“Solo serve correre il rischio di essere liberi”
Gli Stati Uniti sono stati nelle notizie nelle ultime settimane a causa di The Great Resignation, l’abbandono del lavoro da parte di milioni di persone. Cosa c’è dietro questo? Una questione economica, antropologica… Dietro questo fenomeno c’è il desiderio di fuggire dalla realtà? Cosa lo causa?
L’impressione che ho è che non abbiamo ancora capito quale sia la causa. Ho molto presente che la pandemia ha accelerato una sensazione che avevamo già tutti, che è che le cose così come stanno non bastano, che qualcosa deve cambiare. Una seconda impressione molto forte è che quelli che in teoria dovrebbero sapere cosa bisogna fare, non lo sanno. E, secondo me, la pandemia ha fatto esplodere questa percezione, perché in un certo senso noi vivevamo sempre con l’idea che per poter vivere, per poter fare quello che io voglio e desidero fare, è che se vuoi lavorare in televisione devi andare a New York, se vuoi scrivere devi andare a… adesso invece puoi lavorare da casa. Allora questo punto di costrizione che c’era prima adesso non c’è più. I punti di costrizione fondamentale sono la casa e il lavoro, che venivano immaginati in un certo modo e ora sono cambiate. Quando dico che sono cambiate intendo che prima tu eri costretto a fare una certa cosa, e adesso non lo sei più. E questo ha generato una marea di possibilità e anche una marea di incertezze perché questa domanda, che nessuno aveva, perché era data per scontata, adesso ce l’hanno tutti, e nessuno ne ha la risposta.
Ma qual è la domanda? Che senso ha essere in un posto, che senso ha il lavoro?
Secondo me la domanda è una domanda antropologica alla fine: la domanda di che cosa vuole dire la vita per me. Noi rispondiamo a questa domanda su cosa mi porterà alla felicità in termini di famiglia e lavoro, dentro delle costrizioni che abbiamo, e adesso ce le hanno cambiato e bisogna rispondere alla domanda un’altra volta. Prima pensavamo che bastasse con fare quello che gli esperti ci dicevano, ora ci siamo resi conto che gli scienziati ne sanno tanto quanto noi, che anche loro stanno tentando di trovare delle risposte.
In un certo senso ci siamo messi dentro a un esperimento enorme. A me ricorda molto la fondazione degli Stati Uniti: delle persone che arrivano a questo paese, dove c’è la terra, c’è poco governo, e allora fai tu, decidi tu come lo vuoi. Quando uno non è contento di come va la vita e vuole cambiare e c’è un nemico – storicamente per gli americani è il governo inglese, la corona – allora uno ha una giustificazione per la propria infelicità: il problema è il governo. Ma se te lo tolgono? Allora il problema è nelle tue mani, devi essere tu a rispondere. E questo in un certo senso è la baldanza innocente, giovanile, dell’americano, che pensa sempre a fare lui, a proporre lui; per cui in un certo senso questo è un tempo interessante, in cui tanta gente in America dice: «Va beh, cambiamo. Vediamo di trovare altre risposte».
Secondo me questa Great Resignation, questa percentuale altissima di persone che cambiano di lavoro, o di Stato, e di fatto ripensano la vita, se noi la guardiamo con i modelli antichi, economici o sociali, alla fine non riusciremo mai a capire quello che sta succedendo, perché il problema è che sono i modelli sociali a cui la gente dice che non funzionano.
D’altra parte, più di quattro anni fa The Coddling of the American Mind, il libro di Haidt e Lukianoff, descriveva lo sviluppo in alcune aree degli Stati Uniti di una cultura nevrotica e puritana, dominata dal panico morale. Una cultura che cerca di preservare da ogni possibile danno nel rapporto con il diverso. Gli autori hanno esagerato? C’è questo? Qual è l’origine di questo fenomeno?
Secondo me in tutte le realtà sociali c’è sempre un impeto molto grande rivolto a mantenere, sostenere o continuare quello che c’è. L’impeto della tradizione è fortissimo. Più o meno si sopravvive così come siamo e tentare di continuare a sopravvivere è tentare di mantenere quello che c’è.
È interessante che quando la pandemia era iniziata si parlava di nuova normalità, di come riusciamo a rientrare dentro la normalità, per cui quella tendenza a mantenere lo status quo è sempre presente e di fatto anche umanamente noi andiamo sempre a cercare il conforto di ciò che è familiare. Il problema delle cose familiari è che non ti innamorano, non ti esaltano. Soprattutto per gli americani, proprio perché la nostra tradizione è un reinventare, un fare, il voler continuare le cose come stanno non innamora, non è misterioso, non genera creatività, non basta.
È interessante che negli anni ’60 e ’70, quando come nella pandemia sono saltate tante costrizioni dal punto di vista del pensare il rapporto con il potere, con il governo, con la sessualità, con la religione, la società americana e gli americani si sono buttati in questa avventura di reinventare tutto. Il problema è che penso che non si siano trovate delle risposte adeguate, il che lascia un senso di incertezza molto profondo, soprattutto perché la domanda non è esplicita. Come dire, noi abbiamo detto che si sta meglio quando puoi fare quello che tu vuoi, e tutti gli esseri umani sarebbero d’accordo. Io voglio essere protagonista della mia vita, io voglio fare come penso sia meglio. Il problema è quando ti lasciano farlo: questa è la grande sfida.
C’è libertà ma non si sa cosa farci.
I miei studenti mi parlano a volte di questo a scuola: allora come so qual è la cosa giusta da fare? Questo è il rischio del vivere, per cui davanti a questa incertezza la reazione naturale è quella di tornare al familiare e di far fuori in un certo senso questa incertezza, che nasce dal fatto che c’è una domanda, che è davanti a noi, che molte volte purtroppo non è esplicita, che non ci lascia sopravvivere, perché la domanda è la vita.
In questo contesto come valuta lo sviluppo del movimento Cancel Culture? È una questione di élite, è una reazione difensiva, qual è il significato di questo movimento?
La Cancel Culture come concetto è molto legata al mondo liberale, che nasce da questo impeto enorme di mettere in questione tutte le realtà, di reinventare questo rapporto con la società, con il mondo, con l’io, tutto quanto, arrivando a una risposta: è importante che tu faccia quel che vuoi. Il problema è che non basta, allora loro dicono che è importante che io faccia quello che voglio e che tuti mi dicono che quello che faccio va bene. Noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica, o un punto di verifica, che le cose così come le ho decise io, vanno bene. Per cui la cosa che è contraddittoria nel movimento di Cancel Culture, quello che Greg Lukianoff e Jonathan Haidt vedono, è che nel nome della libertà si diventa dei censori. Io non voglio essere accanto a quelli che non mi dicono che quello che io ho scelto va bene. Ma non volevi la libertà? Se volevi la libertà te la prendi con tutte le conseguenze. Quest’idea che io voglio scegliere e voglio anche che mi dicano che va bene, in un certo senso non vanno insieme. Si vede meglio nel movimento più liberale, perché è contraddittori; la chiamata a usare la propria libertà per poter scegliere quello che uno vuole è un rischio, e tu non puoi eliminare il rischio mettendoti dentro a un movimento che ti conferma nella tua scelta. È la tua scelta e devi fare i conti con la tua scelta.
La Cancel Culture non è solo nel movimento liberale, è a tutti i livelli: è un desiderio di fare in modo che io non percepisca il rischio di essere libero.
Abbiamo tradizionalmente pensato che gli Stati Uniti siano uno dei paesi meno secolarizzati dell’Occidente. Secondo uno studio del Pew Research, negli ultimi dieci anni è cresciuta la percentuale di cittadini che si considerano religiosi ma “religiosamente non affiliati”. Cosa significa questo fenomeno?
A me ricorda molto quello che succede quando io, che sono professore, do un esame ai miei studenti e loro vengono tutti o bocciati o prendono dei cattivi voti. Le possibili ipotesi di spiegazione sono due: loro non hanno studiato o io non ho insegnato. Davanti a dati come questi noi possiamo leggerli in questi due livelli. Gli americani non sono più interessati alla religione, o è la religione che non è più interessante, non siamo capaci di spiegarci?
Dentro questa seconda ipotesi, se io accetto la sfida che magari il problema sono io, non loro, io professore e non loro, devo pensare la sfida a due livelli. Uno può essere che magari non mi sono spiegato bene, l’altro è che magari quello che sto dicendo non riscontra in loro un’attrattiva, non è capace di rispondere alle difficoltà che loro stanno trovando. In un certo senso, se tu pensi al movimento enorme di persone disposte a lasciare la normalità della loro vita, ad andare in un altro posto in questo momento di incertezze, quello è un segno molto forte di un popolo che è alla ricerca, che non è contento di come stanno le cose. Secondo me la sfida è per tutte queste affiliazioni religiose: in che modo possano essere una proposta che possa interessare dentro questo momento.
Nel cattolicesimo americano c’è una corrente che ritiene che nel mondo occidentale vi sia un nuovo totalitarismo ideologico, e che ci sia bisogno di una difesa come i dissidenti nell’era del totalitarismo sovietico. Quale valutazione fai di questo?
Io ho l’impressione che questo modo di pensare sia un po’ vecchio. Se c’è una cosa che la pandemia ha reso definitivamente chiara, ma anche le situazioni di prima, è che la gente, magari implicitamente, e solo pochi esplicitamente, non crede più che un’ideologia, una spiegazione, di come vivere la vita sia sufficiente. Che ci sia un nuovo totalitarismo che fa la concorrenza ad altri totalitarismi, che sia capitalista, comunista, religioso, che siano alla fine delle spiegazioni di come vivere, delle proposte a tutti di come vivere, di solito si sostengono fino a quando non sono responsabili, non sono al potere. Questo in politica si vede molto bene: il partito democratico è riuscito a vincere le elezioni sempre quando c’era un nemico, Trump. Adesso che il nemico non c’è non riescono a fare niente e questo è il problema. Il totalitarismo ha bisogno sempre di un nemico fuori. Quando noi viviamo, come persone, la vita afferrati a un’ideologia, abbiamo sempre bisogno di un nemico, che ci permette di non mettere in questione che io ho un problema, che io devo cambiare. Deve cambiare quello che c’è fuori. Per cui secondo me è un modo un po’ vecchio di parlare. Quello di cui abbiamo veramente bisogno è di qualcuno che ci sostenga, ci permetta di imparare come vivere, adesso che siamo più coscienti del rischio di essere liberi.
Questa corrente propone che per vivere la verità si debba vivere in comunità ritirate, perché la scuola e la società sono dominate da ideologie pericolose e quindi bisogna stare meno nel reale. Credi che, in vista del progresso della secolarizzazione, e per vivere nella verità, sia conveniente ritirarsi in una vita comunitaria che serva da rifugio agli attacchi del mondo?
Io vedo una dinamica che si ripete continuamente: vivere in comunità è fondamentale, sostiene, ma sostiene cosa? Sostiene l’uomo in cosa? Vivere in comunità ti può aiutare a sopravvivere, perché tutti sono uguali a te, sostengono le tue idee, non devi pensare più di tanto, ma non innamora. Alla fine, l’amore nasce sempre come l’incontro con un altro, con l’altro, con il diverso, è quello che ti tira fuori da te, ti fa andare in luoghi in cui non immaginavi che saresti andato, che ti fa scoprire cose diverse da te stesso, è quello che ti dà vita. Alla fine è il mistero, è il misterioso. La comunità per poter vivere e educare e sostenere dentro questa dinamica dell’innamoramento, dell’amare, del generare, ha bisogno anche di essere dentro una realtà che è diversa. L’isolamento, in ultima analisi, porta all’uniformità, e l’uniformità, quando è tutto uguale, è tutto noioso, non c’è gusto del vivere. Certamente una risposta possibile ad altri totalitarismi è un altro totalitarismo, ma è un modo vecchio di pensare perché il totalitarismo, qualunque esso sia, è noioso, non innamora, non genera. Magari noi occidentali lo vediamo di più nel totalitarismo comunista, che toglie in un certo senso il gusto del creare, ma l’idea che noi ci rifugiamo nel totalitarismo è affermare che la risposta sia un totalitarismo, è la discussione su quale sia quello vero.
Ha una lunga esperienza educativa con i giovani, per i quali la questione dell’identità (personale, razziale, sessuale) appare sempre più come una questione problematica. Perché questo accade? Qual è la risposta possibile a questa sfida di un’identità problematica?
La domanda sull’identità è sempre stata là, implicitamente: quello che è diverso è che la domanda è diventata più esplicita in questo momento. Tutti questi modi di pensare l’identità personale, razziale e sessuale, sono possibili risposte alla domanda su chi sono io. Prima la domanda sull’identità era una domanda implicita, sotto, perché è parte dell’essere uomo, adesso è esplicita. Questo è il cambiamento. I ragazzi si stanno chiedendo consapevolmente questa domanda e importa la risposta a questa domanda.
Mi viene in mente quando insegno matematica. Do un esame ai ragazzi con un problema, una domanda, con cinque possibili risposte. I totalitarismi, le ideologie ti dicono qual è la risposta giusta. Immagina che tu il giorno prima dell’esame vai nello studio del professore, guardi il foglio dell’esame e vedi tutte le risposte giuste, per cui vai il giorno dell’esame e rispondi e hai preso il voto più alto, hai le risposte giuste. Ma l’esame tu non l’hai fatto! Questa sfida di mettersi davanti a un problema, e tentare di trovare la risposta, e magari davanti a quelle cinque risposte multiple cercare di trovare quella più adeguata, è quel lavoro, che è quello che io chiamo “vivere”: il rischio del totalitarismo è che riduce l’atto di vivere, questo rischio della libertà. Uno potrebbe finire la vita contento perché ha preso 100, ma non hai vissuto.
Per cui qual è la risposta migliore? Qualcuno che insegna ai ragazzi a vivere, a camminare attraverso questa strada della scoperta di chi sono io. Io come professore di matematica, non insegno la matematica dando le risposte, ma insegnando a affrontare il problema, a guardarlo, a pensare come muoversi, cosa vuol dire. L’ideologia, il totalitarismo, pensa che basti con saper la risposta; per me la sfida dell’educazione è proprio a questo livello qua, ma non solo a livello umano, anche a livello della conoscenza, a livello dell’amore, a livello del vivere: io voglio qualcuno che mi educhi a vivere. Certo che tutti come adulti, a un certo punto, abbiamo trovato dentro questa molteplicità di risposte una che è più consona a noi: ma non è che perché io propongo la risposta, te la spiego, conosco la logica, posso permettermi di risparmiarti a te di fare il lavoro.
La difficoltà è che se veramente vogliamo aiutare i ragazzi in un momento come il nostro, in cui c’è una sfiducia nell’idea che l’autorità sappia veramente, c’è bisogno di un’autorità che veramente mi aiuti, mi educhi, che abbia una stima del mio lavoro e del mio tentativo.
E io i miei studenti, anche davanti alle risposte sulle identità più sproporzionate, li guardo sempre con una grande stima, perché ci stanno tentando. Questo è il vivere, è uno che ci tenta, che ci prova a vedere cosa veramente può rispondere a quel qualcosa di misterioso dentro di tutti noi che ci spinge a incontrare l’altro, il diverso, lo sconosciuto.
Noi adulti abbiamo paura di questo rischio, ma non per i ragazzi, l’abbiamo per noi stessi. I ragazzi ci stanno provando: certe risposte sono veramente strane, ma ci stanno tentando, stanno tentando di lavorare, ma c’è qualcuno che li può veramente accompagnare?
Quando prima mi dicevi che siamo religiosi ma non troviamo delle istituzioni o delle autorità: secondo me la sfida per noi adulti è a questo livello qua. Ma noi possiamo accompagnare a fare questo lavoro? Possiamo farlo solo se lo facciamo noi questo lavoro, se noi amiamo il rischio della nostra libertà.