Vederlo vivo*
Una brama di compimento
Dio ci ha creati esseri liberi. Ciascuno è chiamato a scegliere quello che ritiene possa compiere la sua vita, che risponde a quella sete di pienezza che il nostro cuore non smette di bramare. Ci sono momenti in cui questa urgenza di pienezza è particolarmente sentita e ciascuno di noi è messo alla prova: quanto più sentiamo questa urgenza, tanto più ci sentiamo sfidati ad approfondire cosa corrisponde veramente alla nostra attesa, perché non qualsiasi scelta risponde alla totalità della nostra fame e sete. Ci rendiamo conto che questa questione non la possiamo scaricare su nessun altro, ciascuno di noi è chiamato per nome, nella propria irriducibilità a scegliere, a prendere posizione. Così emerge davanti ai nostri occhi che ciascuno di noi è unico, è rapporto diretto con il Mistero, con Dio. In momenti come questi possiamo sentire tutta la nostra solitudine che non è sentirci sentimentalmente da soli, ma percepire tutta la nostra dignità di essere “unici”.
Lo aveva riconosciuto Leopardi che vedeva in questa irriducibilità «il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana». Nessuno può sostituirsi a noi nella decisione più grande del vivere, ognuno di noi è chiamato a rispondere con tutta l’irriducibilità che costituisce la sua persona. La Bibbia, come abbiamo visto, identifica a volte questi momenti con il deserto, dove uno si sente spogliato di tutto e richiamato, senza altre distrazioni che oscurano il vero dramma, a riconoscere l’essenziale, quello di cui ha veramente bisogno per vivere, quello che realmente conta. Il profeta Osea lo dice in un modo bellissimo. Dio parla del popolo di Israele come della sua sposa: «Io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16).
Può essere anche la malattia una circostanza che ci rende consapevoli che siamo “unici”, come è accaduto a Giovanni Allevi a Sanremo tanto che ha gridato davanti a tutti: «Ogni individuo, ognuno di noi, ognuno di voi, è unico, irripetibile e a suo modo infinito». Sono momenti in cui ciascuno si percepisce chiamato alla verità di sé dall’intimo della propria esperienza, fino a domandarsi: «Ma, chi sono io realmente? Cos’è questa brama di compimento che urge dentro di me senza darmi pace? Cos’è questo anelito che spinge dentro di me senza sosta?». Quanto più ciascuno è consapevole della natura di questa bramosia, tanto più è messo alle strette, perché con un’urgenza così potente non si può scherzare, non ci sono giochi da fare; è una questione radicale perché la vita dipende da questa questione. È davanti a questa urgenza di compimento che l’uomo è chiamato a riconoscere che cosa sia quello che corrisponde, che cosa possa essere all’altezza.
Tutti abbiamo sempre davanti un elenco di possibilità, lo sappiamo bene, ne abbiamo fatto esperienza tante volte. E più ciascuno ha preso sul serio lo smisurato bisogno che si trova addosso, più si rende conto che non qualsiasi tentativo di risposta può soddisfare questo incalzare incessante del proprio desiderio. E ciascuno capisce sempre di più la portata del dramma del vivere. Nemmeno Gesù, nella sua umanità, ha potuto evitare di affrontare questo dramma. È di questo che ci parla il Vangelo: il racconto delle tentazioni di Gesù nel Vangelo di Marco è molto sobrio, asciutto, conciso rispetto alla versione di Matteo e di Luca. «Lo Spirito – dice – sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana». Marco non ci racconta il contenuto delle tentazioni, ma non ne abbiamo bisogno.
Eliot, il grande poeta americano, ha riassunto sinteticamente quali sono le tentazioni fondamentali che l’uomo trova nel «deserto e vuoto», «l’Usura, la Lussuria e il Potere» (T.S. Eliot, Cori da «La Rocca»). Ma Gesù, come vediamo, non ha paura delle tentazioni: è lo Spirito stesso che lo sospinge nel deserto, per lui questa è un’occasione, come tante altre avrà nella vita, per mostrare cosa realmente conta per lui, cioè il suo attaccamento al Padre. La sua coscienza di Figlio lo rende in grado di smascherare la menzogna di qualsiasi alternativa a questo suo rapporto con il Padre. Chi altro può fargli raggiungere la pienezza se non il rapporto con il Padre? Come esce Gesù da queste tentazioni? Lo si vede da come lo vediamo porsi dopo il momento della prova: «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”».
Lui esce dalla prova con un incremento tale della sua autocoscienza da dire a tutti: «Il tempo è compiuto», il male non ha vinto, Satana è stato sconfitto dall’attrattiva del Padre. Con la sua vittoria, Gesù inaugura il tempo del compimento: la libertà dell’uomo come compimento di sé è possibile già ora, nella storia. Quindi, noi non siamo costretti a vivere schiavi de «l’Usura, la Lussuria o il Potere», ma è possibile per noi raggiungere l’unica pienezza che rende liberi! Per questo «Il regno di Dio è vicino», è a portata di mano di chi vuole veramente essere libero, di chi vuole compiersi. Ma come si raggiunge questa libertà? Con il porsi davanti a tutti, Gesù ci rivolge un invito sconvolgente: «Convertitevi e credete nel Vangelo». Convertirsi non significa, come tante volte pensiamo, uno sforzo sovraumano raggiungibile solo per alcuni, ma è lasciarsi affascinare dalla sua presenza, lasciarla entrare in noi. Credere è riconoscere il Vangelo, la Buona Notizia che è la sua persona. Lui ci invita a verificare fino a che punto la verità che ci porta è unica, perché ci renderà liberi. «La verità vi farà liberi», dice San Giovanni (Gv 8,32). Sapete di aver trovato la verità, dall’esperienza di libertà che fate, perché la libertà non è soltanto la capacità di scelta, ma è il compimento del desiderio di soddisfazione che ognuno ha. Questo è il compimento dell’alleanza fatta con Noè, che è diventata realtà definitiva per ognuno di noi nel Battesimo. Così il Signore ci porta a capire quale sia lo scopo di questa nostra irriducibilità, della nostra grandezza, come dice Sant’Agostino: «Tu mostri in modo abbastanza evidente la grandezza che hai voluto attribuire alla creatura razionale; alla sua quiete beata non basta nulla che sia meno di Te e perciò nemmeno se stessa» (Agostino, Confessioni, Sei 1992, XIII, p. 453). Infatti, meno di Te, o Cristo, tutto è troppo poco per il nostro cuore. A ciascuno di noi la propria decisione.
Scarica il testo completo in PDF
Appello all’esperienza
Colpisce questo inizio del testo dell’Esodo: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto». Le parole con cui Dio si rivolge al suo popolo, possono essere capite solo perché si appellano all’esperienza fatta dal popolo stesso. Questo appello all’esperienza è decisivo per capire la portata di qualsiasi cosa noi ascoltiamo. Perciò Dio non stacca mai l’affermazione: «Io sono il Signore, tuo Dio» dall’evento in cui loro hanno fatto esperienza di questo nella storia: «ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto». Come suonerebbero vuote le parole di Dio senza questo legame inscindibile tra parole e gesti! Basta osservare cosa succede in noi quando ci sentiamo dire «ti voglio bene» e non vediamo confermate le parole dai fatti che documentano la loro verità.
Ci sembrano proprio vuote, inaffidabili, tali da rimanere increduli. Per evitare questo rischio, Dio inizia sempre il suo rapporto con l’uomo prendendo iniziativa con i fatti, come l’uscita dall’Egitto, perché le sue parole possano avere senso per chi le sente, perché siano totalmente cogenti, pregnanti per chi le ascolta da essere veramente affidabili. È questa la modalità con cui Lui si fa conoscere. Perciò, il gesto iniziale dell’uscita dall’Egitto è stato talmente rivelatore di Lui, da definire la natura del “Dio di Israele” come il «Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto». Dio non si può separare dal suo agire. Quando il bambino chiama «mamma», dice una parola che ha dentro tutta la storia del suo rapporto con lei.
Questa modalità di fare di Dio è decisiva non solo all’inizio, ma in ogni momento. Perciò l’inizio, questo fatto originale, questa iniziativa unica, non può diventare mai «passato». L’inizio è «la fonte da cui non ci si può mai scostare» (Balthasar) per capire. Questo è particolarmente rilevante per capire il senso dei comandamenti successivi. «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto» è l’antefatto del senso dei comandamenti. Solo avendo questo fatto presente negli occhi si potrà capire il loro senso, altrimenti diventeranno un elenco di cose da fare a cui spesso si riducono, diventando così incomprensibili e impraticabili.
Invece, chi vive invaso dalla commozione per la liberazione dall’Egitto, quale altra cosa più ragionevole può fare se non quella di assecondare il comandamento di Dio: «non avrai altri dèi di fronte a me»? Perché «la nostra libertà è inseparabile dall’essere stati liberati». (Balthasar). Quell’evento è l’origine continuo della libertà, di quella soddisfazione del desiderio di pienezza, che rende liberi da tutto il resto. È da lì che possono nascere la ragione e l’energia per osservare i comandamenti: «Non ti prostrerai davanti a loro [ad altri dei] e non li servirai […]. Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio […] Non ucciderai. Non commetterai adulterio. Non ruberai. Non desidererai la casa del tuo prossimo, né la moglie, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
Come possono essere vissuti questi precetti con la nostra debolezza? Solo perché Dio riempie la vita di una pienezza tale, fino alla commozione, che possiamo essere talmente liberi, pieni, da non aver bisogno di desiderare la casa, la moglie, i possessi degli altri fino a rubare o a commettere adulterio. Per ricordarci questa origine Dio usa uno strumento: il riposo sabbatico, che è il gesto inventato da Dio per educarci a tener sempre presente quell’evento, per vivere sempre quell’evento come qualcosa di presente.
Ma l’uomo non riesce a rimanere in questa posizione originaria, decade in continuazione, attaccandosi alle briciole, per colmare il vuoto che Dio non riempie più. Il Vangelo documenta quanto sia vero: «Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe, disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà”».
Il tempio, la casa di Dio, costruita con lo scopo sacrosanto di tenere presente questo evento, di onorare sempre la memoria di quel Dio che si è mostrato appassionato al suo popolo, decade ad essere un mercato, o ancora peggio, un “covo di ladri” come dice il profeta Geremia. Cos’è rimasto di quell’evento della liberazione? A causa di questo decadimento l’Antico Testamento, in tanti passi, documenta l’anelito che i profeti risollevavano costantemente di una purificazione del tempio, nei tempi messianici. Era un segno che sarebbero arrivati quei tempi. L’espulsione dei mercanti dal tempio è la realizzazione di quella purificazione anelata. Il gesto di Gesù ha come scopo di ripristinare il vero senso del tempio come luogo della memoria, del culto a Dio, che quell’evento non sia solo passato, ecco «Lo zelo per la tua casa» che divorerà Gesù.
Ma ancora non si capisce e il suo gesto suscita l’opposizione dei Giudei, che erano stati i primi a sperimentare l’iniziativa di Dio con il Suo popolo, confermando quanto loro si fossero già staccati dall’origine della loro storia. L’inizio era diventato talmente un passato da non capire l’iniziativa di Gesù. E per questo lo incalzano: «Come mai fai queste cose? Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Gesù risponde dando loro un segno che non comprendono: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Ma loro non potevano capire una risposta così sfidante, così al di dà della loro capacità di comprendere, come si evince dalla risposta: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». «Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù». Il vero tempio solo si svelerà con la resurrezione di Cristo. Questo fatto mostrerà qual è la vera realizzazione della purificazione del tempio, qual è il luogo in cui noi possiamo raggiungere veramente Dio. Non un tempio costruito da noi, ma quel tempio generato da Dio, cioè il corpo di Gesù. Solo questo nuovo tempio sarà in grado di far sì che l’inizio non diventi passato. Cristo risorto sarà sempre presente in mezzo a noi.
Ma in attesa di questa realizzazione compiuta, i segni nel presente provocavano la libertà di chi li vedeva e alcuni credevano: «Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome». Ma questa adesione era ritenuta da Gesù inaffidabile. Infatti, continua il Vangelo: «Gesù, non si fidava di loro perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli, infatti, conosceva quello che c’è nell’uomo».
Questo dramma che Gesù introduce nella storia, da provocare la ragione e la libertà dell’uomo, continuerà lungo la storia umana, come ci mostra San Paolo. Per alcuni questo modo di agire di Dio è uno scandalo, per altri una stoltezza. «Fratelli, i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, ma noi invece – dice San Paolo dopo l’evento dell’incontro con Cristo risorto – annunciamo Cristo crocefisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani». Solo «coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci», potranno capire che «Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio».
Solo chi è chiamato, chi ha avuto la grazia di partecipare dell’evento di Cristo ed è così audace nel verificare il metodo di Dio, potrà vedere nell’esperienza – come San Paolo – che Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio». E che «la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte degli uomini». Solo Cristo, carissimi fratelli, «potenza di Dio» è il compimento di quella liberazione iniziata in Egitto. Solo Lui è in grado di liberarci per sempre. È questa la liberazione a cui ciascuno di noi è chiamato.
L’umanità dei discepoli.
È consolante vedere l’umanità dei discepoli. Hanno paura come noi, sono turbati, hanno dubbi così che noi possiamo sentirci rappresentati e questo rende la loro testimonianza ancora più imponente. I Vangeli non hanno bisogno di nascondere niente dell’umanità dei discepoli, anzi, la mettono davanti a tutti così da diventare parte della rivelazione: la loro umanità contribuisce a rendere palese la natura propria della vittoria di Cristo. Gesù si stupisce del loro travaglio, soprattutto dopo che Lui era già apparso loro e loro Lo avevano riconosciuto: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ma, malgrado questo, chiede loro: «Perché – allora – siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?». Allo stesso tempo, li rassicura senza rimproveri: «“Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardatemi; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho”. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi».
Gesù li rassicura che chi hanno davanti agli occhi è proprio Lui, Colui che loro conoscono, con cui hanno condiviso tanto tempo insieme, Colui che hanno visto affrontare la passione e la morte in croce. Chi hanno davanti vivo è il loro amico, Colui che hanno deposto nel sepolcro. Il Risorto è proprio il Crocifisso: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!». Era proprio Lui che ora stava loro davanti. L’identità tra il Crocifisso e il Risorto è decisiva. Se fosse un altro, oppure un fantasma, tutto crollerebbe, ma «un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho! Toccatemi e guardate». E lo conferma mostrando loro «le mani e i piedi», la traccia palpabile che la crocifissione ha lasciato in Lui e che facilita il loro riconoscimento.
Alla paura, al turbamento, ai dubbi, Gesù risponde non con spiegazioni, incoraggiamenti o discorsi. Nessuno di questi tentativi sarebbe in grado di consolarli. La paura, il turbamento, i dubbi possono essere veramente sfidati solo da una presenza. Lo vediamo in noi: la paura non la vinciamo con i ragionamenti. La paura di un bambino può essere sconfitta solo dalla presenza della mamma, solo la sua presenza lo rasserena e lo pacifica. Nessun altro metodo poteva vincere la paura o il turbamento dei discepoli, i loro dubbi, se non la presenza viva di Gesù, di Colui che i discepoli avevano deposto nel sepolcro e che adesso hanno davanti.
La verità di quello che raccontano i testimoni si vede in modo ancora più imponente dalla gioia che invade i discepoli. Basti pensare a chi è nel lutto, tutto preso dalla perdita della persona amata: niente potrebbe sostituire la sua mancanza. Davanti a quella mancanza, qualsiasi parola, o qualsiasi iniziativa si prenda, risulta incapace di riempire il vuoto lasciato. Soltanto chi ha sentito il vuoto può capire che cosa cambierebbe il lutto in gioia: unicamente la presenza della persona amata ritrovata. Nessun’altra attività, ricordo o nostalgia potrebbe riempire il buco che abbiamo dentro di noi quando ci manca qualcuno veramente caro.
Per questo, sarebbe inspiegabile la gioia che invade i discepoli se Lui fosse solo un fantasma, o un altro uomo diverso da Colui che loro conoscevano e amavano. Nelle formule che il Vangelo usa per farci capire cosa loro stessero sperimentando si vede perfino nell’imbarazzo che hanno: «Poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore». È paradossale che sentivano la gioia prima ancora di credere, che erano pieni di stupore prima ancora di riconoscerlo! Noi lo possiamo capire bene: quante volte ci è capitato che prima ci stupiamo e solo dopo ci rendiamo conto di essere stupiti?! È qualcosa di imprevisto che accade che prima ci riempie di gioia e stupore e poi ce ne rendiamo conto. La migliore documentazione è la testimonianza dei discepoli di Emmaus: «Non ardeva il nostro cuore dentro di noi, mentre egli ci parlava per la via?» (Lc 24, 32). L’ardore del loro cuore aveva preceduto il riconoscimento di Gesù. Se ne sono resi conto solo quando Lo hanno riconosciuto.
Tutti questi dettagli, pur piccoli, mostrano l’affidabilità delle loro testimonianze, perfino prima che Lui li sorprenda ancora con un un’altra iniziativa: «“Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro». Tutto quanto è raccontato in queste testimonianze non sarebbe possibile se non fosse vero che le loro vite impaurite, turbate, piene di dubbi si sono imbattute nella presenza vivente di Colui a cui si erano legati nella convivenza, per anni, e che ora apre loro gli occhi per aiutarli a capire. «“Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture».
Lo spazio che i Vangeli danno al percorso fatto dagli apostoli per raggiungere la certezza della fede nel Risorto, perché possano diventare testimoni, trova la sua ragione d’essere nelle parole che San Paolo rivolge ai fedeli di Corinto, tra cui c’erano alcuni che negavano la risurrezione: «Se Cristo non è risorto – dice San Paolo – vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati». La fede cristiana, dunque, sta in piedi o crolla, è un’alternativa che dipende solo dalla storicità della Risurrezione.
Che portata ha questo per la nostra vita?
Anche noi come i discepoli ci troviamo spesso nella paura, turbati dalle nostre preoccupazioni, pieni di dubbi davanti alle sfide che la vita non ci risparmia. Davanti a queste situazioni ci assale la domanda: noi possiamo raggiungere la certezza dei discepoli che ha cambiato la loro paura in gioia, oppure siamo condannati a rimandare la certezza a un aldilà della storia perché non crediamo possibile – come loro – che possa capitare nella storia una certezza come quella che ci testimoniano i racconti della Pasqua? Tutti siamo consapevoli che senza certezza siamo sempre in affanno, determinati dalla paura di perdere qualcosa che amiamo, qualcosa di significativo, dalla paura del tempo cha passa, dalla mancanza di tenerezza verso noi stessi perché prevale la misura che ci angoscia. Quante cose ingombrano quotidianamente la nostra mente! Tutto questo determina una tale insicurezza esistenziale da portarci alla convinzione che la pace vera di cui parla Gesù, quella pace presente, profonda, che ci libera dalle preoccupazioni che ingombrano le nostre giornate, sia irraggiungibile, perché c’è sempre qualche ombra che domina, che ingombra l’animo. I racconti della resurrezione colpiscono perché testimoniano un’altra possibilità a portata di mano per le persone normali, come noi, della gente-gente, tanto da farcela desiderare. Solo una presenza viva, risorta, che ha vinto la morte, può essere in grado di farci raggiungere, per grazia, quello che a noi sembra un traguardo inarrivabile.
Cosa lo rende possibile? La Sua presenza viva. Qui. Ora. Come diceva il poeta francese Charles Péguy:
«Egli è qui. / È qui come il primo giorno. […] È la medesima storia, esattamente la stessa, eternamente la stessa, che è accaduta in quel tempo e in quel paese e che accade tutti i giorni in tutti i giorni di ogni eternità». (Da: Il mistero della carità di Giovanna D’Arco)
Solo la sua presenza vivente, accolta nella semplicità della fede, può rendere possibile a noi quello che vediamo nei discepoli, dando consistenza al nostro io così fragile e spesso in balìa di tutto, perché riempie la vita di gioia e di sicurezza.
Una iniziativa unica
«È impossibile che il sangue di tori e di capri elimini i peccati». Tutto il tentativo del colto antico non era in grado di raggiungere lo scopo, cioè di vincere la distanza che separava Dio dagli uomini. Allora il Signore prende una iniziativa tutta unica, singolare, chiede al Figlio se è disponibile a prendere un corpo. «Non hai gradito né olocausti, né vittima, né sacrifici. Un corpo invece mi hai preparato. […] Allora ho detto: “Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà”». Questa accettazione da parte del Figlio è l’origine dell’annuncio che viene fatto a Maria. Perché il Figlio possa prendere un corpo, ha bisogno di una donna. Per questo tutto il disegno su Maria è intimamente legato al disegno di Dio di avere un Figlio che vinca definitivamente la distanza che separa Dio dagli uomini. «Rallegrati, Maria: il Signore è con te», questo è l’annuncio che viene rivolto a questa promessa sposa. Tutta la predilezione, per realizzare il Suo disegno, accade in quella ragazza di 15-16 anni che viene investita da questa preferenza totale del Mistero. Da quel momento tutta la sua vita sarà determinata da questa promessa: «il Signore è con te», mai così vero! Per questo – «Non temere, perché hai trovata grazia preso Dio» – tutta la sua vita sarà determinata dall’avere «trovato grazia presso Dio». Che Dio si degni di guardare una persona è il segno più potente della Sua libertà, è il segno più grande della Sua preferenza per quella persona.
Da quel momento quella ragazza non dovrà fare altro che quello che dice: «Avvenga in me secondo la tua parola». “Accadere secondo la Sua parola” vuol dire per Maria che una volta che accoglie il Figlio, non avrà più niente da immaginare, non avrà nessun pensiero da seguire perché, l’unico che dovrà seguire è quel Figlio attraverso cui il Mistero fa evolvere le cose. E il Figlio non avrà altro da dire che vive della volontà del Padre: «Non ho fatto altro che compiere la volontà del Padre». Questo compiere la volontà del Padre da parte del Figlio, porterà quella madre a stare davanti al disegno di Dio su Suo figlio, in modo tale da consentire anche a lei di seguirLo. Questo legame sempre più stretto, che la porterà ad attraversare tutti i momenti della vita del Figlio, fino alla Sua morte e alla Sua risurrezione, la farà partecipare della vittoria di suo Figlio nell’Assunzione al Cielo. Tutto è semplice, basta solo una cosa, che è quello che dice Elisabetta a Maria: «Beata te che hai creduto, perché quello che ti ha detto il Signore, si avvererà».
Nulla di simile
Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati dall’inizio attratti da Gesù. Dal primo giorno erano stati così presi dallo stupore della sua presenza unica, da non poter evitare, come racconta il Vangelo, di andarlo a cercare il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, senza smettere mai. Ogni giorno diventavano sempre più incollati a quella persona che era comparsa nella loro vita all’improvviso. Erano colpiti dalla sua autorità, tutta diversa da quella degli scribi, che faceva vibrare la loro umanità con una intensità mai sperimentata prima. Stupiti dai suoi miracoli e dal suo sguardo, capace di abbracciare ognuno nel profondo, da rimanere a bocca aperta, da far esclamare loro: «Non abbiamo visto mai nulla di simile!» (Mc 2,12). Ma ancora non avevano visto cosa li aspettava, il meglio stava per venire. Quel giorno si erano alzati dal letto, come tutti gli altri giorni, con la voglia di andarlo a trovare, ma quel giorno Gesù gli aveva preparato una sorpresa unica, oltre qualsiasi immaginazione.
«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo, Giovanni». Tra tutti gli altri apostoli Gesù prese con sé loro tre, uno ad uno, chiamandoli per nome: Pietro, Giacomo, Giovanni. Gesù non ha paura di osare, scegliendone alcuni anche tra quelli già scelti. Non si fa problema di cosa penseranno gli altri, non si lascia determinare dal giudizio altrui. La sua libertà è unica. Chissà da dove scaturisce questa sua libertà unica! «Li condusse – continua il testo – su un alto monte in disparte, loro soli». Gesù li porta su un monte alto, lontano dal rumore della vita quotidiana, come quando uno sceglie il posto più adeguato a una comunicazione importante. La scelta del luogo premetteva qualche sorpresa fuori dall’ordinario. Nella loro tradizione, il monte era un luogo particolarmente significativo, basti pensare al monte Sinai. Erano luoghi scelti da Dio per comunicarsi, per svelare qualcosa di particolarmente rilevante, non è difficile immaginare che Pietro, Giacomo e Giovanni fossero già in subbuglio, camminando, al pensiero di che cosa avrebbe preparato il loro amico. Ma la loro immaginazione si vede superata dai fatti, quando Gesù «Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche».
San Matteo dice che: «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,2). Luca è l’unico ad aggiungere che tutto questo stava accadendo mentre Gesù pregava. Se già erano attratti da Gesù, dall’inizio, da non potersi slegare, adesso questa attrazione raggiunge limiti da brividi. «Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”». Noi lo sappiamo bene, quando ci succede una cosa così unica che ci prende totalmente, non vogliamo più che finisca.
In quel momento si svela nella loro esperienza che la vita era rimanere lì con Lui, non staccarsi più da Gesù. É dato a Pietro, Giacomo e Giovanni anche per noi, secondo il metodo di Dio, che lo dà a qualcuno perché attraverso di lui arrivi ad altri, e piano piano a tutti. Se Cristo non è una presenza ora, come fu per loro, una presenza presente che prende tutto di noi, la nostra vita non può essere conquistata, e siamo in balìa di tutto, come mine vaganti. Se Tu, o Cristo, non sei una presenza reale come fu per Pietro, Giacomo e Giovanni, il mio “io”, la mia persona non potrà raggiungere la pienezza che tu porti nel mondo. Nel culmine di questo avvenimento, ci viene offerta la chiave per capire quella eccezionalità che li aveva incollati dall’inizio, e che adesso diventa palese. «Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”». Gesù, nella trasfigurazione, ha voluto svelare a Pietro, Giacomo e Giovanni l’origine da cui scaturiva tutto quello che già avevano visto nella vita quotidiana e che li aveva riempiti di stupore. Adesso lo vedono in tutto il suo fulgore. «La trasfigurazione è un avvenimento di preghiera; diventa visibile ciò che accade nel dialogo di Gesù con il Padre: l’intima compenetrazione del suo essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il Padre, Gesù stesso è Luce da Luce. Ciò che Egli è nel suo intimo e ciò che Pietro aveva cercato di dire nella sua confessione – si rende percepibile in questo momento anche ai sensi: l’essere di Gesù nella luce di Dio, il suo proprio essere luce come Figlio». (J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, p. 357).
Suo Padre è la sorgente inesauribile della sua diversità, della novità che risplende davanti a loro. Il suo rapporto col Padre, il suo essere Figlio è quello che lo fa risplendere così, è quello che desta in Pietro, Giacomo e Giovanni il desiderio di restare con Lui. Ma ancora loro dovevano capire la cosa più importante, che questo momento della trasfigurazione annunciava il grande evento ancora da venire: «Improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti». Quell’evento era ridotto a un qualche momento della loro vita? Era solo per loro, che avevano avuto la fortuna di partecipare, e noi, poveracci, siamo esclusi? A questa domanda risponde San Paolo: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi, è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!». Noi abbiamo la fortuna di aver visto la continuazione di quel momento accaduto sul monte, perché la trasfigurazione annuncia qualcosa di definitivo, la morte e la risurrezione di Gesù. Infatti, Dio non ha risparmiato Suo figlio Gesù, risparmiò il figlio ad Abramo, ma non Suo Figlio Gesù, lo ha consegnato alla morte per noi.
Perché? Perché potessimo vedere fin dove arrivava la passione di Dio nel non risparmiare neanche il proprio figlio per noi. Allora, dalla risurrezione di Gesù in poi, non c’è soltanto una presenza passata: Lui è vivo e continua a essere presente attraverso coloro che Lui sceglie, coloro che hanno riconosciuto la voce dal Cielo, e ci invita ad ascoltarli. Possiamo intercettare i suoi testimoni, oggi come allora, dalla luce che risplende nei loro occhi, dal brillio degli occhi, che possiamo toccare con mano in chi segue e ascolta il Figlio. Per questo la Chiesa ci mette davanti questa scena del Vangelo, per invitarci ad assecondare il Figlio, perché così Lui possa ridestare in noi il desiderio di partecipare di questa vita tutta trasfigurata, seguendo i testimoni in cui risplende oggi.
La ricchezza della sua grazia
«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto». Quell’evento aveva talmente colpito il popolo di Israele da farlo rimanere “incollato” al suo Dio. Perfino Dio era rimasto impressionato, come ricorda mettendo in bocca a Geremia queste parole: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in terra non seminata» (Ger 2,2). Ma questo amore del popolo non ha retto alle vicissitudini della storia e il Signore domanda loro: «Quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri per allontanarsi da me e correre dietro al nulla, diventando loro stessi nullità?» (Ger 2,5). Loro non si ricordarono del Signore che li aveva fatti uscire dalla terra d’Egitto, loro «non si domandarono: “Dov’è il Signore che ci fece uscire dall’Egitto, e ci guidò nel deserto?”» (Ger 2,6). Anche quelli che avrebbero dovuto aiutarli:
«Neppure i sacerdoti si domandarono: “Dov’è il Signore?”. Gli esperti della legge non mi hanno conosciuto, i pastori si sono ribellati contro di me, i profeti hanno profetato in nome di Baal e hanno seguito idoli che non aiutano» (Ger 2,8). Con questo percorso fatto dal popolo di Israele possiamo capire il libro delle Croniche: «I capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono la loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme». Ma malgrado la loro infedeltà – «Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora». Questo è il nostro Dio, uno che si muove premurosamente e incessantemente per compassione di noi. Questa premura unica, senza sosta, aspetterebbe una risposta altrettanto premurosa da parte d’Israele. Era l’ultimo gesto di misericordia di Dio con loro, ma invece di ascoltarlo, continua il testo: «essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti», anche dell’ultimo inviato, il profeta Geremia, che parlava loro in nome del Signore, ma non lo hanno ascoltato. Che cosa poteva fare di più il Signore che già non era stato fatto? Continua il testo: «L’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine senza più rimedio» (2Cr 36,12-13). Ma l’ira del Signore non è da intendersi come un’azione punitiva di Dio contro il suo popolo, ce lo ricorda il profeta Osea: «Io non agirò più secondo la mia ira ardente, non distruggerò più Efraim, perché io sono Dio e non uomo» (Os 11,9).
Allora, che cosa fa Dio? Che cosa significa questa ira? Quando Dio ha esaurito le sue iniziative e resta soltanto la testardaggine del suo popolo, che cosa può fare? «Io continuo a essere il Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto. Ma il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito. E quindi, non mi resta altro che abbandonarlo alla durezza del suo cuore, perché seguano i loro capricci». È come il padre del figliol prodigo, davanti alla testardaggine del figlio, non lo punisce, lo lascia andare. Ma che altro poteva fare se non lasciarlo andare alla durezza del suo cuore perché facesse la verifica della sua scelta? Perché questa testardaggine ha delle conseguenze. Quando Israele, invece di affidarsi al Dio che si era mostrato così premuroso nei suoi confronti, si affida ai carri e ai cavalli più che al Signore, arrivano i babilonesi e, continua il testo: «incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi», portando il popolo in esilio in Babilonia. Lì, in esilio, sarà l’occasione – come per il figliol prodigo – di prendere consapevolezza di chi era il Dio che così premurosamente si era preso cura di loro. È come l’ultima risorsa che ha Dio con noi quando prevale la nostra testardaggine.
Questa dinamica che abbiamo descritto non si è fermata, come vediamo nel Vangelo, Dio non si stanca mai di ricominciare a mostrarci tutta la passione che ha per noi; questa arriva al suo apice quando dice: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. [Perché] Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». «Dio non ha nessun interesse a giudicare l’uomo. Egli è puro amore che arriva al punto di dare al mondo, per amore, il figlio Suo» (Balthasar). Infatti, insiste ancora la seconda San Paolo: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo, per mostrare la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù». Dio può arrivare fino a dare Suo figlio per noi, anche quando siamo peccatori, ma non può fare al nostro posto quello che possiamo fare solo noi: accogliere liberamente il Suo amore.
Una presenza viva
«Mentre scendevano dal monte [dopo la trasfigurazione], [Gesù] ordinò ai discepoli di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti» (Mc 9,9-10). Non sapevano cosa volesse dire “risorgere dai morti”. Non è che non avessero visto con i propri occhi le risurrezioni che Gesù aveva compiuto – del figlio della vedova di Nain, o della figlia di Giairo, o di Lazzaro -, ma dopo questi fatti non avevano ancora capito.
Come hanno imparato cosa è la risurrezione? Solo l’esperienza di Cristo risorto ha svelato ai discepoli che cos’è proprio la risurrezione. Neanche il fatto che era stato annunciato nelle Scritture dell’Antico Testamento, o l’annuncio della risurrezione fatta da Gesù stesso, erano bastati perché loro capissero. È stata solo l’esperienza del loro imbattersi nella presenza viva di Gesù risorto ad introdurli alla conoscenza vera, reale, della risurrezione. Basti pensare a quanto era prevalsa la delusione in quei due che camminavano verso Emmaus. Solo il vederLo vivo ha aperto loro gli occhi fino a rendersi conto di quanto gli ardeva il cuore lungo la via, da farli tornare a Gerusalemme dove trovarono gli Undici che anche loro dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!» (Lc 24,34). Oppure, Maria di Magdala che Lo scambia per il giardiniere e Lo riconosce solo sentendosi chiamare:
«Maria!». Che intensità avrà percepito quella donna per fare un’esperienza tutta nuova di che cosa significava aver davanti “uno vivo”. Il Vangelo ci sorprende con il saluto che Gesù rivolge ai Suoi discepoli, proprio a coloro che la avevano tradito: «La pace sia con voi». «Non c’è nessun’altra scena di riconciliazione con i discepoli, che l’hanno vergognosamente rinnegato e sono fuggiti, tutto questo è sprofondato nella grande pace che Gesù offre loro» (Balthasar). Che esperienza faceva Gesù per non essere determinato dai loro tradimenti? Era un’altra vita, tutta nuova, diversa, tutta traboccante di pace che risplendeva in Lui e si allargava per primo ai Suoi e poi a tutti. «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,22).
È questa immedesimazione con i racconti pasquali che potrà rendere sempre più familiare la Sua presenza viva, fino a introdurci a questa esperienza oggi della sua risurrezione. Non è difficile immaginare come sarà trascorsa per i discepoli la settimana di Pasqua: tutti investiti dallo stupore del fatto che Colui che avevano accompagnato per giorni, settimane, anni, che avevano visto subire la passione, morire in croce, che avevano deposto nel sepolcro, lo vedevano vivo! Risorto davanti a loro! Come si saranno svegliati ogni giorno stupiti che fosse vivo. È difficile immaginare che non ritornasse, una volta dopo l’altra, alla loro mente, quella presenza viva! Anche quando erano impegnati nelle cose quotidiane si saranno sorpresi che gli venisse di nuovo in mente come un evento che determinava tutto, che investiva tutto! Perché Lui li sorprendeva mentre mangiavano, mentre pescavano, mentre camminavano.
Il suo continuo sorprenderli rendeva impossibile che diventasse qualcosa del passato. Lui era lì presente, vivo, determinando la loro persona. Tutta la loro vita sarà stata piena della Sua presenza: nessuno sforzo immaginativo, nessun tentativo di autoconvinzione, solo un immediato riconoscimento che riaccadeva! È vero, è proprio vero, è risorto. «Nessuno dei discepoli – dice che San Giovanni – osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore» (Gv 21,12). È lo stesso che dicono gli Undici a Tommaso «Abbiamo visto il Signore!». E con loro esulta tutta la Chiesa: «Questo è il giorno che ha fatto il Signore, rallegriamoci ed esultiamo».
Ciascuno può fare il paragone col modo con cui ha vissuto questa settimana di Pasqua. Siamo stati anche noi ingombrati dalla Sua presenza viva, oppure per noi è stato scontato, abitudinario, tanto che siamo tornati alle cose ordinarie come se non fosse successo niente di straordinario, come se in realtà non fosse successo niente? Sappiamo bene come qualsiasi altra cosa ci capiti ha più densità di realtà per noi, che la Sua presenza viva. Non lo dico per un rimprovero, ma per quello che rischiamo di perderci ogni giorno, ogni istante, come uno che si sorprendesse a non sentire la nostalgia della persona amata qualche giorno dopo averla incontrata.
Forse anche a noi è capitato come a Tommaso: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». La pace che trabocca da Gesù è talmente unica, che si piega perfino al desiderio di Tommaso: «Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: “Pace a voi!” [di nuovo]. Poi disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!”». Solo chi si arrende a questo riconoscimento elementare, potrà sperimentare quella novità a cui finalmente Tommaso cede: «Mio Signore e mio Dio!». Che cosa l’avrà invaso per far scattare in lui questa sua confessione? In Tommaso vediamo compiersi quello che San Giovanni dice: «Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chiunque ama colui che ha generato, ama anche chi è stato da lui generato» (1Gv 5,1). Questo è quello di cui noi abbiamo proprio bisogno, di lasciarci generare da Dio attraverso la fede in Gesù. LasciamoLo entrare nella nostra vita, come ha fatto Tommaso, per sorprenderci della Sua novità, per poter arrivare a capire anche noi dal di dentro della nostra esperienza, cosa veramente significa la risurrezione dei morti. È questo che ci convincerà della Sua risurrezione.
Come sarebbe diversa la vita, la nostra quotidianità, le solite cose di ogni giorno se qualsiasi istante fosse investito della Sua presenza, se ci sorprendessimo di riconoscerlo vivo, che c’è! Come un bambino che riconosce che c’è la sua mamma; tutta la sua vita, il suo tempo, le sue attività pur semplici sono vissute davanti alla presenza di sua mamma. Non è un pensiero, ma una presenza, questo è la mamma per il bambino. Questo è Cristo vivo per i discepoli: una presenza nel vivere. Come per un adulto l’imponenza della persona amata appena entrata nella sua vita.
Come sappiamo che noi siamo generati? «Tutto quello che è nato da Dio – continua San Giovanni – vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non colui che crede che Gesù è il Figlio di Dio?» (1Gv 5, 4-5). Solo una esperienza presente di fede in cui vediamo vincere, in cui vediamo prevalere la Sua presenza viva nella vita, potrà vincere nella situazione storica che tutti viviamo, sarà allora «una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto dice l’opposto» (Giussani).
Quando questa pienezza accade la vittoria si vede negli Atti degli Apostoli: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore e tutti essi godevano di grande simpatia». Coloro che lo vedevano, che vedevano le comunità cristiane pur piccole, potevano toccare con mano che Lui era risorto, perché quella era l’unica spiegazione adeguata di ciò che vedevano.
Dare la vita
In molte società dell’Antico Oriente i re e i governanti spesso si identificavano come pastori dei loro popoli, sottolineando così il loro ruolo di guida, di protezione e cura nei confronti dei cittadini, simile al modo con cui un pastore si prende cura del suo gregge. Lo stesso succedeva in Israele. Ma spesso i governanti non erano fedeli al loro compito e provocavano Dio a dire, attraverso i profeti: «Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? […] Per colpa del pastore si sono disperse [le pecore] e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate […] e nessuno va in cerca di loro e se ne cura» (Ez 34, 2-5).
Davanti a questa situazione dei pastori che Dio ha inviato al suo popolo, Egli si rivolge al profeta Ezechiele promettendo che Lui stesso diventerà il loro pastore: «Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. […] Le condurrò in ottime pasture […] Le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. […] Io stesso condurrò le mie pecore al Pascolo e le farò riposare» (Ez 34, 11-15).
Come si è avverata questa promessa di Dio?
La promessa di Dio: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare», in Gesù è diventata: «Io sono il buon pastore». Dunque, queste parole con cui Gesù presenta Sé stesso sono il compimento della promessa fatta da Dio di diventare Lui stesso pastore del suo gregge. Tutta la vita di Gesù documenta questa sua premura di pastore per gli uomini: «Vedendo le folle – leggiamo nei Vangeli – ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore» (Mt 9,6).
Qual è il segno che Gesù è veramente il buon pastore? Da che cosa si vede che la sua pretesa di essere il buon pastore non è un’espressione vuota, ma così reale da essere davvero il compimento della profezia di Dio? Gesù è proprio il buon pastore, non solo perché lo dice a parole – «Io sono il buon pastore» – ma perché mostra nel Suo vivere che Lui è il buon pastore, dal fatto che «dà la propria vita per le pecore».
E così, appare davanti agli occhi di tutti la differenza con il mercenario: «Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore». Poche immagini come quella del pastore sono così efficaci per mostrare il modo di rapportarsi di Dio con il Suo popolo. In questo rapporto si rende evidente tutta la Sua passione e allo stesso tempo tutta la Sua audacia. Dio veramente rischia, scegliendo questo modo di prendersi cura del suo popolo. Lui è ben consapevole che oltre ai buoni pastori, ci sono anche mercenari, a cui non importa delle pecore. Qui è interpellata potentemente la libertà dell’uomo, che è chiamato a discernere chi è pastore e chi è mercenario. Dio rischia tutto perché il popolo può addirittura preferire di essere sottomesso! Che Dio accetti questa eventualità, unico modo di salvaguardare la libertà dell’uomo, implica che sia il Padre che Gesù sappiano che le pecore – cioè gli uomini, noi – hanno la capacità di riconoscere il pastore e distinguerlo dal mercenario.
Come potranno riconoscere chi è pastore e chi è mercenario? Da un segno apparentemente insignificante: la paura. È impressionante il realismo della descrizione che Gesù fa del mercenario: «Il mercenario, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge». Questo è il segno più evidente, dice Gesù, che «è un mercenario e non gli importa delle pecore».
Allora, questo vuol dire che la caratteristica del pastore è la forza che ha di vincere la paura? Non proprio. Il pastore non è definito dalla sua energia. Cosa consente al pastore di non abbandonare le pecore per paura del lupo? Gesù di nuovo ci sorprende: «il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la vita per le pecore». Gesù è in grado di non fuggire davanti al lupo – come invece il mercenario – solo per il Suo rapporto col Padre. Solo il legame di figliolanza che Gesù ha con il Padre Gli consente di dare la vita per le pecore. Unicamente un pastore così libero dalla paura può diventare autorevole per le pecore. L’autorevolezza del pastore si fonda sulla libertà, che gli permette di mostrare tutta la passione per la vita delle pecore, in ragione proprio del suo rapporto col Padre. Solo un pastore così – come abbiamo visto nella celebrazione della Pasqua, dove il Figlio ha dato la vita per noi, senza fuggire davanti ai lupi – è talmente credibile che le pecore riconoscono la sua voce: la «ascolteranno e diventeranno un solo gregge, un solo pastore».
«Io sono il buon pastore, [continua Gesù] conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me». È proprio perché conosce le Sue pecore – cioè capisce il loro valore, il nostro valore – che Gesù è disponibile a dare la Sua vita per noi! Questo amore fino alla morte che abbiamo visto nella Pasqua è ciò che permette alle pecore di conoscere la vera natura di Gesù, l’unico vero Pastore. La sua consegna totale non solo consente a noi di amarLo, ma anche al Padre. Sono sorprendenti le parole di Gesù: «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita … Nessuno me la toglie: io la do da me stesso». L’amore del Padre e il nostro di uomini a Gesù hanno la stessa origine: la disponibilità di Gesù a dare la vita. Questo rende possibile distinguere il pastore dal mercenario.
Ma questa dinamica che testimonia Gesù, finisce con Lui o continua nella storia dopo di Lui? Gli Atti degli apostoli mostrano come questa dinamica permane. «Pietro e Giovanni stavano parlando al popolo [dopo la guarigione dello storpio], quando sopraggiunsero i sacerdoti, il comandante delle guardie del tempio e i sadducèi irritati per il fatto che essi insegnavano al popolo e annunciavano in Gesù la risurrezione dei morti. Li arrestarono […] e il giorno dopo si riunirono in Gerusalemme i loro capi, gli anziani e gli scribi, il sommo sacerdote Anna, Càifa […]. Li fecero comparire davanti a loro e si misero e interrogarli: “Con quale potere e in quale nome voi fate questo?”.
[Allora] «Pietro, colmato di Spirito Santo, disse: “Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, […] sia noto a tutti voi e a tutto il popolo di Israele che nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato». Quale sarà stata la sorpresa dei membri del Sinedrio che «vedendo l’audacia di Pietro e di Giovanni e rendendosi conto che erano persone semplici e senza istruzione, rimanevano stupiti e li riconoscevano come quelli erano stati con Gesù» (At 4,13).
Cosa ha reso possibile l’audacia di Pietro e Giovanni che stupisce il Sinedrio?
L’amore del Padre che continua a generare figli nel Suo Figlio: «Vedete qual è l’amore del Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!». E dall’inizio, fino ad oggi, questo è il dono che il Padre continua a darci.
Nuova alianza
«Verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova». L’alleanza è l’immagine che usa la Bibbia per parlare della relazione tra Dio e il popolo di Israele e, nel suo culmine, l’umanità tutta. Perché occorre un’alleanza nuova? Perché quella che Dio aveva concluso con i loro padri, «quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto» è l’«alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi il loro Signore». Quell’alleanza non era riuscita a trascinarli fino ad attaccarli al loro Signore. La legge e i comandamenti non si sono mostrati capaci di far vivere l’uomo per il suo Signore, perché se la legge resta esterna non riesce a muoverci nell’intimo. Qual è l’innovazione della nuova alleanza che il Signore intende fare per riuscire dove la vecchia alleanza era fallita? «Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato».
La novità della nuova alleanza consiste nel porre «la mia legge dentro di loro», nello scriverla «sul loro cuore» perché tutti conoscano il Signore. Il perdono delle loro iniquità farà loro conoscere il Signore attraverso la loro esperienza, e «allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo». Come Dio riuscirà a far entrare dentro di noi quello che noi percepiamo come un dovere esteriore, un codice da compiere ma che non riesce a farci attaccare a Lui? Il Vangelo ci guida rispondendo alla richiesta di alcuni greci, proseliti del giudaismo, a Filippo: «Vogliamo conoscere Gesù». Come possono questi pagani conoscere Gesù? Ecco la risposta di Gesù: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» e, per spiegare cosa intende, Gesù usa l’immagine del chicco di grano: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Perché i greci possano conoscere Gesù non occorre una lezione su chi sia Gesù, né un altro elenco di comandamenti che nemmeno riuscirebbe a far conoscere Gesù. Gesù può essere conosciuto solo se Lui svela tutto il suo amore per loro. Solo l’amore è in grado di far conoscere agli altri cosa significano per noi e cosa siamo disponibili a fare per loro.
E come Gesù svela il suo amore per loro? Perché i greci Lo possano conoscere? «Se il chicco di grano muore, produce molto frutto». Dunque, per farsi conoscere Gesù mostra fino a che punto è disponibile a consegnarsi. Che questa sua disponibilità a consegnarsi pienamente per farsi conoscere non è fittizia, non è solo apparente, si vede dal fatto che Gesù è ben consapevole di Dover attraversare tutto il dramma di quella consegna: «Adesso l’anima mia è turbata; e che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Anche Gesù deve affrontare la tentazione di chiedere al Padre di liberarLo dell’ora della morte. Ma Lui supera la tentazione, non ritirandosi dalla fatica che deve attraversare, ma guardandola in faccia fino a riconoscere che Lui è venuto proprio per quest’ora. Il culmine della sua autocoscienza è la supplica che rivolge al Padre: «Padre, glorifica il tuo nome», fa risplendere il Tuo nome attraverso la consegna mia, perché possano conoscere veramente chi sei. Ci aiuta a capirlo la Lettera agli Ebrei: «Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. E, pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono». Solo attraversando tutto il turbamento, le grida e le lacrime fino alla consegna totale della propria vita, Gesù ha potuto diventare causa di salvezza eterna per coloro che lo riconoscono. Da che cosa si vede che questa consegna totale porta la salvezza a coloro che lo riconoscono? «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». E, perché non resti alcun dubbio di che cosa intenda l’evangelista, aggiunge:
«Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire»: la croce. Solo un amore che non si risparmia è credibile. Perciò può riuscire ad attirare tutti, ebrei e greci, a Lui. Ecco la novità della nuova alleanza: l’attrazione che l’amore di Cristo riesce ad esercitare su di noi fino a muoverci nell’intimo, dal di dentro di noi stessi, per diventare Suoi. Non per dovere, ma per amore. Nessuna costrizione etica è in grado di muovere l’uomo fino in fondo, di incollarlo. Solo l’attrattiva avvincente dell’amore può affascinare l’uomo. Questo è il capovolgimento totale di metodo che ha portato Cristo. Si vede in modo solare in un fariseo come Paolo, che scrive: «Io circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge». Lui era stato l’uomo che più aveva preso a cuore quella legge. «Ma quello che io potevo ritenere un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, basata sulla fede» (Fil 3,4-11). Ecco il capovolgimento che ha portato San Paolo a vivere segnato da questa esperienza e che gli ha fatto conoscere Cristo nella sua consegna totale, per non vivere più di altra cosa, se non di Gesù. «E questa vita che io vivo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20).
Uno vivente!
In il tempo pasquale, la liturgia è dominata dalla parabola della vite e i tralci. Il contesto pasquale è di grande aiuto per capire in modo esistenziale il significato di questa parabola e allo stesso tempo diventa un’occasione per farci capire come oggi noi possiamo fare esperienza della Risurrezione.
Per capire la pedagogia della Chiesa, occorre metterci nei panni dei discepoli e lasciarci sorprendere da quello che accadeva in loro. Loro erano tristi, come Maria Maddalena che piangeva alla porta del sepolcro vuoto, o delusi come i discepoli di Emmaus, o impauriti come i discepoli chiusi in casa per paura dei Giudei. Erano completamente determinati dalla sconfitta del loro Signore. Si vede da come si muovevano: cominciavano a ritornare a casa delusi, perché l’avventura iniziata con Gesù in Galilea era finita. Al massimo, potevano andare al sepolcro, come la Maddalena, per ungere il cadavere come segno del suo attaccamento, così come noi portiamo i fiori o andiamo a sistemare la tomba della persona amata. Oppure potevano ricordare l’avventura vissuta con Lui, come quando a noi succede qualcosa che poi non lascia traccia definitiva e resta solo il ricordo da raccontare ai nipoti.
In queste condizioni, accadde l’imprevisto: Gesù arriva e li sorprende con la sua presenza. Con Lui vivo, tutto cambia. Era la sua presenza viva che rendeva possibile un nuovo inizio. Il nuovo inizio si vedeva dal fatto che tutta la loro vita era investita da quella presenza. Si vedeva che era reale – non una immaginazione o una invenzione – dalla novità che introduceva in loro, dal fatto che li cambiava, che vinceva la loro paralisi, la loro paura, la loro delusione, la loro tristezza, facendoli diventare di nuovo protagonisti.
Solo immedesimandoci con i discepoli possiamo capire, dall’interno della loro esperienza, cosa significa esistenzialmente l’immagine che abbiamo appena ascoltato: «Io sono la vite vera». Loro sì che capirebbero bene il significato di questa espressione! Sarebbe impossibile per loro ridurla a una pura immagine. «Io sono la vite vera» significava per loro riconoscere:
«Io, Gesù vivo, presente davanti a voi, sono l’origine della vita nuova, vera, traboccante di gioia, di libertà, di pace, che vedete accadere con sorpresa in voi stessi e che è talmente visibile che stupisce anche gli altri, perfino coloro che non credono». «La vita [potevano pensare] sei tu, Cristo, che riempi la nostra vita della tua vita, con una pienezza senza paragoni, da lasciarci senza parole!». Solo chi ha fatto esperienza della pienezza della presenza della persona amata, della novità che introduce inaspettatamente nella vita, può avere un’idea di che cosa stiamo parlando: una presenza che all’improvviso entra nella nostra vita e così siamo tutti invasi da quella presenza. Che esperienza ha fatto San Paolo, il persecutore, per dire: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1,21) oppure: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»? (Gal 2,20)
La prima sorpresa per loro fu l’imbattersi nel cambiamento avvenuto in Gesù stesso. Proprio Lui che era stato crocifisso, morto e deposto nel sepolcro, appariva traboccante di vita davanti ai loro occhi stupiti, non della vita di prima a cui era ritornato Lazzaro, ma della vita vera, quella che non finisce più, quella che è in grado di cambiare anche la vita dei discepoli con la Sua presenza viva. Era proprio Lui, uno vivente!, che traboccava talmente di vita che la trasmetteva per contagio agli altri, vivendo, per il fatto di essere vivo. Prima di qualsiasi riflessione, Gesù risorto mostrava di essere sorgente di vita, riempiva di vita chi lo riconosceva. Cosa desideriamo quando avviene qualcosa di unico nella vita? Non vogliamo che finisca, vogliamo che sia per sempre. L’unico veramente in grado di garantire qualcosa che sia per sempre è uno che è in possesso della vita che non muore, che non viene meno. Mai. Perché la morte non ha più potere su di Lui.
E allora, ci domandiamo: come possiamo non perdere tutto quello che di bello ci capita? Se Lui è la vita, l’unica modalità per non perderlo – ci dice ancora Gesù – è permanere in Lui. Cosa significa permanere? Lo vediamo documentato dai discepoli: rimanere in rapporto con Lui, con la Sua presenza, così da vedere gli effetti che quella presenza provoca, come quando stiamo davanti alla persona amata e vediamo la novità che porta alla nostra vita. La novità che Lui vivo porta alla vita la vediamo appena ci stacchiamo da Lui; appena ci allontaniamo, ci rendiamo conto della preziosità di quella presenza e siamo di nuovo invasi dalle preoccupazioni, dalle paure, da un disagio che non riusciamo a vincere con i nostri poveri tentativi.
Allora tutto il resto prende il sopravvento e cominciamo a sperimentare lamancanza, come quando sentiamo la nostalgia della persona amata. Paradossalmente, la mancanza, o le preoccupazioni che ci invadono, o il vuoto che sentiamo possono diventare la risorsa più preziosa per tornare da Lui, come il bambino che ritorna alla mamma perché ha bisogno di lei per essere se stesso. Qualsiasi dispiacere, qualsiasi tristezza, qualsiasi pena che sentiamo sono segno di quel bene assente che è entrato nella vita, e diventano spunto per tornare da Lui.
L’hanno capito bene coloro per cui Cristo non è solo una parola vuota o un elenco di cose da fare, ma una presenza decisiva per vivere! Uno come San Benedetto l’aveva colto bene, invitava i suoi monaci a «non anteporre niente all’amore di Cristo» se non volevano perdere il meglio del vivere.
Solo un’esperienza così ci fa capire cosa significa esistenzialmente che: «il tralcio [cioè noi] non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me [nel rapporto con me]». Lo comprendiamo appena ci allontaniamo da Lui, perché il frutto ha la sua origine unicamente in Lui, come insiste ancora Gesù: «senza di me non potete far nulla». Che liberanti diventano allora queste parole! Illuminano dal di dentro dell’esperienza, perché non possiamo darci da soli quella vita che procede solo da Lui. Non dobbiamo arrabbiarci con noi stessi o con le cose che non riescono a darci quella vita che promettono. Anzi, queste esperienze ci fanno capire che tutto quello che noi facciamo o possediamo è troppo poco per rispondere al nostro desiderio di vita. E allora, invece di prendercela con noi stessi o con le cose che non ci soddisfano, cogliamo l’opportunità di capire la ragione del nostro dispiacere o della nostra tristezza. Ci manca Lui! Ci manca quella presenza che riempie la vita. È come se, dal di dentro della nostra esperienza, Cristo ci dicesse: «Non prendetevela con niente. Sono io che ti manco in ogni cosa che tu gusti».
Come si è stupita una nonna che ho visto due giorni fa; aveva tra le braccia sua nipote e, non appena provava a metterla nella culla, la bambina si svegliava perché si separava dal rapporto con lei. Mi ha colpito il commento stupito della nonna: «In quanto perde il calore umano del rapporto con quella presenza che la rende se stessa, si sveglia». Oppure, come un ragazzo che ho incrociato nel corridoio della scuola dove insegno che piangeva desolato perché i servizi sociali gli avevano detto che doveva andare in comunità e separarsi dalle persone che gli avevano fatto sperimentare una nuova vita per il modo con cui l’avevano guardato. Quelle presenze erano decisive per lui. È bastato che lo rendessi consapevole che non le perdeva più, perché cambiasse faccia. Come si capisce, guardando l’esperienza delle persone, di che razza di rapporto abbiamo bisogno per vivere! Con la Sua risurrezione Gesù ha introdotto per sempre nella storia l’origine di una vita nuova. Solo chi Lo riconosce e gli fa spazio nella propria vita, potrà convincersi di quanto è reale.
Pieni di Gioia
San Luca riassume il contenuto del Vangelo all’inizio degli atti degli Apostoli: «Nel primo racconto, [cioè il primo libro che Luca ha scritto: il Vangelo] ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo […]. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio».
I discepoli dunque hanno vissuto con Gesù vedendolo vivere, agire e reagire nella sua vita terrena. Hanno fatto una lunga esperienza con Lui. In che modo questa convivenza li ha segnati? Lo vediamo dalla domanda: «Quelli che erano con lui gli domandavano: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?”. Ma egli rispose: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra”».
Colpisce che dopo tre anni di convivenza con Gesù, la loro preoccupazione sia solo di conoscere quando Gesù prenderà possesso del Suo regno. La convivenza con Lui non è riuscita a cambiare la loro prospettiva di una restaurazione dell’antica monarchia davidica, di un regno secondo il pensiero umano. Se non è un dominio visibile sembra nulla ai loro occhi. Gesù “sposta” i discepoli fino all’ultimo momento prima di andarsene. La storia cominciata con Lui continuerà, ma in una forma imprevedibile per loro: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e sarete miei testimoni fino agli estremi confini della terra».
«Mentre lo guardavano, fu elevato in cielo e una nube lo sottrasse ai loro occhi». “Essere elevato in cielo” ha il significato che Gesù aveva già annunciato: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17). Gesù entrando così nel Regno di Dio, di nuovo, è elevato ed entra nel mondo divino oltre la nube. Colui che loro avevano visto crocifisso, deposto nel sepolcro e poi risorto. Il Gesù che è elevato ed entra nel mondo divino, entra con tutta la sua umanità. E con Lui, tutto l’umano è elevato e entra nel mondo definitivo, come abbiamo detto esultanti con la preghiera della Colletta: «Esulti di santa gioia la tua Chiesa, Signore, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché in Cristo asceso al cielo la nostra umanità, [la tua, la mia] è innalzata accanto a te». Così si svela ai nostri occhi il disegno di Dio. Perché Dio ha creato l’uomo, ciascuno di noi? Proprio per quello che oggi celebriamo: per condividere con noi, con ciascuno di noi la sua gloria, la sua pienezza. Cristo oggi porta nel cielo la nostra umanità. Non siamo destinati alla tomba, non siamo destinati a sparire nel nulla! Per questo, San Paolo insiste: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i nostri peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per pura grazia, infatti, siamo stati salvati. Con Lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù» (Ef 2,4-6). La vita è vivere già ora, investiti della novità che Cristo introduce in noi.
Questo spiega perché «I discepoli ritornarono a Gerusalemme “pieni di gioia”» (Lc 24,52). La pienezza di gioia testimonia che chi vive con la consapevolezza di quanto oggi celebriamo non vive determinato dall’assenza di Gesù, ma dalla sua presenza che investe tutta la sua umanità. Lui mostrava, finalmente, tutta la sua potenza penetrando l’umanità dei suoi amici, e dunque ora potenzialmente anche la nostra, se Lo accogliamo come loro. Facendoci sperimentare chi ci rende veramente noi stessi, si compie definitivamente quello che San Paolo dice: «tutte le cose, sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui», cioè, aspettando la pienezza che si svela oggi davanti ai nostri occhi. Quindi, tutte le cose create erano destinate a raggiungere la loro pienezza in Cristo. Altro che assenza la festa dell’Ascensione! È il contrario: una presenza ancora più profondamente radicata dentro di noi in un modo assolutamente permanente, tanto è vero che dice ai discepoli: «Sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo». Questa era la ragione della loro gioia ed è anche la ragione della nostra gioia: che Cristo è per sempre con noi facendoci partecipare della sua vita nuova, risorta! Entrando nella profondità della realtà, Cristo penetra in noi fino alle viscere, riempiendo tutta la vita di vita nuova! A che coscienza nuova di noi ci introduce dunque la festa dell’Ascensione! Uno che vive con questa coscienza non è mai più solo. La solitudine è vinta per sempre!
Non siamo in balia dei nostri tentativi maldestri di compimento, di felicità. È lui la nostra pienezza, la nostra felicità! Lo capisce chi ama e sperimenta che la persona amata «fa essere me più di me stesso». Gesù se ne è andato per entrare più profondamente nell’intimo di noi stessi. «Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose». Si capisce che i discepoli, consapevoli di questo, traboccassero di gioia!
Solo così, noi, come i discepoli, potremo compiere la missione. «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura». In qualsiasi posto andranno, Lo porteranno con sé nel brillio dei loro occhi. «Renderò evidente la mia presenza attraverso la letizia dei vostri volti», è quella gioia dei primi. Questa è la forma di come avviene il suo regno ora, adesso, mentre camminiamo nella storia, in attesa del suo ritorno.
* Questo testo raccoglie alcune delle omelie pronunciate da Julián Carrón durante il periodo pasquale del 2024. Le diverse sezioni non corrispondono alla cronologia della liturgia, ma a raggruppamenti tematici. Il testo non è stato rivisto dall’autore.
Legge anche: Quando tutto sembra «contro»… come si fa a vivere?*
Segui gli articoli più importanti della settimana di Páginas Digital su X!
Ricordati di iscriverti alla newsletter di Páginas Digital!