Si allena lo sguardo con fiducia

Oggi ho tenuto il mio primo seminario di Arte Medievale all’Università. L’ho chiamato, con un po’ di presunzione, “Guardare le immagini cristiane del Medioevo: figure e metodi”. Le lezioni, in programma il venerdì mattina, sono pensate come un esercizio davanti a diverse opere del Bode Museum: imparare insieme a guardare le immagini del Medioevo cristiano che hanno sempre funzionato come oggetti, all’interno di pratiche liturgiche, devozionali e sociali specifiche. Gli studenti hanno scelto il loro oggetto da una lista che ho fornito loro. Hanno anche avuto accesso a una bibliografia di base da cui partire per iniziare a guardarlo, interrogarlo e poi presentarlo davanti a tutti. Molti di loro vengono da fuori Europa o, pur essendo europei, non hanno più l’impronta della cultura cristiana e non sanno chi sono Gesù Cristo, la Vergine o i discepoli – tanto meno conoscono i racconti dell’Antico Testamento o le agiografie – e hanno difficoltà a riconoscere il contenuto delle immagini. Il successo delle quattro ore in museo ogni venerdì dipende dalla loro libertà di scelta: possono partecipare o meno, prendere sul serio o meno la presentazione, poiché questo esercizio non ha alcun peso nella valutazione finale.
Comincio presentando loro una delle mie opere preferite del Museo: il dittico in avorio con la consegna della Legge a Mosè e il dubbio di Tommaso, che risale all’incirca all’anno 1000. Comincio chiedendo loro di descrivere gli elementi, prima di lanciarsi nel tentativo di identificare il tema o il significato dell’opera. La scoperta del significato può iniziare solo con uno sguardo attento a tutti i dettagli scolpiti nell’avorio, senza tralasciare nessun elemento. Iniziamo a svelare insieme il senso ascendente della composizione, le iscrizioni, la stranezza che Mosè riceva la Legge all’interno di una struttura architettonica che ospita la roccia che rappresenta il Sinai, le colonne salomoniche, le dita di Tommaso che entrano nella ferita di Cristo per credere nella Resurrezione, i cherubini, il piedistallo architettonico, le tuniche stellate. “Le mani!” Improvvisamente, uno studente reagisce quando inizia a vedere qual è l’elemento essenziale delle due immagini: le mani. La mano di Dio, incorniciata dal nimbo cruciforme che anticipa l’Incarnazione nel Figlio, che consegna le Tavole a Mosè. Mosè, che le riceve con entrambe le mani come un tesoro. Cristo che scopre il suo costato per lasciarsi toccare da Tommaso. Tommaso che si arrampica per raggiungere Gesù, scostando la tunica con una mano e penetrando la sua ferita con l’altra. L’altra mano di Cristo, posizionata in modo forzato sulla sua testa: due mani di Dio aureolate. Tutto nelle immagini parla del tatto: alla Legge scritta da Dio con il dito e ricevuta da Mosè si contrappone la possibilità di toccare il corpo di Dio incarnato, glorioso dopo la resurrezione. Solo a partire dalla prima descrizione delle immagini e dalla constatazione delle mani, iniziamo a svelare un contenuto teologico denso e profondo che l’immagine stessa presenta nel suo essere immagine. La funzione liturgica delle placche d’avorio – probabilmente parte della copertina di un libro usato nel rito – è l’ultimo passo per capire il loro significato e uso nel Medioevo. Alla mia domanda su quale potesse essere la funzione di queste immagini, una studentessa tira fuori il “manuale” che tutti abbiamo imparato a scuola, grave zavorra storiografica di una comprensione inadeguata dei termini con cui Gregorio Magno difese le immagini: “per insegnare il contenuto della Bibbia a chi non sapeva leggere”. Faccio notare loro la loro stessa esperienza – sono quindici minuti che si spintonano per avvicinarsi alla vetrina e scrutare le lastre di 23,5×10 cm – affinché sia chiaro che queste immagini non erano destinate al grande pubblico né avevano una funzione pedagogica. Con questo esercizio iniziale, cerco di far capire agli studenti che bisogna conoscere i testi, ma soprattutto bisogna imparare a guardare e seguire i suggerimenti dell’immagine. In essa c’è tutto; essa contiene le domande essenziali per iniziare a conoscerla.

Senza fretta con il significato
Si susseguono le presentazioni dei primi cinque studenti. Uno di loro ci presenta un sarcofago proveniente da Roma, risalente al 330/40 circa. È un sarcofago piccolo e l’iscrizione latina, ci dice lo studente, parla del bambino di tredici mesi sepolto al suo interno e del desiderio dei suoi genitori che raggiunga la vita eterna. Sulla parte frontale si susseguono diverse immagini dell’Antico e del Nuovo Testamento. Lo studente inizia a descriverle: l’adorazione dei Magi, un’immagine dell’anima del bambino in preghiera, Noè che costruisce l’arca e… una scena che non riesce a identificare. Gli chiedo dove vede esattamente la scena della costruzione dell’Arca, poiché Noè appare all’interno dell’arca-scatola che galleggia sulle acque e riceve già la colomba che annuncia la fine del diluvio. Cerca di descrivermi elementi che non sono nell’immagine. Gli chiedo di indicarli. Tornando a ciò che c’è nell’immagine, si rende conto che rappresenta un altro episodio. Con la misteriosa immagine adiacente che non riusciva a identificare – il miracolo della roccia di Horeb – si ripete la stessa dinamica. Gli studenti non si fidano del proprio sguardo: cercano di arrivare rapidamente a delle conclusioni per risolvere il mistero di ciò che è rappresentato, per indovinare “chi è chi”. Non è evidente la pazienza di affidarsi a ciò che è oggetto dello sguardo; o meglio, c’è una difficoltà a fidarsi del proprio sguardo. Descrivono una figura maschile in piedi – Mosè – e altre due piccole teste, una sopra l’altra, accanto a lui. Dico loro che manca un elemento da descrivere senza ancora anticiparlo: il torrente d’acqua che prende la forma, all’estremità del sarcofago, di alcune ondulazioni verticali. Le due teste si avvicinano per bere. Silenzio assoluto, nessuno lo descrive. Hanno paura di dire che vedono delle strane linee curve. Penseranno che sia un difetto del materiale o un elemento ornamentale sul bordo del marmo. Dopo un po’, timidamente, una studentessa osa dire che c’è “qualcosa” che le ricorda l’acqua. Mi rendo conto che ci vuole coraggio per dire quello che si vede – come ne L’abito nuovo dell’imperatore –, lealtà con lo sguardo, onestà con se stessi, assenza di paura di formulare un’ipotesi.
Cosa ci permette di non voler correre a chiudere il significato dell’immagine del sarcofago e di fare l’esercizio di fermarci davanti ad essa? Che paura ci fa, in fondo, non azzeccare quello che vediamo? Perché questa sfiducia verso il proprio sguardo? Cerco di insistere sul fatto che non si può mai sbagliare nel dire quello che si vede e si riesce a percepire. Solo così inizieremo a capire cosa è rappresentato e come è rappresentato – forse in un modo a cui non siamo abituati – abituandoci poco a poco a un linguaggio visivo specifico. Questo “allenamento” dello sguardo può partire solo da una totale fiducia nella capacità dello studente di guardare: la vista funziona ed è fatta per vedere, la ragione è fatta per abbracciare tutti i fattori della realtà. Forse basta che ci sia qualcuno che abbia la pazienza di lasciare che questa evidenza emerga, poco a poco, per gli studenti.
L’ultima presentazione arriva con i fuochi d’artificio. La studentessa ha capito il metodo: descrive le immagini di due tavole d’avorio con le rispettive Annunciazioni – una risalente all’anno 1000 circa e l’altra all’inizio del XII secolo – e ci pone le domande che si è posta su ciascuna di esse. Ci mostra il suo sconcerto, ad esempio, di fronte all’Annunciazione dell’anno 1000: cosa ci fa Gabriele senza ali? Cosa ci fa Maria senza aureola? Perché la scena si svolge all’aperto e perché c’è quell’albero rigoglioso tra i due personaggi? Come possiamo sapere che si tratta dell’Annunciazione attraverso questi elementi narrativi? La confronta con la targa eboraria dell’inizio del XII secolo: l’irruzione dello Spirito Santo – e la testa di Cristo a forma di mensola – nell’edificio che ospita Maria, immagine del suo grembo abitato dal Verbo sin dalla risposta all’angelo. L’architettura su cui poggia la Vergine, come regina dal trono, la rende il templum Dei. L’angelo porta con sé qualcosa del Paradiso, calpestando un pavimento vegetale che contrasta con l’architettura del trono di Maria.

Due immagini: economia di mezzi in una, barocchismo nell’altra; entrambe ricche di figurazione. Mi sorprende l’audacia della studentessa: non ha paura di dire che la prima cosa che le è venuta in mente vedendo la prima immagine è il peccato originale. Una figura maschile e una femminile che affiancano un albero evocano inevitabilmente l’immagine del peccato di Adamo ed Eva. Il tronco contorto dell’albero le ricorda il serpente. Recuperiamo la verità di questa prima intuizione dall’inno mariano medievale che contrappone la mancanza di Eva al sì della Vergine, espresso nel binomio Eva-Ave. Maria riapre il Paradiso chiuso da Eva. Se Cristo occupa nell’Annunciazione del XII secolo il posto che corrisponderebbe alla colonna centrale, tra i due archi, in questa è presente attraverso l’albero della vita. Per caso, queste due targhe condividono la vetrina con quelle della consegna della legge e del dubbio di Tommaso che abbiamo analizzato all’inizio della sessione. Solo così ci rendiamo conto che il tronco contorto dell’albero fa eco anche alle colonne salomoniche della targa di Mosè, alludendo in questo modo al tempio di Gerusalemme. Un albero architettonico, in fin dei conti.

La pazienza del maestro
La studentessa menziona anche la profezia di Isaia sul rampollo di Iesse per capire la presenza dell’albero: «Ma un germoglio (virga) spunterà dal tronco di Iesse, e dalla sua radice fiorirà un rampollo. Su di lui si poserà lo spirito del Signore» (Is 11, 1-2) – e commentiamo l’identificazione della «virga» del tronco di Iesse con la «virgo» Maria. Se ogni immagine dell’Annunciazione è un’immagine dell’Incarnazione del Verbo, come si fa a rendere plastico il Verbo nell’immagine?, mi chiedo con loro. La domanda mi fa notare, solo allora, un dettaglio che mi era sfuggito: un nuovo ramo sta spuntando a metà del tronco dell’albero, all’altezza del seno di Maria. La profezia che si avvera, la vita che inizia nel momento dell’Annunciazione? Mi entusiasmo per questa intuizione e ringrazio la studentessa: mi ha fatto vedere di più. Spesso, uno sguardo attento e appassionato sulla realtà ti viene restituito dagli stessi studenti. Ore dopo, guardando di nuovo la targa eboraria, mi rendo conto che un’altra donna e un altro uomo, la Vergine e San Giovanni, si incontreranno sotto la croce di Cristo, che l’esegesi identifica come lignum vitae e, addirittura, con il legno dello stesso albero dell’Eden. Il ramo a metà del tronco potrebbe quindi non solo alludere alla nascita del figlio di Iesse, ma anche alla sua futura morte: una ferita inflitta all’albero, eco della ferita al costato di Cristo da cui nasce la Chiesa quando da essa sgorgano sangue e acqua. Peccato originale, Tempio di Gerusalemme, adempimento della profezia di Isaia e futura crocifissione: tutto è presente in questa immagine che fa dell’albero la figura di Cristo.
Esco dal museo piena del desiderio di avere sempre un maestro che abbia la pazienza di fermarsi con me davanti alle cose, che mi prenda per mano nel punto in cui mi trovo e faccia emergere, poco a poco, la capacità di guardare e di stupirmi che è propria di me.
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