Il cammino al senso religioso è un’esperienza
Ma questo sarebbe contro il metodo imposto proprio da don Giussani, perché don Giussani ha detto ai ragazzi fin dalla prima ora di religione: «Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò». Questa è l’impostazione, cioè il metodo che lui ci propone: l’esperienza. Immaginate che cosa significherebbe per ragazzi di sedici anni il fatto che un professore desse loro il metodo per giudicare perfino quello che lui stesso dirà! Nessuno fa questo. Che esaltazione dell’umano e che certezza che quello che lui dirà sarà vero! Potranno riconoscerlo loro. Ma lo riconosceranno soltanto se useranno questo metodo, perché questo metodo non è “un” metodo tra gli altri, ma è “il” metodo, perché l’esperienza, come dice don Giussani, è l’emergere della realtà alla coscienza dell’uomo, è il divenire trasparente della realtà. Per esempio, se dobbiamo capire che cos’è l’amore, il Signore non ci fa una lezione sull’amore, ci fa nascere in una famiglia o ci fa innamorare. Per farci capire che cos’è il risveglio dell’io, si fa carne, si fa incontrare, come abbiamo sentito oggi, perché altrimenti non avremmo saputo di che cosa stiamo parlando.
Per questo noi dobbiamo essere “feroci” – e vi giuro che io lo sarò – su questo metodo, perché altrimenti di venire qui a sentire i pensieri degli uni o degli altri o miei non ci interessa niente; ci interessa che ognuno che interviene racconti un’esperienza. Per questo, per poter fare un’esperienza occorre – come vedremo bene – un criterio che è il cuore, e quanto più sarà cosciente di queste esigenze ed evidenze originali, tanto più saprà giudicare, e questo giudicare sarà l’inizio di una liberazione, di una novità nella vita, perché cominceremo a capire (…)
La promessa è la letizia
Incominciamo questo nostro percorso. Vorrei riprendere il testo “Buon cammino”, che avete visto tutti sul sito, il saluto che don Giussani aveva mandato anni fa, nel 1998, al Clu della Cattolica che incominciava il lavoro su Il senso religioso: «Io non voglio costringere alla persuasione nessuno, ma non voglio che si rinneghi quel che dico da nessuno che non abbia almeno letto le ragioni che io dico». E poi ci dà osservazioni di metodo decisive per il nostro percorso, osservazioni che dobbiamo avere sempre presente lungo tutta la strada. «Non si capisce se non verificando le idee e i valori nella propria singolare esperienza». Cioè: non si capisce riflettendo, ma verificando idee e valori nella propria singolare esperienza; altrimenti parliamo per sentito dire, l’ideologia dilaga, e questo non ci farà capire, anche se ripetiamo cose giuste. «Questa esperienza può consistere anche nello shock o nel particolare sentimento che si sorprende in se stessi, o nella storia di un popolo o del mondo. L’esperienza dice cose che dimostrano la sua verità [per questo senza esperienza la verità non si mostra, non si dimostra, perché la realtà si fa trasparente nell’esperienza, la verità si rende palese nell’esperienza]. Per me è l’esperienza [ancora: è la quarta volta che usa la parola esperienza] che insegna tutto il valore di idee e di cose permanendo nel tempo sia persuasivamente sia dubitativamente». Perciò tutta la preoccupazione di don Giussani quando un gruppo del Clu incomincia a fare questo lavoro è sottolineare una cosa: l’esperienza. Perché? Perché è l’esperienza che dimostra la verità delle cose. La realtà si fa trasparente nell’esperienza. Per questo è decisivo come metodo. Siccome questo è il punto centrale del primo capitolo, non possiamo non ritornarci costantemente: «In questa occasione che mi avete data Vi auguro una sincerità [una volta che uno fa l’esperienza, la questione è questa sincerità, cioè sottomettere la ragione all’esperienza, quel che uno pensava prima all’esperienza che ha fatto, altrimenti non impara niente], una franchezza in tutto e un amore alla verità anche condiviso. La mia vita ha conosciuto la letizia [questa è la promessa che ci interessa!] a queste condizioni». La promessa è la letizia, la gioia della vita. Perciò, se insistiamo con le nostre disquisizioni, oltre che perdere tempo perdiamo la letizia.
L’urgenza di giudicare
Giussani dice proprio che soltanto quando uno non giudica è preoccupato, ed è quando giudica che allora è liberato. La questione è che noi tante volte siamo agitati, siamo sempre sulle sabbie mobili, perché se uno non arriva a giudicare, se non diventa familiare il giudicare, siamo sempre confusi. Oppure – e questa è la seconda tentazione – siamo sempre in attesa che qualcuno, fuori dall’esperienza, ci confermi o ci dica quello che non abbiamo ritrovato come conferma nell’esperienza. Così non possiamo crescere come adulti, perché sempre diventiamo bisognosi di qualche supplemento di certezza che non troviamo nell’esperienza! Giovanni e Andrea non hanno avuto bisogno di chiedere a qualcun altro al di fuori dell’esperienza di dare loro il supplemento di certezza che non avevano. La certezza è dentro l’esperienza del giudizio, per questo è un giudizio a liberarci. Amici, se noi questo percorso non lo facciamo, saremo sempre nel “forse”, nella palude. E così è difficile costruire la vita. Invece devono essere pietre di una costruzione, anche quando sbagliamo; perché quando uno sbaglia, se uno lo riconosce, se dà il giudizio, anche questo è un passo alla verità: non è questo che corrisponde, ma c’è un’altra cosa che corrisponde. Non tutte le volte “becchiamo” la risposta giusta, non importa; decisivo per me è stato che, quando io ho incominciato a fare questo lavoro, tutto quello che mi capitava, anche quando sbagliavo, era un cammino al vero: il cammino al vero è un’esperienza. Quante volte è capitato che imparando matematica uno sbaglio è diventato decisivo per non dimenticare più una cosa? Questo è stato una parte del cammino alla certezza sulla matematica, perché abbiamo imparato qualcosa per sempre. Il problema è che quando io giudico e mi rendo conto, anche quando sbaglio faccio un passo. Per questo è impossibile che, se viviamo da uomini, ciascuno di noi oggi non porti qui quindici esperienze di questo… Vuol dire che c’è ancora tanto lavoro da fare. Tante volte la difficoltà che abbiamo nel giudizio è la stessa: noi il giudizio lo pensiamo come qualcosa di aggiunto, di appiccicato al reale (e allora dire che occorre giudicare è qualcosa per gente che si complica la vita). E se uno esce di qui con questa convinzione di fondo, anche se impara “che cos’è” il giudizio, non gli serve a niente. Ma se voi avete un amico o una persona cara o la mamma che ha certi segni di una malattia grave e sta cominciando a fare gli accertamenti per verificare che cosa ha, vi urge il giudizio o no? O pensate che questa è una cosa appiccicata? Che l’importante è andare avanti e che si può passare sopra al giudizio? Quando la vita urge il giudizio è un bisogno, è un’urgenza: ho bisogno di sapere se la mamma ha il tumore o no! Giudicare è un bisogno! Se non capiamo questo, se non lo percepiamo nell’esperienza, anche se studiamo benissimo tutti i passaggi del primo capitolo, rimarrà sempre come qualcosa per qualcuno che si complica le cose, e non lo sentiremo di certo necessario per una liberazione. Questo lo possiamo fare rispetto alle grandi questioni come alle piccole preoccupazioni: quante volte, durante questi quindici giorni, avete sentito l’urgenza di giudicarle? Tante volte le sopportiamo, sono lì che incombono su di noi rendendo la vita pesante, e non le guardiamo in faccia, non le giudichiamo, e perciò non sperimentiamo mai la liberazione. E possiamo aver riletto tutto il capitolo de Il senso religioso, ma se non succede questo, noi il capitolo non l’abbiamo imparato. Per esempio, tanti sono preoccupati che andiamo troppo in fretta; può essere vero, ma mi interessa che, a proposito di questo, ci rendiamo conto di un errore: non è che ripeterci per più tempo le definizioni giuste ci faccia di per sé arrivare a usare la ragione in un modo più vero. Infatti tanti di noi il concetto vero di ragione lo sanno; sono sicuro che se domandassi: «Ma che cos’è la ragione secondo don Giussani?», tutti mi direste: «Coscienza della realtà secondo tutti i fattori». Vero? Tutti. Ma uno con il concetto vero di ragione può continuare a essere un razionalista, cioè a usare la ragione secondo una misura! Questo è il problema. E per questo nella presentazione avevamo detto che è la contemporaneità di Cristo che consente alla ragione tutta la sua apertura, permettendo di raggiungere un’intelligenza della realtà prima sconosciuta: ogni circostanza, ogni cosa, anche la più banale, è esaltata, capiamo tutta la sua portata. Ma chi ci consente di usare la ragione così? Il rileggere più accanitamente Il senso religioso? È uno studio più approfondito quello che ci fa fare automaticamente esperienza delle parole del don Gius?
Non è un ripetere un concetto di ragione, è vedere accadere questo concetto di ragione di cui don Giussani dopo ci dà la definizione. Ma la definizione del concetto di ragione don Giussani da dove la tira fuori? E noi da dove la possiamo tirare fuori? La possiamo tirare fuori dal riconoscimento dell’esperienza che facciamo. E allora uno capisce il contenuto del testo e quando lo legge dice: «Ah! È questo». Tutto quanto ci ha detto Giussani è che noi non siamo in grado di ridestarci il senso religioso, di ridestarci la ragione, di ridestarci l’esigenza del nostro io e tutta la nostra libertà; e che per questo occorre Cristo, ché soltanto Lui ridesta il senso religioso, lo educa e lo salva. Per questo l’educazione al senso religioso sta succedendo costantemente nel modo in cui noi viviamo la vita; la questione è se noi siamo attenti a quello che accade, e allora possiamo incominciare a capire che cosa è quello che dice Giussani; e possiamo ritornare al testo, rileggerlo, e allora ogni parola acquista una carnalità. Non è diverso il metodo da quello che abbiamo detto rispetto alla Bibbia, citando Sant’Agostino: «Nei nostri occhi i fatti, nelle nostre mani i codici». Il lavoro che vi propongo e che propone Giussani è questo; se ci dice che noi non siamo in grado di ridestare tutto il senso religioso, ce lo dice per la consapevolezza che ha e che gli ha consentito di scrivere Il senso religioso: perché gli è accaduto qualcosa che gli ha fatto capire. Allora: nei nostri occhi i fatti. E con i fatti negli occhi possiamo andare a rileggere il testo, e allora lo capiamo – e smetteremo di dire che il testo è complicato, perché è complicato solo per chi travolge il metodo –. Che succeda una cosa che ti spalanca tutto e ti lascia senza parole, questo non solo è difficile: è impossibile. Ma quando accade è facilissimo, anche se non lo possiamo generare noi. E allora uno capisce che il vero concetto di ragione è la ragione che si apre e che capisce che ha tutti i fattori come mai prima. Come quando uno si innamora; non è l’analisi di tutto (i capelli piuttosto che la faccia, piuttosto che l’altezza), ma è la capacità di cogliere il reale in tutti i fattori cosicché mai come in quel momento hai colto, hai capito che cosa hai davanti, mai come in quel momento la ragione è diventata ragione. Mai come in quel momento la ragione compie la sua natura di ragione: coscienza della realtà secondo tutti i fattori. È questa esaltazione che l’esperienza religiosa, cristiana, rende possibile.; (…)E questo come possiamo acquistarlo sempre più? Che cosa lo rende possibile? Lo rende possibile questo ridestarsi continuo della ragione per un avvenimento che ci educa costantemente a usarla così, fin quando diventi sempre più mia, più nostra. E allora quanto più uno sente questo, più ritorna al libro con questo negli occhi, con questa urgenza di capire di più. Perché, allora, leggiamo Il senso religioso? Perché è lì dove si descrive che cosa è la ragione, che cosa è la ragionevolezza, che cosa è la certezza; e lì possiamo fare il paragone. Ma noi possiamo riconoscere non in modo intellettualistico la portata di quello che leggiamo, proprio perché succede. Allora la questione non è soltanto darci più tempo, ma è vivere con questa intensità perché è lì dove noi impariamo, non nelle definizioni che tutti sapremmo ripetere quasi perfettamente. Non si diventa meno razionalisti perché facciamo la critica della ragione (come dimostra Kant). Chi ci libera dal razionalismo? Chi ci educa a vivere la ragione secondo tutti i fattori, a conoscere il reale? Questo è quello che Giussani ci diceva: «Guardate che questo succede per un incontro, per un rapporto», non per un accanimento o soltanto leggendo in continuazione il libro; così come noi leggendo soltanto i Vangeli non saremmo arrivati a capire tutto quanto. Perché? Perché soltanto se vediamo i fatti nel presente, possiamo leggerli in tutta la loro profondità. Secondo me questo è decisivo per il cammino che stiamo facendo, altrimenti perdiamo ciò su cui tanto ha insistito Giussani: che il punto di partenza è l’Avvenimento come metodo, e che questo Avvenimento (l’incontro con la contemporaneità di Cristo) potenzia l’evidenza elementare, potenzia l’uso della ragione, potenzia il senso del reale, potenzia la libertà, potenzia tutto. E questo è veramente decisivo perché altrimenti, un istante dopo il 26 gennaio, siamo già smarriti, aspettandoci la risposta solo da un maggior approfondimento intellettuale. No! Perché se non usiamo la ragione in maniera sana, non vuol dire che dobbiamo “imparare” meglio i contenuti del libro, ma che dobbiamo vivere con semplicità l’Avvenimento cristiano che ci consente di usare la ragione così come don Gius ci documenta.
* Testi estratti da appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 9 febbraio 2011, 23 febbraio 2011, 9 marzo 2011.
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