Non ti manco?
L’altro giorno parlavo con alcuni amici di una cosa che mi succede spesso: dopo aver vissuto un bell’incontro, una vacanza, una cena, anche solo dopo qualche ora, a volte giorni e persino settimane, c’è un momento in cui mi ritrovo piena di solitudine, sento di nuovo una tristezza finale. Spesso è in sottofondo. A partire da questo dolore ti pongo una domanda: innanzitutto, mi interessa sapere se anche tu lo sperimenti; se, nonostante la vita che fai, sperimenti questa solitudine ultima e come la vivi. Mi chiedo anche se sia possibile raggiungere un momento nella vita in cui si possa sperimentare una pienezza che ci strappi definitivamente da questa solitudine, anche quando fossimo fisicamente soli, o in qualsiasi circostanza della vita.
Julián Carrón: Sì, anch’io vivo questa solitudine e questa tristezza, ma la questione fondamentale è come ognuno di noi percepisce questa solitudine e questa tristezza. Quando vi ascolto, capisco che per voi queste esperienze sono una disgrazia e un dolore; per me, invece, sono un’opportunità per riconoscere qual è la mia grandezza, qual è la natura del mio io, del desiderio che mi costituisce fino al nucleo del mio io. Ecco perché, questa tristezza e questa solitudine sono per me l’espressione più profonda del mio io, sono ciò che mi fa capire che la tristezza è il segno di un bene assente, e la solitudine può diventare il riconoscimento di una Presenza originaria. Per noi, il più delle volte, queste parole sono incomprensibili o astratte, mentre questa esperienza profonda della nostra persona è il segno più grande di come il Mistero ci ha fatti. Ci ha resi così grandi, così desiderosi di qualcosa di infinito che, come dice Leopardi: “tutto è troppo poco e troppo piccolo per la capacità dell’anima”. Ed per questo che manca sempre qualcosa. Questa mancanza, questo desiderio inappagato è segno che siamo fatti male, o è segno di ciò per cui il Mistero ci ha fatti?
Perciò, quando mi manca, o quando sento questa tristezza o questa solitudine, è come se il Mistero, dal di dentro, dalle viscere dell’esperienza, mi chiedesse: «Ma non ti manco io?». Uso spesso l’esempio della nostalgia. La nostalgia appare per molti come una disgrazia, ma chi desidererebbe un amore senza sentire la nostalgia di ritornare continuamente ad esso? Un amore del genere sarebbe una contraddizione, perché significherebbe che qualcosa di cui avere nostalgia non ci sia capitato. Questa esperienza dimostra quanto ciò che ci è accaduto sia radicalmente diverso da qualsiasi altra cosa.
Se non capiamo le cose più elementari della vita, non riusciremo a capire noi stessi. Alla fine sogneremo sempre un tipo di esperienza umana in cui qualcosa ci possa bastare, in cui qualcosa possa cancellare questa nostalgia. Non riusciremo a capire noi stessi, perché le cose più radicalmente umane sono in gioco a questo livello. Ma, soprattutto, non potremo mai capire Cristo. Perché Cristo si offre come risposta a questa tristezza e solitudine. Osservate come guardaGesù a questa tristezza e a questa solitudine, che differenza di sguardo: «Beati quelli che hanno fame e sete [di questa pienezza], perché solo loro saranno saziati» (Mt 5,6). Gesù chiama queste persone “beate”, felici, perché solo chi ha fame e sete potrà scoprire chi è Cristo.
Altrimenti, possiamo scambiare Cristo con una qualsiasi delle immagini che ci facciamo della vita, e allora rimarremo delusi. Cristo entra nella vita, entra nella storia per rispondere a questa fame e a questa sete. La fame è l’esperienza umana da cui Gesù parte per aprire costantemente l’attesa di Lui. Ecco perché Gesù non si accontenta di dare loro il pane naturale per soddisfare la loro fame. Sa che questo pane non basta: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6,53). Questo è un cammino che egli offre e che ognuno di noi può percorrere. A questo proposito, mi commuove sempre il pensiero di Pietro. Aveva incontrato Gesù, ne era rimasto affascinato al punto di lasciare le sue reti per seguirlo e, a un certo punto del suo rapporto con lui, gli chiede: «Vedi, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?» (Mt 19, 27).
Sono stupito della domanda stessa, perché, se Pietro che vive quotidianamente con Gesù, non capisce nella sua esperienza che vivere con Lui è la novità della vita, ciò che l’ha riempito di pienezza, cos’altro può convincerlo? Per questo Gesù gli ripete: «Chi mi segue riceverà il centuplo e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19, 29). La vita eterna inizia già qui, e il suo segno è il centuplo. Quando le cose si fanno difficili, dopo la moltiplicazione dei pani e il fatto che tutti abbandonano Gesù perché alza il livello della sfida («Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui», Gv 6, 56), Gesù non risparmia ai Dodici la domanda: «Volete andarvene anche voi?». È a questo punto che vediamo il cammino che Pietro ha intrapreso. Passa dalla domanda: «Cosa riceveremo in cambio se ti seguiamo?», alla risposta immediata: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6, 68). Pietro ha dovuto compiere un cammino per scoprire che la risposta alla sua domanda è contenuta nel suo vivere con Lui. Se non capiamo questo, dovremo aspettare come Pietro per riconoscere nell’esperienza se la promessa di Gesù (chi lo segue avrà il centuplo e la vita eterna) si realizza, si verifica nella nostra vita, come ha fatto Pietro. Solo chi avrà l’audacia di seguirlo potrà verificarlo.
Quindi, sì, credo che sia possibile vivere questa pienezza. Ma è una pienezza diversa da quella che immaginiamo. Di solito la pensiamo come qualcosa di fisico, cioè, come riempire il bicchiere finché non entri più acqua. Invece no, è una pienezza come quella della nostalgia della persona amata. Con la persona amata, questa sete di ritrovarla e riconoscerla si rinnova sempre. Se ci fosse un momento in cui bastasse completamente e non sentissi più il desiderio di quella persona, sarebbe come cancellare il desiderio, che è proprio il motivo per cui si sente la nostalgia quando si prova solitudine o tristezza. L’immagine che abbiamo della pienezza è che Cristo sia venuto a cancellare la nostalgia, la tristezza e la solitudine. Non ci rendiamo conto che è venuto per esaltarle perché, quando Lui manca, la nostalgia, la tristezza e la solitudine sono la più grande risorsa per tornare a Lui. Come il figliol prodigo: si allontana, e a un certo punto sente la nostalgia del padre. Capire queste cose nella propria esperienza è la chiave per capire chi siamo e chi è Cristo.
In questi giorni sto vivendo una vita nauseata. Sono stanca di me stessa, degli altri e le cose che devo fare mi annoiano. Da qualche giorno, la domanda sul perché valga la pena vivere, sul perché i giorni passino, è emersa in me con grande forza. Volevo trovare una risposta che risolvesse il problema e chiudesse la questione. Ma la vedo riemergere di nuovo. Fingere che non ci sia mi stride, mi impedisce di essere me stessa di fronte alle circostanze. Ma ho provato a formulare delle ipotesi e nessuna mi sembra sufficiente per rispondere.
Julián Carrón: E cosa ti fa scoprire di te stessa e della realtà? Perché se vi bastasse qualsiasi cosa, Cristo avrebbe sprecato il suo tempo e voi potreste risolvere il problema della vostra vita con qualsiasi immagine di realizzazione abbiate. Ecco perché prima vi dicevo che si può usare questo per chiedersi: ma, chi sono io? Qual è il mistero del nostro essere che desidera così tanto – come diceva Leopardi – che niente può veramente appagarlo? Chi sono io? Perché, in fondo, vorremmo che ci avesse fatto un po’ meno desiderosi, con una necessità un po’ meno grande, per manipolare la nostra urgenza in modo tale da ridurla a quello che riusciamo a raggiungere. Questoa me non interessa, perché il cammino che ho fatto è stato proprio quello di rendermi conto della natura del mio io. Il Mistero ci ha fatto… Sant’Agostino dice: «Ci hai fatto Signore per te e il nostro cuore sarà inquieto finché non riposerà in te». Se avete un’altra ipotesi, verificatela! Verificate tutte le immagini che avete, come il figliol prodigo, verificatele! Non state qui a lamentarvi. Verificate, fate tutto quello che vi viene in mente, perché Cristo non ha paura di nessun avversario. Ci ha fatti di una tale grandezza… anche se noi ci lamentiamo e pensiamo che sarebbe meglio essere come cani che si accontentano di essere cani. Cosa sarebbe costato a Dio creare un altro cane, un altro uccello? Un altro pesce che si accontentasse della sua natura ridotta a ciò che è? Non gli sarebbe costato nulla! Ma ha voluto creare un essere che potesse partecipare alla sua stessa pienezza. Ecco perché il cristianesimo è solo per gli audaci. Per coloro che non rinunciano a tutte le esigenze che vedono vibrare in se stessi. A me non interessa niente, meno di questo. Non mi interessa perché, anche se decidessi di accontentarmi, non sarebbe sufficiente per me, e mi sorprenderei alla ricerca di qualcos’altro. Ognuno di noi deve verificare cosa succede nella vita ogni volta che ha cercato la pienezza altrove. Allora uno, riconoscendo nella propria esperienza la grandezza del proprio desiderio, la grandezza della propria umanità, utilizza ogni circostanza per tornare a Lui. Se non sentissi questo, come potrei sentire il desiderio di tornare a Lui? È come il bambino. Se il bambino non sentisse tutto il desiderio della madre, non tornerebbe da lei. D’altra parte, il bambino non si blocca: può piangere, sentire la solitudine, la tristezza, e cosa fa? Non ci pensa un attimo: torna, torna, torna da sua madre. L’unica domanda è se vogliamo essere figli, figli che tornano dal loro Padre.
Mi stupisce che persino Gesù sia sorpreso dal metodo di Dio. Dice il Vangelo: «Ti rendo lode, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai semplici» (Mt 11,25). Perché per i sapienti, per i dotti, questo metodo di Dio è troppo semplice per essere creduto. Solo i semplici lo capiscono. Che tutto possa consistere nella relazione con un Altro più grande di noi, non lo capiscono i sapienti, ma i semplici. Il metodo di Dio è troppo semplice per i sapienti. E Gesù continua: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e coloro ai quali il Figlio vuole rivelarlo» (Mt 11,27). Tutta la vita di Gesù come uomo, come figlio, è stata quella di vivere questa relazione. Egli dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi consolerò» (Mt 11,28).
Dove ha trovato Gesù questa consolazione, questa tenerezza con se stesso? Nella relazione con il Padre. Se non capiamo questo, non capiamo la vita. Gesù si è fatto carne per mostrarci cosa significa vivere come uomini e donne nella storia. Nella sua umanità ha mostrato come, vivendo tutto ciò che è umano come noi, si sia servito di tutto: i gigli del campo, gli uccelli, ogni capello del capo, perché tutto gli parlava del Padre. Come dice Guardini: «Nell’esperienza di un grande amore, tutto diventa avvenimento». Ogni dettaglio della persona amata è un dono. Questo è il modo in cui viveva Gesù. Questa è la proposta di vita che ci ha testimoniato. Ciascuno di noi può vedere se, quando Lo abbiamo lasciato entrare, il nostro cuore si è commosso, se abbiamo avuto l’esperienza di gratitudine, di pienezza, di risveglio dal letargo in cui viviamo, e se abbiamo potuto dire: chi è questo, chi è questo, che persino il vento e le onde gli obbediscono? Chi è questo che risveglia tutto il mio essere? Perché solo uno come Lui fa vibrare tutta la persona. «Parla con autorità e non come gli scribi» (Mc 1,22). Questo è il modo con cui Gesù, avvicinandosi alla nostra umanità, ha posto davanti a noi una possibilità di vita e, come si vede, il fatto che ce la metta davanti non risolve il dramma.
La mette davanti a noi e ora ognuno deve rispondere: stare con il dramma davanti a questa Presenza, rispondendo attraverso tutto ciò che ci accade, ogni solitudine che sentiamo, ogni tristezza che percepiamo, ogni inadeguatezza o noia che abbiamo. Posso usare tutto questo come occasione di relazione con Lui. Se tutto ciò che vedo non mi parla di Lui, ognuno vedrà che esperienza fa delle cose. Ma questo dipende dalla libertà di ciascuno. Il fatto che Egli l’abbia messo sotto gli occhi di tutti noi, non significa che ci risparmi il dramma, lo introduce continuamente. Noi vogliamo una vita tranquilla e Gesù non è venuto a portare la pace, la calma, ma la guerra, il risveglio costante della persona. Ecco perché, diceva Giussani: “Spero che non siate mai tranquilli”. È come Sant’Agostino: vi auguro di vivere sempre con questa inquietudine. Se volete una vita più tranquilla, forse siete nel posto sbagliato e dovete cercare un altro posto dove la sua Presenza non risvegli il dramma.
Nella mia storia ho visto come nei momenti di bisogno, di precarietà esistenziale e materiale, il Signore mi ha sempre sostenuto in modo misterioso e molto creativo. Da quando, quasi tre anni fa, sono venuto a vivere a Madrid con mia moglie, l’evidenza di questo centuplo è stata ancora più travolgente. Molti di voi qui ne siete stati testimoni e protagonisti. In Venezuela abbiamo sperimentato molta vulnerabilità; ho pianto davanti a un tavolo senza avere nulla da mangiare. Ora la vita è più stabile, i bisogni materiali di base sono coperti e ci concediamo anche qualche lusso. Abbiamo grandi amici, abbiamo compagnia, abbiamo una bambina bella e sana. Tuttavia, quando penso alle elezioni in Venezuela, mi assale la paura. Al pensiero di dire di nuovo sì a un altro figlio, mi assale l’incertezza sui soldi e sul lavoro. Al pensiero di rinnovare i nostri documenti di residenza e che qualcosa potrebbe andare storto obbligandoci a tornare in Venezuela, sono sopraffatto dalla paura. Mi sento fragile quando qualcosa minaccia questo senso di sicurezza. Penso sempre: quante volte ho bisogno di vederLo ancora affiché Egli determini tutti i miei tentativi? Come posso non perdere di vista il fatto che tutto ciò che sono, e quindi tutto ciò che ho, mi è stato dato?
Voglio sentirmi sempre più libero da tutte queste cose. So che ci saranno e che sono inevitabili, ma non voglio che mi pesino e mi determinino così tanto.
Julián Carrón: E se fosse questo il cammino che il Signore ti sta facendo percorrere per arrivare a ciò che chiedi? La risposta alla tua domanda può venire solo dall’esperienza. L’hai già visto nella tua vita: hai dovuto cambiare paese, stravolgere tutto per renderti conto di questo. Il problema è che noi, dimenticando questo, possiamo tornare al punto di partenza nonostante l’esperienza che abbiamo già fatto, riponendo la nostra sicurezza in certe cose che – vedete – sono per natura insicure. Tu non puoi cambiare la situazione del tuo Paese, non puoi cambiare nulla! D’altra parte, nessuno può strapparti dalle viscere l’esperienza che stai facendo. E non sei arrivato a questa consapevolezza pensando nella tua testa, ragionando, ma nella tua esperienza. Il Signore ci educa nella storia, attraverso la storia, altrimenti non impareremmo. Se già facciamo tanta fatica, nonostante tutto quello che vediamo, a sottomettere la ragione all’esperienza… Come i discepoli, che hanno visto tutto vivendo con Gesù e si chiedono: “Cosa riceveremo in cambio?” Non ci rendiamo conto che l’unica vera compagnia che non ci può essere strappata è Lui? È l’unica cosa che ti darà la consistenza per guardare te stesso, tua moglie, tua figlia, per aprirti alla possibilità della vita. Se tutti nella storia, in 2000 anni di storia cristiana, avessero aspettato le condizioni ottimali per avere un figlio, non saremmo qui. Pensate a certi momenti della storia, come le guerre, in cui tutto è stato stravolto: cos’è che ha reso possibile la disponibilità ad avere un figlio? Viviamo infinitamente meglio oggi rispetto ai tempi precedenti, o a quelli in cui sono vissute le nostre famiglie, ma siamo determinati dalla paura o dall’insicurezza.
Attraverso queste cose, il Signore ci educa. È come se ci dicesse: «Non ti rendi conto che la tua sicurezza, che quello che cerchi ti può essere dato solo da una relazione con Me?». Mi stupisce sempre San Paolo, a cui non è stata risparmiata nessuna difficoltà: le persecuzioni, la fame, la sete, le percosse che gli sono state inflitte. Tutto questo gli ha permesso di raggiungere la certezza che voi desiderate: «Sono convinto che né la morte, né la vita, né gli angeli, né il presente, né il futuro, né alcuna creatura potrà separarmi dall’amore di Cristo» (Rm 8,38). Ma questo non avviene pensando a noi stessi come chiusi nella nostra stanza, ma cresce – come per San Paolo – attraverso tutto. Il Mistero non ti risparmia queste cose, nessuna tempesta, perché tu possa vedere Cristo emergere in tutta la sua potenza e lasciarti a bocca aperta come i discepoli. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4 35). Rimangono tutti senza parole all’apparire di Gesù che calma il mare e le onde. «Ma chi è costui, che anche i venti e il mare gli obbediscono?» (Mt 8 27) In questo senso, perché sono grato che non mi sia stato risparmiato nulla? Perché se non avessi dovuto affrontare, come voi, tante sfide che il Mistero non ci ha risparmiato, non avrei potuto vederlo emergere davanti ai miei occhi in tutta la sua potenza. Se quel giorno Gesù fosse arrivato sul lago e avesse detto ai venti e al mare: «Non fate casino, non disturbatemi oggi, che sto pescando con i miei amici», avrebbe risparmiato ai suoi discepoli la tempesta. Ma tu avresti preferito che ti venissero risparmiate le difficoltà, o avresti preferito vedere emergere tutta la sua potenza che superava le onde e il mare per sapere di chi ti stavi fidando? Grazie al cielo il Mistero non ci ascolta in questo! Altrimenti, gli impediremmo di mostrare chi è.
Tornando al figliol prodigo, lo vedo dal punto di vista del padre. Il figlio fa una richiestaassurda e il padre ama totalmente la libertà del figlio e lo lascia andare. Mi sembra che questa sia una cosa bellissima. Ma se mi metto nella prospettiva del padre nelle situazioni che vivo, e vedo tutta la sofferenza che il padre ha vissuto per la richiesta del figlio, mi chiedo: come posso amare la libertà dell’altro e non censurare la mia sofferenza, il mio bisogno di giustizia, di senso? Sento, perché l’ho visto nell’esperienza, che con una persona che amo è diverso, ma mi trovo a volerlo anche con chi non amo.
Julián Carrón: La domanda è come possiamo capire il cammino dell’altro. La domanda è se noi facciamo il nostro cammino vedendo come il Mistero ama la nostra libertà e preferisce – come il padre nella parabola – dare l’eredità al figlio perché non vuole schiavi in casa sua, ma figli. Il padre gli dà tutto anche se sa che non è un suo diritto, ma non vuole imporglielo. Se glielo imponesse, il figlio potrebbe rimanere a casa, ma vi rimarrebbe arrabbiato, come il figlio maggiore. Il padre ama sia la verità che la libertà del figlio, perché sa che solo se il figlio scopre ciò che lo soddisfa attraverso la sua libertà, potrà davvero convincersi che il padre non vuole sottometterlo, non vuole uno schiavo. Solo chi fa questa esperienza può capire e amare la libertà dell’altro e dare tempo all’altro di farla propria. Altrimenti, è come se trattassimo l’altro pensando «so già cosa è bene per te», «so già chi sei». No, l’altro è un mistero. Non sappiamo quando e in quale momento potrà scoprire ciò che è giusto per lui, né tutto ciò che deve scoprire per poter rispondere alle sue richieste. Se non diamo tempo all’altro, e non ci diamo il tempo nella relazione con l’altro perché possa scoprirlo, in fondo vorremmo imporglielo. Come dice Giussani, anche se dessimo all’altro la risposta, non sarebbe sufficiente.
Ho un amico sacerdote a cui, a un certo punto, pur avendo trovato degli amici che lo avevano affascinato nel vivere il suo sacerdozio, è venuto in mente che la sua vocazione fosse la vita monastica. Nonostante tutti i segni che aveva davanti, nonostante il fatto che fino a quel momento nient’altro gli avesse dato più certezza, più entusiasmo, più voglia di vivere la sua vocazione che il rapporto con le persone che aveva incontrato, è andato dietro all’immagine della sua vita ed è andato in un monastero. È stato lì per dieci anni. Dieci anni dopo è tornato. Era chiaro fin dall’inizio cosa gli era successo, ma gli sono voluti dieci anni per verificare l’immagine che si era fatto di sé invece di assecondare ciò che aveva vissuto. Il Mistero non gli ha tolto la libertà, lo ha lasciato andare come il figliol prodigo: verificalo! Dieci anni, capite, dieci anni per verificare l’immagine del compimento! Nemmeno l’evidenza dell’inizio gli aveva permesso di riconoscerla. Il Mistero ha una tale tenerezza per noi che ci dice: vuoi verificarlo? Verificalo! Dieci anni! È impressionante che anche l’anticipazione della risposta non sia convincente finché non viene verificata. Ecco perché, o ci si fida dei segni che il Mistero ci dà, o si seguono le proprie immagini.
Il Mistero non ha problemi perché sa che dentro di noi c’è un detector che, se usato, avverte che non tutto corrisponde. Ecco perché non ha problemi a lasciarci liberi. Ed è per questo che noi dobbiamo lasciare libero l’altro. Dobbiamo amare la sua libertà come la ama Cristo. Come dice Péguy: «Ho dato tutto per essere amato da uomini liberi. Per essere amato da uomini liberi ho sacrificato tutto» (Ch. Péguy, Il mistero dei Santi Innocenti). Non vuole schiavi. Non vuole persone sottomesse. Vuole uomini liberi che abbiano le giuste ragioni per riconoscerlo.
Mi ha colpito uno scritto di De Gasperi che ho commentato in un incontro a cui sono stato invitato da un amico. In una delle sue lettere alla moglie, De Gasperi le dice (negli anni Venti!): «Io ti voglio libera compagna, amica di pari iniziativa e indipendenza. E nulla mi ripugna di più che il farti da maestro e di frugare nella tua coscienza» (A. Polito, Il costruttore. Le cinque lezioni di De Gasperi ai politici, 2024). Che amore per la libertà della moglie! Che modo di entrare in punta di piedi, di stare lì, sulla soglia del mistero della moglie, con questo senso di mistero e di sacrosanto rispetto, come se “si togliesse i sandali” davanti al mistero dell’altro!
Chi non vorrebbe questo? Ma quale amore per il destino dell’altro deve avere ognuno per poter guardare così sua moglie, suo marito, i suoi amici, suo padre, chiunque esso sia, con questo senso del mistero dell’altro! Perciò, con la consapevolezza di non essere in grado di penetrare in tutte le profondità di questo mistero, che posso solo essere lì, in attesa che il mistero dell’altro si sveli e che lui possa fare il suo cammino per scoprire ciò che lo compie. Senza questo, creiamo solo gruppi di sapienti che pensano di sapere cosa è meglio per l’altro e sostituiamo il mistero dell’altro con il progetto che abbiamo su di lui. C’è sempre qualche persona intelligente che vuole dirvi cosa siete. Ciascuno veda cosa gli conviene.
Ieri mattina, dopo le lodi, abbiamo lavorato su una parte degli esercizi. A un certo punto mi è tornata alla mente una cosa che mi era successa tempo fa e che mi aveva provocato una grande ferita. Non riuscivo ad ascoltare nulla di quello che si diceva. Avevo tutta la volontà di ascoltare, ma la mia mente era piena di questa ferita, che mi offuscava le orecchie e il cuore. Ero consapevole che questa ferita in altre occasioni era stata una risorsa, ma ieri mattina mi bloccava completamente. Volevo ascoltare, volevo vivere, essere presente, ma mi rendevo conto che la ferita inghiottiva la realtà che avevo davanti agli occhi. Poi, in macchina, un amico mi ha chiesto cosa pensassi di quello che era stato detto. E io ho dovuto dire sinceramente che non avevo ascoltato nulla. Ho dovuto ammettere a me stesso che la ferita aveva prevalso. Io voglio vivere. La domanda che ti faccio è: cosa avresti fatto tu? Cosa fai tu quando ti succedono queste situazioni?
Julián Carrón: È molto interessante la tua domanda perché ci fa scoprire quante volte rimaniamo bloccati. Anche a me succede a volte, leggendo qualcosa che in un altro momento mi aveva colpito, o mi aveva fatto sentire tutta l’attrattiva, di rimanere determinato da una preoccupazione, da una ferita, ecc. Non dobbiamo spaventarci di questo. Succede, siamo umani. E quindi, nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Siamo umani anche in questa situazione che hai descritto. Ma non finisce tutto lì perché, quando ti riprendi da questo, cosa resta ancora in te anche nel momento in cui sei determinato dalla ferita? Non ti resta che impugnare la tua ragione e chiederti: è tutta qui la mia vita? Tutto è determinato da questa ferita? Questa è la verità ultima di me? Questa è la verità ultima della realtà? Sono condannato a vivere sottomesso a questa ferita, oppure esiste qualcos’altro, come ho visto in altri momenti? Esiste un’altra Presenza? Se non utilizziamo tutte queste cose come risorsa per tornare a fare un uso pieno della ragione e sfidare la modalità razionalista con cui tante volte ci lasciamo rinchiudere senza poter respirare, ci indeboliamo sempre di più e finiamo per percepire la realtà dentro il nostro schema mentale. Questo fa parte della nostra educazione.
Se non avessi fatto questo, ogni volta che mi succedeva come capita a te, non sarei qui; mi sarei già congedato da voi da tempo. Ma non sarei me stesso se non avessi percorso il cammino che ogni momento della vita mi chiede di fare, proprio come te. Da un certo momento della mia vita non ho più potuto vivere senza giudicare: ma questa ferita è l’ultima parola sulla mia vita? Questo errore che ho commesso, questa circostanza che non mi è stata risparmiata è la verità ultima su di me? Se non approfittiamo di ogni sfida per imparare a usare la ragione secondo la sua natura, cioè apertura alla realtà secondo tutti i suoi fattori, soccombiamo al razionalismo insopportabile. Perché il problema non è se questo è vero, è che la riduzione con cui tante volte ci accontentiamo non è la verità!
È come se una persona fosse preoccupata di avere un tumore e avesse paura di affrontare gli esami necessari per scoprire se ce l’ha o no. O prende sul serio il suo dubbio per vedere se ce l’ha, oppure vive determinato dalla sua preoccupazione senza verificare se davvero ha il tumore. Non si può vivere senza giudicare, non si può vivere con la spada di Damocle per la paura di avere una diagnosi positiva. Cosa facciamo davanti a questo? Ci diamo consigli spirituali, facciamo gesti sentimentali, ci diamo pacche sulla spalla? Cosa facciamo? Solo una cosa è ragionevole fare: verificare se hai il tumore. E come lo sai? Fai tutte le analisi possibili e immaginabili per vedere se ce l’hai. Senza questi esami, non ci liberiamo dalla preoccupazione e, anche se è infondata, siamo determinati da essa. Come vi ho detto molte volte: “soffochiamo? Allora siamo razionalisti”. Ogni volta che accade qualcosa di simile possiamo non spaventarci, possiamo affrontare la questione e giudicarla: è vero che ho il tumore, oppure no? È vero che tutto quello che sono è la ferita che sento adesso? È vero che tutto quello che sono è la solitudine che sento adesso? È vero che tutto quello che sono è la tristezza che sento adesso?
Perché, in tutte queste cose, come dicevo a Nacho – e lui lo racconta sempre – posso dire: «Ti concedo tutti i fattori che vuoi, ma tu, in questo momento, non ti fai da solo. Non potresti sentire la solitudine, sentire la tristezza, sentire la ferita… se un Altro non ti stesse dando la vita ora». Pertanto, rimanere nella ferita, rimanere nella tristezza, rimanere nella solitudine significa dare per scontato che io non mi faccio da solo. La cosa più elementare di tutte – che noi non ci facciamo da soli, e quindi un Altro sta abbracciando la mia solitudine, un Altro sta abbracciando la mia ferita, un Altro sta abbracciando la mia tristezza – è la possibilità di educarci, in un mondo in cui tutto si riduce alla misura della nostra ragione. Non all’uso della ragione, ma a un uso della ragione come misura di tutto. Se io non sfido costantemente questo modo di usare la ragione, e non mi educo ad usarla secondo la sua vera natura di apertura alla realtà secondo tutti i fattori, divento sempre più debole e sostituisco il vero uso della ragione con gesti pii e devoti, che non fanno altro che aumentare ancora di più la debolezza.
L’alternativa è prendere il toro per le corna e usare la ragione. Cristo è venuto per educarci a usare la ragione, non vuole che lo seguiamo semplicemente per compassione verso di Lui o verso noi stessi. «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67) è la sfida di Gesù a Pietro affinché guardi alla sua esperienza e veda se è meglio andarsene o restare. La domanda di Gesù permette a Pietro di guardare alla sua storia: «Anche se non capisco questo, me ne vado oppure ho mille ragioni per restare?». Se, ogni volta che succede una cosa simile, sprechiamo l’occasione, ci indeboliamo sempre di più. Diventiamo cristiani devoti con la ragione lasciata nell’armadio. Un cristianesimo così non sarà mai all’altezza della nostra umanità e del nostro tempo, perché nessuno vuole vivere senza essere ragionevole, senza essere libero. Un cristianesimo così vincerebbe solo a costo di rinunciare all’umano, a ciò che è più umano, cioè all’esigenza della ragione, della libertà, dell’affetto. Non voglio sapere nulla di questo cristianesimo, non mi interessa! Mi interessa essere uomo con tutta la mia umanità, con tutta la mia esigenza umana di ragione, di scoprire se questa ferita è l’ultima parola su di me, se la paura di avere un tumore è fondata o meno. Volete vivere guardando dall’altra parte? Vedete un po’ se questo risolve il problema.
Volevo farti una domanda su una cosa su cui tu insisti sempre, e che ti ha detto don Giussani: la necessità di un lavoro stabile nella vita. Perché ti faccio questa domanda? Perché vedo che tu hai un modo di farlo che invidio. In me percepisco una distanza rispetto al cammino stabile che vedo fare a te, il mio (in cui molte volte la mia esperienza si inaridisce) perde la forza e la ricchezza iniziali. Lo vedo in due cose. La prima è che mi rapporto alle cose che ho intorno attraverso l’apparenza, ma non arrivo alla profondità della realtà, non arrivo a toccare il mistero, non arrivo a toccare quella Presenza che mi invita, che è vibrante, che mi provoca. Mi affatico. Il secondo aspetto è un dolore, perché vedendo tutto il percorso che abbiamo fatto in questi anni con te, ho il timore di sprecarlo.
Mi sento molto fortunata per il cammino fatto, mi sento come invitata a un grande banchetto che non meritavo, ma è come se stessi consumando male quel banchetto, senza apprezzare tutte le pietanze e tutto ciò che mi viene messo davanti, e non ne traggo tutto il beneficio.
Julián Carrón: riguardo all’apparenza, è quello che dicevamo prima. Fermarsi all’apparenza è sempre la grande tentazione. Il mondo in cui viviamo è un mondo in cui la maggior parte delle persone si ferma all’apparenza. Per questo sembra più normale che uno si fermi all’apparenza. Il problema è che noi siamo stati introdotti a un modo di vivere la realtà delle cose, in cui il nostro modo razionalista di vivere è stato messo in discussione. È il metodo indicato da Giussani: uccidiamo la nostra umanità e blocchiamo il vero uso della ragione se usiamo la ragione in modo razionalista e non per andare oltre l’apparenza. Perciò, non bisogna scoraggiarsi. Giussani diceva: quando ci si sveglia al mattino, cosa si desidera? Dobbiamo fare lo sforzo faticoso di attraversare tutto il groviglio di pensieri, desideri, preoccupazioni, tutto ciò che si accumula nella nostra testa appena ci svegliamo, per arrivare al fondo di tutto, a questo desiderio del suo ricordo, della sua memoria. Questa è la preghiera del mattino; tutto il resto è sentimentale, è devoto, ma non è pregare. Se leggete il capitolo 10 de Il senso religioso, alla fine del percorso che fa della ragione, dove davanti allo stupore e davanti alla vita arriva fino a riconoscere che “sono fatto da un Altro”,
Giussani dice: «Questa è la preghiera». Noi trasformiamo la preghiera in un’alternativa all’uso della ragione, non dico che tu lo faccia, ma possiamo correre questo rischio.
Ma la ragione è questo, questa è la preghiera del mattino: attraversare tutti i nostri pensieri, tutte le nostre ferite, tutte le nostre preoccupazioni, tutte le cose che pesano sulla nostra coscienza. Se uno non attraversa tutto questo, alla fine rimane impigliato nell’apparenza. Non bisogna scoraggiarsi! Semplicemente arriverà il momento in cui uno smette di perdere tempo perché non può più vivere senza usare la ragione in questo modo. Allora, ogni volta che succede, è come un banchetto. Io non voglio più perdermi questo uso della ragione per incontrarmi con Lui! È come quando ti viene il pensiero se ami o no tua moglie o tuo marito. Se non usi questo pensiero per andare al fondo – ma lo amo o non lo amo?! – e ogni volta che succede guardi dall’altra parte, non lo giudichi. Se non facciamo questo in ogni aspetto del vivere, allora sprechiamo il tempo. Come apprezzarlo sempre di più, come apprezzare sempre di più quello che ci è accaduto? Perché ogni volta che uno esercita il suo essere, la sua libertà, la sua ragione in questo modo, si incrementa la sua personalità. Altrimenti, diventiamo amebe, dipendenti dal pim-pum-pam delle circostanze, sempre più deboli, sempre più fragili. Qualche giorno fa, uno mi ha chiesto: come sappiamo se stiamo camminando? Lo vediamo se stiamo imparando. Ho un amico che lavora con Elon Musk e, dopo ogni progetto, chiede ai suoi colleghi: «Negli ultimi tre mesi, cosa avete imparato?». Si vede se si sta facendo un cammino quando ci si accorge che si è imparato qualcosa. Se vi chiedessi: «Voi, negli ultimi tre mesi, cosa avete imparato?». Rispondendo a questo possiamo capire se stiamo sprecando il tempo o no. Se passa il tempo senza che impariamo nulla, allora sì, stiamo sprecando il tempo. Invece, anche se ho ancora un percorso infinito da fare, se continuo a imparare, non lo sto sprecando, anche se mi rimangono ancora tantissime cose da capire. Meno male! Perché altrimenti la vita eterna sarebbe una noia infinita.
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