della reazione che l’uomo ha di fronte alla realtà. Cioè, non occorre complicarsi con pensieri strani: osserviamo la vita, osserviamo come reagiamo davanti alla realtà! Le canzoni, come quella che abbiamo sentito, lo dicono molto semplicemente, come Shallow di Lady Gaga: «Dimmi una cosa, ragazza, sei felice in questo mondo?». Vivendo, non facendo un corso di filosofia, non facendo un corso di esercizi spirituali, ma dalle viscere del vivere sorge questa domanda: ma tu, sei felice? O hai bisogno di un di più? C’è qualcos’altro che stai cercando? Non sei stanco di cercare di riempire quel vuoto che viene fuori costantemente nell’esperienza del vivere? Hai bisogno di un di più? Oppure quest’altra canzone di Billie Eilish, che abbiamo usato l’anno scorso: «Ero solita galleggiare, ora cado e basta. Lo sapevo, ma ora non ne sono sicura. Quello per cui sono stata creata. Per che cosa sono stata creata?» Per che cosa sono stata fatta? Qual è il senso di questo mio essere? Sono reazioni che sorprendiamo nel reale.

Come mi è capitato l’anno scorso quando, arrivando a Grumello per l’ora di lezione, trovo una persona che mi racconta un episodio successo nella classe in cui sarei dovuto entrare. Era successo che, quando i ragazzi non si sono sentiti guardati per l’attesa che hanno nel cuore, si sono ribellati. Allora dico a chi me l’aveva raccontato: «Adesso affrontiamo questo, perché a me interessa che i ragazzi possano capire. Perché a noi interessa affrontare il tema del senso religioso? Proprio perché possano capire, attraverso l’esperienza che fanno, chi sono loro!». Sono entrato in classe e ho chiesto ai ragazzi: «Che cosa vi ha fatto scoprire, di voi, il fatto di non esservi sentiti guardati, ascoltati? Che cosa dice di voi? Che voi avete un’esigenza di essere voluti bene, di essere stimati, di essere ascoltati e di non essere invisibili, che non vi è sorta fermandovi a pensare, ma è emersa dall’esperienza del vivere! Che cosa dice questo di voi? Chi siete voi?». Allora hanno capito, osservandosi in azione, di avere questa urgenza, così come la sente ciascuno di noi. L’uomo si accorge dei fattori che costituiscono la sua vera natura osservandosi in azione: occorre osservare la dinamica umana nell’impatto con la realtà. Perché si svela nell’impatto con la realtà, vivendo la vita! È quando uno non è guardato, o quando non gli basta quello che ha e si domanda: «Ma ti basta questo?»; non quando si ferma e dice: «Ci devo pensare…». No, gli viene fuori dal vivere! Infatti, leggiamo in questo capitolo: «Un individuo che avesse vissuto poco l’impatto con la realtà, perché ha avuto ben poca fatica da vivere, da compiere, avrà scarso il senso della propria coscienza [il senso di qual è l’urgenza che ha dentro di sé, non potrà capire sé stesso], percepirà meno l’energia e la vibrazione della sua ragione». Quindi, si potrà godere meno la vita, perché quando la vita è piatta, arida, niente interessa veramente, arriva la delusione, come abbiamo sentito nella canzone.

Non è che la realtà non sia lì davanti a lui, ma non lo stupisce, non lo fa vibrare! E tutto il rapporto si fa piatto, arido, senza senso. Immaginate che cos’è la vita vissuta così! Ma quello che stupisce, quando uno è attento a quello che accade, è che non c’è situazione, neanche la più drammatica, che non possa essere un’occasione in cui la vita può ridestare la persona, come abbiamo visto accadere quest’anno al musicista, Giovanni Allevi, che, davanti alla malattia, avrebbe potuto dire: «Vedi, questa è la conferma della delusione totale del vivere». Invece no: «All’improvviso, quando mi è crollato tutto: ho perso il lavoro, ho perso i capelli, ho perso le mie certezze, è quando ho scoperto che speranza avevo! Perché è come se la malattia non fosse tutto, e fosse l’occasione di rendermi conto dei doni inaspettati, che erano lì davanti! [ma non li riconosceva, non li vedeva]». E allora lui, anche in una stanza d’ospedale, ha cominciato a riconoscere che ogni individuo è unico e irripetibile, a sentire tutta la gratitudine per la bellezza delle cose, del creato. Dice: «Non si contano le albe e i tramonti che ho ammirato da quella stanza d’ospedale». E così è stato con il riconoscimento dei medici, degli infermieri, di tutte quelle persone che si preoccupavano di lui. La provocazione della realtà, invece di essere una delusione, l’ha portato a rendersi conto di tutto come di un “dono”. Non è che deve cambiare la realtà, può essere quella che viveva lui in ospedale o quella quotidiana che ho visto ieri, ma, a un certo punto, se uno la guarda in faccia, può fare esplodere quella pienezza che vediamo nella testimonianza di questo musicista o di tanti altri. Ma dico, occorre aspettare che succeda un evento così drammatico perché si ridesti la nostra umanità? O ci possiamo educare a vivere la realtà in modo tale che sia essa stessa a ridestarci in continuazione e non permettere che tutto diventi piatto? Questo è il tentativo che fa don Giussani nel decimo capitolo.

Partire dalla realtà, non da Dio

Parte provocando un’immaginazione, ciascuno cerchi di farla propria mentre la spiego: «Immaginate», dicevo sempre ai ragazzi, «che voi usciate adesso dal seno di vostra madre con la coscienza che avete ora – che ciascuno di noi ha – e la prima cosa che vi trovate davanti, mentre state aprendo gli occhi, fosse il Monte Bianco: quale sarebbe la primissima reazione davanti al reale in cui vi imbattete?». Tutti concordavano: «Lo stupore». Uno non può evitare che davanti alla realtà sia preso dallo stupore. Poi, spiegando il capitolo, ho raccontato tante volte questo episodio. Un giorno, un amico brasiliano mi racconta di essere stato in una località di montagna del nord Italia, a La Thuile, ad accompagnare un gruppo di brasiliani e mozambicani in gita al colle di San Carlo, un luogo da cui potessero vedere il Monte Bianco. Erano lì a chiacchierare, mentre camminavano, e questo amico pensava tra sé: «Adesso, quando arriviamo davanti al Monte Bianco, da dove si vede il panorama, gli dico di fare un po’ di silenzio per lasciarsi colpire da quello spettacolo». Erano appena arrivati e, prima che lui dicesse nulla, tutti sono rimasti senza parole, presi da quella bellezza, da quello spettacolo, che li ha colpiti talmente tanto come quando uno dice: «Eh!», e resta senza parole, tanto è imponente quella realtà. Poi, come se non avesse visto questo, siccome un altro gruppo era rimasto indietro, pensa di nuovo: «Adesso quando arrivano gli altri, dico anche a loro di stare in silenzio», ma si è ripetuta la stessa cosa, la stessa reazione. Non ha dovuto dire niente perché, appena si sono imbattuti in quello spettacolo, tutti sono rimasti in silenzio, presi dalla realtà. Immaginate se uno, aprendo gli occhi al mattino, potesse percepire tutto il contraccolpo della realtà che lo riempie di stupore! Basta rendersi conto, domandarsi: «Ma   se chiedessi adesso, a quanti sono qui oggi ad ascoltare: chi si è stupito questa mattina nell’aprire gli occhi? O quando ha trovato la persona amata, o un figlio?». E cominciamo a vedere che, con gli stessi ingredienti, le persone, le cose, la realtà può essere scontata. Una volta, spiegavo queste cose in Università Cattolica e, appena finita la prima ora, viene alla cattedra un ragazzo e mi dice: «Prof, io non ho bisogno di immaginare – come diceva lei –: “Se io nascessi in questo istante e vedessi la realtà…”, perché a me è capitato». «Come, ti è capitato? Tu sei nato adesso con la coscienza che hai ora?».

«Sì, perché ho avuto un incidente stradale e sono stato in coma per mesi. Poi mi sono risvegliato con la coscienza di adesso. Ha perfettamente ragione! Era tutto nuovo, tutto bello, tutto mi colpiva, niente era scontato come prima, quando mi ero abituato a vederlo». «Perché?». «Perché il prima, essendo stato in coma, non potevo più darlo per scontato. Ma adesso, ascoltandola, mi rendo conto che da qualche giorno tutto ha cominciato a scemare di nuovo: già il brillìo dei fiori o delle foglie o del volto delle persone comincia a venire meno. La realtà mi parla meno di quando sono tornato alla coscienza di me dopo il coma». Così ho capito una cosa che dice don Giussani, pertinente al percorso che stiamo facendo in questo capitolo. Dice: «Non aspettatevi un miracolo, ma un cammino». A questo ragazzo era successo il miracolo, è come se avesse potuto vedere la risposta alla domanda che Nicodemo ha fatto a Gesù: «È possibile nascere di nuovo essendo vecchio? E stupirsi come la prima volta davanti alle cose?». Il ragazzo dice: «Sì, mi è capitato, ma dopo un po’ comincia a decadere». E allora stupisce che, malgrado possa accadere questo a una certa età, con la coscienza che uno ha da adulto, la vita, che non fa sconti, ci mostra la nostra fragilità e, a un certo punto, le cose non ci stupiscono più, tutto è scontato. Quando questo prevale nel quotidiano è la noia, perché la realtà non ci dice più niente. Quindi, quello che ci proponiamo è un cammino! Perché a questo decadere si può rispondere solo aiutandoci a percorrere un cammino, in cui educarci a guardare la realtà senza darla per scontata. Per questo don Giussani definisce questo capitolo: «L’itinerario del senso religioso». “Itinerario”, perché la vita diventi vita costantemente! Perché non sia scontata! Perché non sia tutto piatto! Perché non sia tutto deludente. Uno che è stato in coma si può stupire di nuovo della realtà, o uno che è in ospedale si può stupire del tramonto o dell’alba, di cui prima forse non si era stupito così tanto, ma, quando la vita l’ha sfidato, i tramonti e le albe lo hanno fatto sobbalzare nel letto! E questa è una speranza qualsiasi sia la circostanza in cui ci troviamo, c’è sempre questa possibilità.

Noi affrontiamo questo capitolo per aiutarci a non abituarci a tutto. Perché, se il rapporto con la realtà costituisce il nostro «sostentamento» – come dice la Zambrano –, la vita si riempie di vita! Accade solo se questo rapporto con la realtà è talmente stupefacente da ridestarci dal nostro torpore abituale, dal nostro costante venir meno, facendoci tornare continuamente a quel primissimo sentimento che abbiamo davanti al reale: lo stupore. Perché? Perché ci imbattiamo in qualcosa che è “dato”, che ci stupisce, non lo diamo per scontato. Lo vediamo succedere quando, per qualsiasi circostanza, un giorno ci stupiamo di qualcosa che era lì ma prima non vedevamo: possiamo toccare con mano che cosa sarebbe la vita se potessimo educarci, secondo il desiderio che abbiamo, ad avere un rapporto con tutto il reale che sia talmente vero come il primo istante! Tutta la vita si riempie di questa pienezza, come il giorno in cui uno resta senza parole e stupito davanti al volto della persona amata, o davanti al Monte Bianco, o davanti all’alba da una stanza d’ospedale. Non è uno sforzo, è semplicemente un rapporto con il reale che occorre imparare! Per cui occorre fare un cammino, che è possibile a chi non vuole accontentarsi con meno di questo.

Quindi, che cosa occorre per lasciarsi colpire, come quando uno si trova davanti alla bellezza del Monte Bianco, e per non ridurre: «Ma vediamo tutti i giorni il Monte Bianco!»? Uno può stare in ospedale e vedere l’alba attraverso una finestra, o può rendersi conto dell’attenzione dell’infermiera che non è scontata, oppure vostro figlio si può rendere conto che la mamma gli ha portato il caffè e non è scontato. È questo che riempie la vita di pienezza, se noi ci educhiamo a vivere il rapporto con il reale, in ogni particolare, come non scontato. Questo come succede? Don Giussani, nel capitolo, racconta che un giorno, facendo lezione, domanda: «Ma che cos’è una evidenza?». E un ragazzo, riempiendolo di stupore, risponde: «È il riconoscimento di una presenza inesorabile, qualcosa in cui mi imbatto che è presente e mi stupisce!». Che sia il volto della persona amata, la realtà di uno spettacolo come il Monte Bianco, un’alba o un tramonto in ospedale. E Giussani, dopo aver fatto festa al ragazzo per la genialità della sua risposta, aggiunge:

«Noi quando apriamo gli occhi ogni volta vediamo l’evidenza della realtà, ma non ci stupiamo». Sembra ripetere quello che ha detto il ragazzo, ma aggiunge una parola: «Non solo il riconoscimento di una presenza inesorabile: “accorgersi” di una presenza inesorabile! Rendersi conto di questa presenza!». Per questo la differenza tra tutti coloro che stamattina nel mondo si sono svegliati è se si sono accorti o non si sono accorti. Se quello che è prevalso, appena svegli, è stato il sentire tutta l’incombenza delle cose da fare, senza neanche un istante di stupore, per cui poi l’intera giornata è determinata da questa pesantezza. Appena svegli! Senza neanche un istante di stupore, lo abbiamo già perso. Perché la presenza della realtà non desta in noi una registrazione a freddo che ci lascia indifferenti, senza neanche colpirci. È piena di un’attrattiva, è una «meraviglia gravida di un’attrattiva» che ci risveglia! Che ci rende veramente noi stessi! Questa è l’origine della religiosità. La religiosità ha origine in questo contraccolpo della realtà, che ci stupisce talmente da renderci consapevoli di qualcosa che è “dato” da qualcun altro.

Ma la genialità di don Giussani si vede quando ci mette davanti le “spie” per verificare se tutto questo per noi è un discorso, con una certa logica, ma che in fondo non ci tocca, non ci stupisce, oppure se stiamo veramente facendo l’esperienza di cui lui parla. A un certo punto del capitolo, dice: «Come so io che quello che stiamo facendo non è semplicemente descrivere la logica di quello che succede nel reale?». Come se uno che, possedendo la logica, pensasse che succeda meccanicamente. Giussani ci lascia tutte le “spie”: «Io so se sto vivendo questo percorso come un’esperienza, se il mio io è risvegliato dal torpore con cui si è alzato». Come quegli amici che stavano camminando distratti verso il Monte Bianco e, quando si sono trovati davanti a quello spettacolo, si sono risvegliati da tutto il torpore del dialogo, a volte vuoto, tra loro e sono rimasti di stucco davanti alla presenza del reale. Primo segno. Secondo segno: quando uno si trova davanti a qualcosa che non si aspettava, si sente risvegliato, avverte il cambiamento che succede in sé stesso. Perché, che cosa capita in noi? Ci invade una gratitudine, perché la vita, senza che facciamo niente, semplicemente accorgendoci di quello che vediamo, ci porta a un livello di intensità umana che nessuno sforzo nostro può darci. E questo – terzo segno – ci rende lieti. Immaginate vivere il quotidiano, che tante volte delude, che tante volte è piatto, che nella maggioranza dei giorni è arido, con questa possibilità! A noi interessa prendere sul serio questo per noi stessi e proporlo ai ragazzi, solo per una ragione: per la passione, per la stima della nostra vita! Dove siamo introdotti a vivere la realtà così? Dove siamo aiutati a rapportarci alla realtà così? Non è che la realtà non sia davanti a noi, ma nella stragrande maggioranza delle giornate non ci dice niente.

Invece, noi pensiamo che può essere una possibilità alla portata di tutti quelli che non si accontentano di perdere la vita vivendo, ma che tengono così tanto alla propria vita da non volerla perdere. Perché questo è il frutto – quarto segno di ciò che succede se uno fa un’esperienza – del prendere coscienza di sé: «Ma io, non sono mai stato così me stesso come adesso!». Quindi, quello che rende l’uomo uomo, sempre più cosciente di sé, è questo imbattersi nella realtà – non data per ovvia, per scontata – che riempie di stupore, perché riguarda la propria persona! Non è una registrazione a freddo. In che cosa si vede che sto facendo esperienza del reale? Se io sento dentro di me questo risveglio dal torpore in cui vivo, se sono grato e lieto e prendo coscienza veramente di me stesso. Se io – come abbiamo sentito nell’ultima canzone – vado a fondo di me stesso e mi rendo conto del mio “io” e mi chiedo: «Da dove scaturisco? Da dove nasce questo mio essere?». Come se vedessimo un fiotto che sta sorgendo in questo istante dalla sorgente. Se il fiotto prendesse coscienza di sé, penserebbe: «Io sono un fiotto che nasce da una sorgente». Oppure l’albero che prendesse consapevolezza delle sue radici. Se vado fino al fondo di me, non posso non riconoscere che io sono fatto da un Altro, che io sono “Tu-che-mi- fai”. Come abbiamo sentito nella canzone: «Quando mi accorgo che tu sei, rinasco come il tempo dal ricordo».

Quest’anno, nel fare questo percorso ai ragazzi dell’Università Cattolica, mi sono trovato davanti una coppia: la ragazza era una studentessa, lui era il fidanzato che lei aveva invitato a lezione. Avendoli davanti, ho cercato di immedesimarmi con loro, perché potessero capire meglio, in forza di quello che succedeva nel loro rapporto affettivo, quanto stavo cercando di spiegare. Quel ragazzo e quella ragazza potevano sentire: «Io sono “tu-che-mi-fai”», non come un “tu” che uno inventa, si immagina o si autoconvince che c’è. Entrambi potevano capire bene che l’esperienza di pienezza che stavano vivendo era possibile solo perché il “tu” dell’altro lo stava risvegliando. Forse conoscete tutti la canzone Vorrei di Guccini, che dice questo in un modo sintetico e spettacolare: «Perché non sono quando non ci sei». Il “tu” dell’altro è decisivo per essere me stesso. E questi due ragazzi, che erano lì ad ascoltare la lezione, non potevano pensare a un “tu” in astratto, no: quel “tu” era l’altro che avevano davanti! Io senza il “tu”, senza di te, non potrei fare l’esperienza di me come quella che sto facendo, con la pienezza, con la sovrabbondanza che mi trovo addosso! Qual è il segno che prevale questo “tu” che mi rende me stesso? Quando non c’è, «io resto solo coi pensieri miei», che è quello che ci capita nella stragrande maggioranza delle volte. E allora, se uno non si rende conto – perché questo lo dà già per scontato: che ci sei! –, immaginiamo che, nel tempo, si alzi al mattino, veda la moglie e la dia per scontata, e non si accorge più che «io non sono quando non ci sei»: che cosa gli dovrà capitare perché quello che ha percepito nel passato possa capitare di nuovo? Solo se, attraversando tutte le distrazioni, si rende conto che non è scontato. Ho fatto spesso questo esempio, per aiutarci a capire: quante volte può capitare alle persone sposate che, per un litigio, per una difficoltà, per un momento di buio tra loro, si trovano lì vicine, in casa, una accanto all’altro, ma sentendo l’altro distante mille miglia? Se a un tratto, quando siete così distanti, all’altro o all’altra viene un infarto, che cosa fai? Voli! Ti risveglia dal tuo torpore: per il fatto che puoi perdere la persona amata, che dai per scontata, ti risvegli! E chiami subito l’ambulanza, ti agiti per non perderla.

Per questo dico: amici, o l’infarto o l’educazione. Dobbiamo aspettare l’infarto per risvegliarci dal sonno o possiamo educarci a vedere l’altro con questo sguardo? Se uno va al fondo di sé, questo “tu” che lo genera è quello che può riempire la vita della sua presenza, perché «non sono quando non ci sei». Ma per poterlo dire uno deve accorgersi che l’altro lo sta generando ora a questa esperienza del vivere. Quando spiegavo questo ai miei studenti, all’inizio del mio insegnamento, una volta un ragazzo, mentre eravamo in fila al self-service della mensa della scuola, mi dice: «Ma lei, prof, è sicuro di quello che dice su questo “tu”, su Dio? [come se dicessi una cosa che lo turbava]. Questo è reale?». Io gli ho risposto: «Sì, perché io parto dalla realtà, non da Dio. E la realtà è palese anche per te! Ma tu la dai per scontata».

Il punto di partenza, dunque, è sempre la realtà, perché la realtà provoca la ragione, la mette in moto: è lo spettacolo di un bambino che, quando si trova davanti un giocattolo, non può non risvegliarsi in lui il desiderio di cogliere tutti i fattori per poterlo usare. Per questo, uno non può vivere la realtà dandola per scontata, senza riconoscere il “Tu” che la fa, che sta facendo me ora. È la coscienza di un uomo adulto, che non dà per scontate le cose, che riconosce, si accorge di Chi ci sta facendo ora. Immaginate se uno si svegliasse ogni mattina con questa consapevolezza, si godrebbe la vita come si gode la presenza amata! La preghiera non è tanto quello che abbiamo in testa noi, ma è riconoscere questa presenza che è il frutto di un cammino di coscienza della realtà e di sé, che porta a riconoscere l’Altro – con la maiuscola – che mi fa ora. Come una voce, la voce è l’eco di una vibrazione intima; come la polla sorgiva che prendesse consapevolezza della sorgente o il fiore che si rendesse cosciente della radice. Guardate che questo – dice Giussani – è ciò che pone il punto di appoggio dell’equilibrio ultimo della vita. Perché, quando manca, siamo soli con i pensieri nostri, prevalgono le preoccupazioni.

Il Tu reale

Come fate a sapere se questo “Tu” per voi è reale? È reale se prevale su tutti i pensieri! Se prevale sulle preoccupazioni! Altrimenti siamo condannati a vivere invasi dalle preoccupazioni e non c’è pace. Tutti sappiamo cosa vuol dire, perché non qualsiasi cosa ci tira fuori da questa situazione. Ma quando uno vive con questa consapevolezza succede come al bambino che entra in una stanza buia e si spaventa: la reazione è normale, ma se la mamma lo prende per mano ed entra con lui nella stanza, il bambino può affrontare qualsiasi buio. Se uno si rende conto di questa presenza che è all’origine di sé, non è mai solo, ha vinto la solitudine per sempre. Allora può entrare in qualsiasi buio dell’esistenza, nell’ospedale o nel momento di solitudine, con la tranquillità profonda di un bambino preso per mano dalla mamma, con la possibilità che ogni cosa possa essere riempita di questa letizia! «Non c’è sistema curativo che possa raggiungere questo, se non mutilando qualcosa dell’umano». Ciascuno può decidere se gli interessa.

Arrivati a questo punto, Giussani affronta la questione decisiva: «Qual è la formula dell’itinerario al senso ultimo della realtà? [Al senso del gusto ultimo del vivere?] Vivere il reale!». Non è che dobbiamo fare chissà quale artificio mentale: è imbattersi nel reale, lasciarsi provocare da esso e assecondare la dinamica che mette in motto senza bloccarla! Vivere il reale nella sua intensità, nella sua profondità, senza rimanere sulla soglia dandolo per scontato. Perché, se non mi accorgo dell’altro come “dato”, come dono, non scontato, l’altro non mi dice niente, mi abituo. Quindi, che cosa rende un uomo veramente religioso? Non devoto, non pio, ma uomo! Che cosa rende un uomo uomo?! Con una capacità di pienezza di sé che nessuno si può sognare? Solo se vive intensamente il reale. Può essere nella stanza di un ospedale o davanti al Monte Bianco, ed è davanti a quella presenza che riempie la vita di pienezza. Chi resta sulla soglia, soffoca. Quindi, quando io soffoco, è perché sono rimasto sulla soglia. Soffoco e l’altro mi stufa; persino con la persona che mi ha stupito al punto da sposarlo o sposarla, se mi abituo, tutto diventa piatto e mi soffoca. Ciascuno è davanti a questa possibilità. Se questo itinerario lo percepiamo adeguato al desiderio di vita che abbiamo, possiamo veramente accompagnarci, e quindi accompagnare i ragazzi che stanno cercando di vivere la vita, a introdursi così. E possiamo introdurli solo se abbiamo fatto noi esperienza di questo itinerario.

Quella presenza che rende la vita vita

Mi ha stupito leggere, quest’estate, qualche riga di uno dei più grandi teologi del secolo scorso, Hans Urs Von Balthasar, che dice: «Pensiamo che la vita vive da sé, è scontata. Nessuno ascolta, neppure un secondo, il pulsare del suo cuore. Né vede le ore e ore che esso gli dona». Lo spettacolo di Allevi è che ha percepito il “dono” del vivere e questo ha cambiato il suo stare in ospedale! Come può cambiare il nostro vivere nel reale: essere in ufficio, quasi come in una stanza di ospedale, dove uno soffoca, o essere l’occasione di vivere con quel respiro. Perché, se tu fossi pienamente consapevole di che cosa sei, «vivresti unicamente di questo dono che sta costantemente arrivando a te. Cerchi una prova che è così? Sei tu la prova, che un Altro ti sta facendo ora! Non dobbiamo cercarla altrove. Siamo noi la prova di Uno che ci sta amando fino al punto di darci la vita ora: «Ti ho amato di un amore eterno, e ho avuto pietà del tuo niente» dandoti la vita! Per questo non riusciremo a vivere con questa intensità, a sopportare noi stessi, se non ci educhiamo alla possibilità, non di vivere fuori dal reale, ma di vivere il reale nella sua verità! Senza fermarci all’apparenza, senza rimanere sulla soglia, ma riconoscendo fino all’origine il “tu”, quella presenza che rende la vita vita. E questo è un lavoro da fare. Perché, come vediamo, solo chi lo fa, solo chi accetta di percorrere questo itinerario e educarsi a questo sguardo, potrà godersi ogni istante con questa pienezza. Se no, dovrà accontentarsi della delusione. A ciascuno di noi, la risposta a questa sfida. Grazie.

 

  • Intervento presso la Fondazione San Miguel Arcángel, Calcio, 29 agosto 2024

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