L’uomo in una società patoplastica

Convegno: Disagio psichico e postmodernità
L’uomo in una società patoplastica
don Julián Carrón
Cesare Cornaggia
Giulio Maspero
Modera: Ubaldo Casotto
Julián Carrón. Buongiorno a tutti. Grazie dell’invito a parlare di questo tema così sfidante. Con il termine “società patoplastica” si intende (mi rimetto a quanto affermato dai nostri Cornaggia, Maspero e Peroni[1]) il difficile fenomeno dei tanti disagi che ci troviamo ad affrontare sempre più spesso. Questa caratteristica della società contemporanea, secondo i nostri autori, è un’evidenza: non è necessario leggere o studiare statistiche per prendere atto che il proliferare di disturbi giovanili, e non solo giovanili, ha messo in crisi la distinzione tra “norma” e “patologia”. Proprio per la difficoltà a cogliere la vera natura di questi disagi crescenti, li indicano come «un-impossibile-da-definire». A loro parere, incarnano qualcosa che non è comprensibile, né afferrabile «con i soli modelli psicopatologici consueti» ed è riconducibile alla mancanza di «un “io” che non c’è». Secondo loro, di fronte a questa situazione, non è sufficiente «la moltiplicazione di percorsi psicoterapeutici e psicologici, ma urge elaborare un pensiero che possa aiutare a superare la sofferenza psichica e l’urgenza sanitaria e educativa a livello culturale. Un pensiero che riacquisti la generatività che la ragione moderna ha perduto»[2].
La posta in gioco è alta: comprendere gli accadimenti che abbiamo davanti e trovare una risposta adeguata.
Ogni volta che ci troviamo ad affrontare sfide nuove, mi ritorna in mente una frase di Hannah Arendt, che mi ha sempre colpito: «Una crisi ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che la crisi stessa costituisce»[3].
Di fronte a questo «impossibile-da-definire», i nostri autori si pongono una domanda: «Se questi disagi non sono “malattia”, cosa sono?». È un problema di conoscenza, prima che un problema da “sistemare”. Del resto, come si potrebbe “sistemare” senza una conoscenza approfondita? Interrogativi di questo spessore sono molto più diffusi di quanto si pensi, perché i disagi riguardano ogni attività dell’uomo: lo vediamo nel lavoro, negli affetti, nei rapporti tra educatori ed educandi, a tutti i livelli. Un acuto osservatore di questa situazione, come il filosofo canadese Charles Taylor, scrive: «Nel panorama contemporaneo tante persone si ritrovano in una situazione di grande solitudine [come se non trovassero un interlocutore all’altezza del disagio] e nel loro intimo nasce un profondo interrogativo: qual è il centro della mia vita? Per che cosa desidero spendere la mia vita? E tante persone faticano a rispondere a queste domande»[4].
María Zambrano offre una risposta all’origine della crisi che, fin dalla prima volta che l’ho letta, mi ha sorpreso e fatto riflettere: «Ciò che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere con il reale, talmente profondo e fondamentale da essere il nostro intimo sostento»[5]. Oggi è decisivo ripartire da questo nesso con il reale, perché è nell’esperienza che emergono tutti gli input che possono aiutarci a capire qual è il fondo del problema.
Mi viene in mente un esempio che facevo, anni fa, ai miei studenti liceali. Immaginiamo due genitori che portano il figlio a Disneyland. Possiamo facilmente supporre che il bambino resterebbe stupito da tutte le attrazioni con cui divertirsi. Se potessimo osservare le sue reazioni, una dopo l’altra, rimarremmo colpiti dal fascino che il reale è in grado di provocare in lui. Percepirebbe tutto come qualcosa di assolutamente affascinante. Ma, se per un caso fortuito, il figlio si allontanasse dai genitori e si perdesse in mezzo alla folla, quella stessa realtà – di colpo – assumerebbe tutto un altro sapore. Sarebbe identica a prima, ma la percezione del bambino cambierebbe radicalmente: non la sentirebbe più come amica, ma come una minaccia ostile. Cosa proverebbe in quel momento? Secondo voi, che cosa farebbe? In lui si scatenerebbe la ricerca spasmodica dei genitori per ristabilire un rapporto adeguato con la realtà. Solo ritrovando i genitori potrebbe ritrovare anche la percezione autentica di quella realtà, che prima lo affascinava.
E se fosse proprio lo smarrimento a spingerci a riconquistare questo legame con la realtà? A riabilitare quel «nesso», di cui parla la Zambrano, che è «in crisi»? Infatti, nel figlio, lo smarrimento scatena una ricerca spasmodica e folle di quel nesso, mette in moto tutto il suo dinamismo umano.
Questa ricerca sembra dilagare dappertutto, come dice ancora Taylor, acutamente: «Oggi, in un contesto completamente diverso da quello delle epoche passate, l’esperienza religiosa si configura come una forma di ricerca comune»[6]. Questo non succede solo al bambino che si smarrisce a Disneyland, ma è la condizione globale in cui viviamo, che potremmo paragonare a un “Disneyland mondiale”! È proprio in questa situazione che emergono persone in ricerca, i “cercatori di senso”. Il fatto che, nel nostro tempo, ci siano tanti “cercatori”, che cosa svela riguardo alla percezione che abbiamo di tutti questi disagi, quando affermiamo che «non hanno valenza relazionale»[7]? C’è qualcosa da guardare prima, più in profondità? Perché il bambino non si darà pace fin quando non troverà qualcosa all’altezza della sua ricerca. Più ci sentiamo minacciati dalla situazione, più ci rendiamo conto di possedere in noi qualcosa di sorprendente che ci mette alla ricerca. Qualcosa che ci suscita una tale insopportabilità che non possiamo non cercare.
Quello che mi stupisce di più è proprio questa insopportabilità che ci troviamo addosso! In questo senso, Luigi Giussani ne Il senso religioso scrive: «Un individuo che avesse vissuto poco l’impatto con la realtà, perché, ad esempio, ha avuto ben poca fatica da compiere, avrà scarso il senso della propria coscienza, percepirà meno l’energia e la vibrazione della sua ragione»[8]. Se, quindi, emergesse così tutta l’energia e l’ampiezza della ragione, rispetto a quella mancanza di «generatività» della ragione moderna, accusata dai nostri autori? È proprio nell’esperienza del rapporto con la realtà che emerge la natura della ragione! Nel contesto attuale, vediamo tante persone alla ricerca di qualcosa: riconoscere questo dato cosa ci suggerisce?
Se proprio l’impatto con la realtà, come afferma Giussani, fosse la risorsa più preziosa per prendere coscienza di noi stessi, per percepire l’energia e la vibrazione della nostra ragione?
1.- La provocazione della realtà fa emergere fattori costitutivi dell’uomo
«I fattori costitutivi dell’umano si percepiscono là dove sono impegnati nell’azione, altrimenti non sono rilevabili, è come se non fossero, vengono obliterati»[9].
Mi è capitato di affrontare questa situazione: il preside di una scuola viene a sapere che uno dei suoi studenti non ha passato una bella settimana. Lo convoca e gli dice: «Ho saputo che sei un po’ nervoso…». Parlano un po’ per capire quale sia il motivo e il ragazzo dice: «Comunque, c’è qualcosa che devo capire! Se guardo al periodo che ho vissuto, devo ammettere che a scuola sto bene, mi trovo bene con i compagni e con i professori, anche con la ragazza va tutto liscio… Che noia! Va tutto bene, ma io non sto bene. C’è qualcosa che devo scoprire, perché i conti non tornano». «Cosa devi scoprire?», gli chiede il preside. «La verità! Io voglio scoprire la verità». Poi descrive una situazione familiare particolare, in cui gli viene insegnato che il mondo è pieno di demoni da scacciare, e questo lo spaventa. Ha imparato che, quando qualcosa va storto, la colpa è dei demoni. Qualche giorno prima, suo fratello più piccolo aveva avuto un attacco di panico per la stessa ragione. Le spiegazioni che gli vengono offerte, però, non lo convincono: lui vuole la verità. È l’unico modo per liberarsi dall’ansia che lo opprime. L’ansia è ciò che ha scatenato in lui il desiderio della verità!
Qui vediamo cosa significa che in questo stesso “io” resta qualcosa di assolutamente inattaccabile, qualcosa che fa emergere tutto il desiderio della verità. All’improvviso i sintomi, come l’ansia, hanno fatto dire a quel ragazzo: «Voglio scoprire la verità». La coscienza di sé e la vibrazione della sua ragione sono venute a galla, non malgrado i sintomi, ma attraverso i sintomi. È l’apparire dei sintomi a scatenare la ricerca di una risposta. I sintomi possono essere guardati come un momento di chiusura oppure come una crepa, il farsi strada di un’apertura.
2.- Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno? Di che?
Che cosa dice il complesso di disagi cui assistiamo riguardo all’uomo? Come dicevamo, la prima sfida è comprenderne la natura. Se essi fossero sintomi dell’irriducibilità di ciò che siamo? Sembra un paradosso: in questo momento storico, una delle cose che in assoluto mi colpisce di più è che appaia, chiara come mai, l’irriducibilità della persona, proprio a causa dell’insopportabilità della situazione. L’emblema è Marracash: «Riempio il tempo e non colmo il vuoto»[10]. Non occorre avere chissà quale formazione culturale per arrivare a questa esperienza che tocca le viscere del vivere. Ma cos’è questa irriducibilità?
Scriveva don Giussani: «In questo momento di aberrazione suprema, […] proprio in questo tempo, il sentimento religioso emerge più potente che mai. Mai il senso religioso è stato così animosamente presente, rendendo irrequieto l’uomo di tutte le razze e di tutte le età, mai è stato così vivo come oggi: impreciso, confuso, terribilmente sconcertato, ma mai così potentemente presente nell’animo dell’uomo come oggi. […] Il senso religioso è quella irriducibile caratteristica del cuore umano, della natura ultima dell’uomo, per cui egli non può essere soddisfatto, compiuto, da niente che tu gli dia e gli offra – salvo l’illusione del momento –. L’uomo ha qualcosa per cui non riesce a “quadrare”, non riesce ad essere completo, perché l’uomo è rapporto con qualcosa di infinito: […] è per sua natura rapporto con qualcosa di incommensurabile con sé. […] È come se questo uomo avesse un destino strano. […] È per questo sentimento proprio del cuore dell’uomo, per questa irrequietezza irrisolvibile, segno di un destino più grande che neanche tutti i progetti delle sue opere; è per questo senso religioso, che si desta proprio mentre l’uomo sta per essere strozzato dal potere. […] Proprio in questo momento, l’uomo, sentendosi ribollire il cuore, non sa dove andare a parare, non sa leggere in questa inquietudine, non sa identificare il contenuto dello scopo, il traguardo a cui viene spinto, a che serve tutto questo»[11].
La difficoltà a leggere questa inquietudine non lascia esenti neanche noi, psichiatri, psicologi, educatori di ogni genere. Sono rimasto stupito da una considerazione di Hans Urs von Balthasar, il miglior teologo del Novecento, sulla psichiatria e la psicologia, che vi offro come contributo per una verifica nel dialogo tra noi, perché può aiutarci a capire come mai constatiamo che i tentativi psicoterapeutici sono insufficienti. «L’individuo solitario del nostro tempo […] è solo con se stesso, come con uno sconosciuto. Ciò che egli sa con certezza di questo sconosciuto è che egli è solo, che appartiene alla sua natura di essere solo [è la grande solitudine di cui parla oggi Taylor, mentre il testo di Balthasar risale agli Anni Cinquanta]»[12]. L’individuo, in questa solitudine, «può solo diventare nevrotico. E la psichiatria, la terapia nata simultaneamente con la malattia, è incapace di aiutarlo efficacemente». E aggiunge: «È perciò un’imperdonabile superficialità della psicologia rimandare semplicemente l’uomo di questa esperienza alla comunità. Ciò che egli vi incontra non è altro che individui simili a sé, sempre di nuovo lo stesso uomo solo e interrogante, che nella sua perplessità chiede informazioni agli altri perplessi. Il solitario odierno non fa che incontrare se stesso nell’altro. È più Narciso di quanto lo sia mai stato nella storia dell’umanità. Due solitari trovano sempre l’uno nell’altro la propria e inalienabile solitudine»[13].
Lo vediamo chiaramente in un altro fatto accaduto pochi giorni fa, che mi ha ricordato il bambino smarrito a Disneyland. Un’amica dottoressa mi ha raccontato del dialogo con una paziente, ricoverata in ospedale, che si sfogava con lei, dopo la telefonata di un parente: «Non sopporto più queste persone che mi chiamano cercando di attutire la drammaticità del momento [un io che incontra un altro io]. Mi sento dire che quello che mi è successo… succede! [Quante volte nella vita ci consoliamo così]. Ma io non ce la faccio più!». Pensiamo, mutilando l’uomo, cioè censurando certe ferite, di risolvere il problema attutendolo. Invece, è un tentativo insopportabile! Le persone si stufano di chi cerca di aiutarle senza capire la natura della questione. Ma questo tentativo può essere una grande risorsa, perché non decidiamo noi quale compagnia è all’altezza dell’esigenza che abbiamo, non ci bastano parole di consolazione che, anzi, incrementano solo la solitudine. La paziente lo diceva anche del marito: «È sceso il freddo in casa, perché io reagisco in modo diverso e, se parlo con lui, non ce la fa. Quindi, sto vivendo tutto questo da sola». Neanche il marito – esempio di solitario moderno –, è in grado di capire il dramma della sposa, che rimane nella sua solitudine. E aggiungeva: «Devo fare finta di essere forte e stare bene, ma la verità è che non trovo il senso di quello che mi sta succedendo. Mi dicono che non devo farmi domande, ma io le domande le ho, eccome! Perché mi è successo?». La cosa più impressionante è la conclusione: «Mi dicono che non c’è risposta. Ma io so che la risposta c’è! E ho bisogno di saperla».
Qui vediamo, documentato in modo impressionante, che la ragione è esigenza di comprendere l’esistenza. È l’esigenza di spiegazione adeguata, totale, dell’esistenza. «Se si vuole salvare la ragione – dice Giussani –, cioè se vogliamo essere coerenti con questa energia che ci definisce, se vogliamo non rinnegarla, il suo stesso dinamismo ci costringe ad affermare quella risposta esauriente al di là dell’orizzonte della nostra vita»[14]. Colpisce la certezza con cui la donna ribadisce, senza tentennamenti: «Io so che una risposta c’è». Perché lo sa? «La risposta c’è, perché grida attraverso le domande costitutive del nostro essere, ma non è misurabile dalla esperienza. C’è, ma non si sa cos’è»[15].
Non sempre è stato così difficile leggere l’«irrequietezza irrisolvibile», come la chiama Giussani. Giacomo Leopardi aveva colto tutti i disagi che troviamo nella nostra esperienza, ma per lui non erano sintomo di una patologia! Mi ha sempre colpito la sua percezione, profondamente diversa da quella solita, che rende ancora più urgente la domanda. Per lui, infatti, tutti i sintomi – la noia, l’insufficienza, la nullità, il vuoto o la mancanza – sono «il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana»[16]. Per Leopardi, quindi, mancamento, vuoto e noia, non sono sintomi di una patologia, ma spie della nostra grandezza. È la grandezza che ci costituisce a renderci capaci di sperimentare e riconoscere la noia, la mancanza e il vuoto! Chi non ha questa grandezza, come gli animali, non prova noia. Perché loro non si annoiano? Perché l’uomo è consapevole del suo limite, se non perché ha dentro di sé il desiderio dell’infinito? Lo diamo per scontato, mentre è l’unica cosa non scontata. Per questo grida dentro di noi! La grandezza è l’origine dei sintomi! Non potremmo mai sentire la noia, la mancanza, il vuoto, se non fossimo così grandi. «Natura umana, or come, se frale in tutto e vile, se polve ed ombra sei, tan’alto senti?»[17]. Lo stupore di Leopardi davanti a tanta grandezza commuove. «L’uomo desidera – dice nello Zibaldone – naturalmente e necessariamente sempre e in ogni caso, e un certo tempo, in ogni sua condizione di essere felice, di star bene, di star meglio che può, di star meglio che gli altri»[18]. Come lo studente di cui ho raccontato.
Questo stupore spinge Leopardi fin sulla soglia della scoperta dell’origine di quel desiderio d’infinito. Ma, forse, il salto è troppo vertiginoso, e lui si blocca. Il bloccarsi lo porta a considerare la sua incapacità di raggiungerlo come un’illusione dell’immaginazione. «La felicità – continua nello Zibaldone – non è altro che un’illusione della nostra immaginazione, la quale abbraccia sempre più di quello che può ottenere»[19]. È difficile non pensare a Shakespeare, nell’Amleto: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, [Leopardi!], che nella tua filosofia»[20]. Invece, una più acuta familiarità con l’umano porta sant’Agostino a riconoscere proprio in quella grandezza [di cui parla Leopardi] la dimostrazione di che cosa grida in essa. La riflessione sulla sua travagliata esperienza di vita lo ha reso un genio dell’umano e così ci indica la chiave per capire la natura dell’inquietudine. Sant’Agostino, rivolgendosi a Dio, esclama: «Tu mostri in modo abbastanza evidente la grandezza che hai voluto attribuire alla creatura razionale; perché, alla sua quiete beata non basta nulla che sia meno di Te»[21]. Per Agostino, l’unica spiegazione all’altezza della natura della grandezza dell’uomo è riconoscere Chi l’ha posta nella Sua creatura. Così «Dio mostra in modo abbastanza evidente», come dice sant’Agostino, l’origine di questa grandezza. Che liberazione rendersi conto della natura di questa nostra grandezza! Che non siamo fatti male, non siamo soli con la nostra grandezza, perché essa non potrebbe essere stata generata da una natura così «frale e in tutto vile». Perciò, «il nostro cuore sarà inquieto, insofferente, fin quando riposa in Te»[22]. Se non ci fosse questo “Tu”, la vita sarebbe insopportabile, come di fatto è insopportabile per la stragrande maggioranza delle persone. Riconoscere che c’è e che è l’origine del nostro essere è avere davanti la via d’uscita.
Agostino, diversamente da Leopardi, non si accontenta di stupirsi della propria grandezza, nemmeno di riconoscere la distanza siderale tra la grandezza e la fragilità della natura umana. L’esigenza della ragione lo spinge a cercare una spiegazione adeguata all’esistenza della nostra grandezza. Per lui, non è affatto scontato che questa grandezza ci sia. Proprio il non darla per ovvia, come facciamo noi di solito, lo spinge a cercare una ragione adeguata alla sua esistenza. Accorgersi di questa evidenza lo facilita a non bloccarsi, rende palese ai suoi occhi il riconoscimento che la grandezza dell’uomo è un dono e che occorre attribuire il dono a Chi lo fa. Questo riconoscimento lo libera dalla preoccupazione di dover immaginare chi compirà la grandezza, a differenza di Leopardi. Per Agostino è chiaro che, essendo così grande la natura umana, «alla sua quiete beata, non basta nulla che sia meno di Te». Tutto il resto è troppo poco! Ma – attenzione – questo non è solo sant’Agostino, è innanzitutto Gesù di Nazareth: «Quale vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà se stesso? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio di sé?»[23]. L’immagine dell’uomo che vibra in questa frase è una patologia o è la natura dell’uomo, che è così stupefacente da lasciarci senza parole di fronte al solo riconoscimento della nostra grandezza? L’“io” è questo rapporto con il Mistero che lo fa. Infatti, se non ci fosse Chi l’ha fatto, non esisterebbe nemmeno il desiderio, come scrive Teilhard de Chardin: «Sì, mio Dio, io credo, lo credo tanto più volentieri perché non è solo la mia tranquillità, ma il mio compimento. Sei Tu all’origine dell’impulso e alla fine di questa attrazione. Nella vita che nasce in me, in questa materia che mi sostiene, trovo qualcosa di ancora più bello dei tuoi doni? Trovo Te stesso. Tu che mi rendi partecipe del tuo essere, Tu che mi plasmi»[24]. Il desiderio ha la sua origine in Colui che ci ha creati, che ci crea e che ci attira costantemente, perché siamo stati fatti per essere attratti da Lui, per trovare in Lui il nostro compimento. «L’uomo appare così – dice san Bernardo – come un essere che aspira a essere qualcosa, che può essere realizzato solo dalla donazione di colui al quale il suo desiderio aspira»[25]. Così possiamo trovare risposta alle domande che spesso ci facciamo.
Perché abbiamo questo desiderio? Perché proviamo questa inquietudine profonda? Perché sentiamo questa noia? Qual è il suo scopo nella nostra vita? Dice Nicola Cabasilas: «In principio Dio ha creato la natura dell’uomo in vista dell’uomo nuovo [compiuto]: mente e desiderio sono stati forgiati in funzione di lui. Per conoscere il Cristo abbiamo ricevuto il pensiero, per correre verso di lui il desiderio, e la memoria per portarlo in noi; perché mentre eravamo plasmati era lui l’archetipo: infatti non il vecchio Adamo è modello del nuovo, ma il nuovo è il modello del vecchio»[26]. Per chi ha capito questo, inizia un’altra vita.
Un amico mi scrive: «Una mattina, appena mi sveglio, sento questo vuoto clamoroso e opprimente, più forte degli altri giorni e, proprio senza pensarci, mi dico: “Ma come mi manchi, Signore!”. In quel momento, mi ha stupito tantissimo, ho cominciato ad amare il mio vuoto, perché mi sono accorto che quel vuoto non era un vuoto, ma nascondeva la nostalgia infinita della compagnia». Spesso, fin dal risveglio, siamo ingombrati da tutte le preoccupazioni che affollano la nostra mente e possiamo essere determinati per l’intera giornata dalla pesantezza o dall’insofferenza che pervadono come una crosta la percezione di noi stessi. Per una persona che comincia ad avere questa familiarità con il proprio umano, l’insopportabilità diventa la grande risorsa per cercarLo, per mettersi in rapporto. Lo fanno i bambini! Appena aprono gli occhi, cercano il volto della persona amata. Questa è la vera natura della persona. Per i bambini è spontaneo, per gli adulti è un’impresa, perché dipende dalla loro libertà. È qui che entra in campo il compito educativo.
3.- Il compito dell’educazione
I nostri autori la chiamano «funzione di ponte»: il compito dell’educazione. «Oggi siamo sicuramente di fronte a un cambiamento che investe la famiglia, il lavoro, la società, la comunicazione. L’assenza di “schemi” utili fa sì che i giovani esperiscano un vuoto che genera angoscia e rabbia. Allora tocca a noi la “funzione di ponte”, dove la pazienza, l’ascolto, ma anche il corpo, possano essere “strumenti” per andare a riscoprire il fascino del dare significato alla realtà nei suoi aspetti di luce e d’ombra»[27]. Fanno un esempio molto semplice, ma sempre significativo, di quale potrebbe essere il nostro compito – non cercare di attutire, ma offrire un’ipotesi di lavoro affinché possano scoprire se stessi –, l’esempio della paura. La paura ha due possibili accezioni: da una parte il blocco, dall’altra lo slancio. La seconda la vediamo all’opera nel meccanismo di difesa, una risposta a una minaccia, come nel caso del bambino a Disneyland. «La paura – dicono –, letta in questa accezione, è quella che emerge quando ci allontaniamo troppo dalla nostra natura e ci ritroviamo in quella situazione di smarrimento, blocco ed esaurimento che si concatena alle manifestazioni ansiogene dettate, appunto, dalla paura. Ascoltando questo segnale potente, allora, sarà possibile andare a “stanare” il vero desiderio che è la base naturale dell’essere umano, e riconoscere le distorsioni alle quali siamo andati incontro con l’obiettivo di ritrovare quella traccia originaria che spegne la paura, perché parla del vero essere Io con l’Altro»[28].
La paura, come l’ansia, l’inquietudine, la percezione del vuoto, non sono da considerarsi inutili, né un ostacolo. Bisogna interpretarle correttamente come uno slancio, nel quale l’adulto gioca maggiormente la sua libertà. Se le guardiamo in questo modo, paura, ansia e mancanza possono diventare la risorsa che mette in moto il vero desiderio, la vera forza della ragione, come nel caso del bambino smarrito tra le giostre, che, spinto dalla paura, si mette alla ricerca dei genitori. Così come l’ansia è una spinta a cercare la verità per lo studente di cui raccontavo prima. In un successivo dialogo con lui, mi ha detto: «Voglio sapere la verità, perché quando mi parlano dei demoni mi agito, ma io voglio la pace!». Dopo averlo ascoltato, gli ho detto: «Se non ti conosci, ti lasci influenzare da ciò che ti dicono gli altri. Noi partiamo da ciò che tocchiamo, vediamo e riconosciamo nell’esperienza. Per esempio, tu ti rendi conto quando hai l’ansia?», e lui: «Sì». «L’ansia è qualcosa che puoi riconoscere. Cosa ti mette ansia? Perché desideri la pace? Vuoi intraprendere un percorso che ti permetta di verificare tutto ciò che ti viene detto? Se vuoi, possiamo farlo insieme». Lui era entusiasta, mi ha stupito la sua capacità di riconoscere il vero. Ha commentato: «Per la prima volta, qualcuno mi dice che posso arrivare alla risposta e riconoscerla nell’esperienza. Mi sono tranquillizzato, perché ho capito che non devo dipendere dagli altri per capire se è vero o no, ma posso riconoscerlo nell’esperienza attraverso la pace». Non appena gli viene proposta una strada, per scoprire la verità attraverso la sua esperienza, desidera farla.
Cosa può facilitare questo? La presenza di persone in grado di accompagnare il cammino. Altrimenti siamo dei solitari, impotenti, accanto ad altri solitari. Allora urge che ciascuno inizi veramente a chiedersi: «Ma io, che cosa sono?» La riduzione, spesso, è nella percezione che abbiamo di concepire, innanzitutto, noi stessi. Per questo, dice Giussani, «la novità della vita è in proporzione del maturarsi di questa coscienza di sé, di questo sentimento di sé, di questo sguardo e gusto di sé»[29]. È «l’autocoscienza» a rappresentare «la novità della vita», «uno sente la vita nuova quanto è più cosciente di sé»[30].
E se questa fosse la grande occasione – proprio questo momento storico, in cui si avverte tutta l’irriducibilità – per ritrovare coscienza di sé e cominciare a godersi veramente la vita? Di nuovo, Giussani: «Il problema capitale è quello di riaccendere la padronanza che la persona ha su se stessa»[31]. Di fronte a ciò che chiamiamo «un-impossibile-da-definire», la strada è segnata da questa esperienza. Giussani, nel dialogo con Giovanni Testori, ne Il senso della nascita, dice che è un’esperienza che avviene solo nell’incontro con una presenza: «Io non riesco a trovare un altro indice di speranza se non il moltiplicarsi di queste persone che siano presenze. Il moltiplicarsi di queste persone; e una inevitabile simpatia […] fra queste persone»[32]. Perché la ripresa della persona passa dall’imbattersi in una presenza diversa, non solitaria, che «può fare allora da reagente, da catalizzatore delle energie ormai latitanti»[33]. Per questo, «l’aspetto fondamentale di un contrattacco nella società di oggi» è che «la verità, che ha come suo luogo la mia persona, il mio stesso “io”, si rianimi, abbia veramente il coraggio del suo essere, del suo vivere; che si renda conto di se stessa»[34].
Il problema capitale è, dunque, la presenza di un “io” consistente, unito. E qui torna di nuovo Von Balthasar: «Finché Dio rimane escluso da questa antropologia, essa non può trovare soluzione del problema dell’uomo nell’incontro e nell’amore vicendevole tra gli uomini»[35]. Per questo, il metodo con cui Dio ha scelto di entrare nella storia è la sfida suprema alla mentalità e alla cultura moderne, che reputano – qui è la questione cruciale – «impossibile conoscere, cambiare se stessi e la realtà “solo” seguendo una persona [che abbia questa consistenza]. La persona, nella nostra epoca, non è contemplata come strumento di conoscenza e di cambiamento, essendo riduttivamente intesi, la prima [la ragione] come riflessione analitica e teorica e il secondo [la moralità] come prassi e applicazione di regole»[36]. «Invece – a questa mentalità Giussani contrappone Giovanni e Andrea – i primi due che si imbatterono in Gesù, proprio seguendo quella persona eccezionale hanno imparato a conoscere diversamente e a cambiare se stessi e la realtà. Dall’istante di quel primo incontro il metodo ha incominciato a svolgersi nel tempo»[37].
La sfida, quindi, è la generazione della persona attraverso uno sguardo che non riduca la sua natura ai fattori antecedenti. «La religiosità cristiana non sorge come gusto filosofico, ma dall’accanita insistenza di Gesù Cristo che vedeva nel rapporto col Padre l’unica possibilità di salvaguardare il valore della singola persona. La religiosità cristiana sorge come unica condizione dell’umano. La scelta dell’uomo è: o concepirsi libero da tutto l’universo e dipendente solo da Dio, oppure libero da Dio, e allora diventa schiavo di ogni circostanza»[38]. Solo il legame con la Sua presenza consente di riprendere consapevolezza del nesso con la realtà. L’alternativa è lo smarrimento, come per il bambino solo nel Disneyland del mondo, dove il reale diventa una minaccia e lui schiavo di ogni circostanza.
Grazie.
Cornaggia. Innanzitutto, ringrazio Julián. Mi sembra che la lezione che ci ha offerto sia stata essenziale, anche alla luce dei due giorni che abbiamo trascorso insieme. La lezione pone una questione centrale: dove sta l’ontologia e dove sta la patologia dinanzi al disagio attuale descritto. Io mi sento totalmente in linea con quello che Julián ha detto e vorrei qui solo sottolineare alcuni punti, per riproporli a lui in forma di contro-domanda. Io mi sono laureato in medicina alla fine degli anni Settanta e sono psichiatra dagli anni Ottanta ed oggi vedo un mondo e una patologia completamente diversi da quelli per cui ho studiato. Esiste un altro tipo di malessere, un altro tipo di disagio, che non solo è più diffuso, ma proprio diverso e credo che la ragione stia, almeno per buona parte, anche e proprio in quello che ha detto adesso Julián. Per fare il “matto”, quello vero, “quello di una volta”, bisogna avere un bell’“io”, costituito, bisogna avere un linguaggio, una capacità simbolica, una prospettiva relazionale, alterata, magari poco comprensibile, ma presente. Quindi, se oggi non abbiamo il “matto di una volta”, è anche questo un segno: è cambiata proprio tutta questa costituzione dell’”io” ed il suo rilancio relazionale, dove il sintomo è limite, sì, ma in termini di occasione. Accanto a questo mi sento di dire oggi, specie dopo avere sentito Julián, che dobbiamo ripensare a questo eccessivo ricorso alla “psicologia” od alla “malattia”.
Lo scrittore austriaco Ivan Illich[39] sarebbe stato molto contento nell’ascoltare quanto detto prima, in quanto egli descriveva come il ricorso a molte professionalità specifiche poteva corrispondere alla rinuncia alla propria abilità o responsabilità nell’entrare in relazione e di essere provocato dall’altro. Ieri si diceva come circa il 60% dei giovani, da una certa età in poi, vada occasionalmente o continuativamente dallo psicologo. Mi chiedo che cosa facciano gli psicologi con questo 60%, non perché ce l’abbia con loro, tutt’altro, ma mi chiedo quale operazione facciano ed a quali domande rispondano. Dovremmo chiederci non solo dove sta la norma e dove sta la patologia, ma anche dove sta la psicologia medesima. Cosa faccio io dinanzi al malessere? Come giudico questo malessere? in quanto io non sono lo stesso psichiatra che si è laureato e non faccio oggi le cose per cui ho studiato allora. Cosa faccio quindi ora e cosa devo fare? Come mi devo collocare? La mia contro-domanda a Julián è questa. Bellissimo il racconto del bimbo al Luna Park, che già in altre occasioni mi ricordo di avere sentito, tu dici che quando lui non vede più la mamma, tutto si trasforma, il parco divertimenti diventa un luogo di paura.
Carrón. Inospitale.
Cornaggia. Tu sostieni che è perché ha perso il «nesso», mi sembra tu abbia usato questa espressione. Per questo il sintomo non è un di meno ma l’espressione di una domanda. Ma a volte però abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a persone che quel nesso non l’hanno mai avuto e quindi non hanno mai avuto la possibilità o perlomeno hanno avuto una grande difficoltà di provare, sia l’ebbrezza di Disneyland, sia quell’oscuro terrore, senza quel nesso originario che il bambino, invece, ha vissuto e gli consente di avvicinarsi alla gioia e di avvertire la paura. La mia domanda è questa: accade che ci troviamo di fronte a bambini che questo nesso lo hanno talmente mal vissuto o non vissuto, per cui non sanno neppure esprimersi o distinguere ebrezza e paura. Cosa facciamo?
Carrón. Nella situazione che descrivi, che è quella attuale, tanti non hanno nemmeno un retroterra a cui riferirsi. Qual è l’unica speranza? L’imbattersi in una diversità umana che renda possibile che la realtà, da luogo inospitale, diventi una casa. È l’imbattersi in presenze che non abbiano paura dell’ansia, dello smarrimento: è lo sguardo di Gesù, che si trovava davanti a persone che erano come pecore senza pastore. Solo una diversità umana così può rendere possibile quel «nesso» che una persona non ha avuto nella vita, né sa che può esistere. Pur riconoscendo l’importanza di un lavoro di tipo psicologico, oggi più che mai occorre trovare persone che abbiano una tale modalità di vivere il reale che, incontrandole, chiunque possa essere introdotto al significato di tutto. Quindi, come si possono generare persone in grado di offrire non un discorso, una serie di regole, ma una presenza che renda possibile questa diversità nel vivere, che renda la realtà veramente “casa”? Io credo che il compito che abbiamo davanti sia questo. Lo può fare il professore, la mamma, lo psicologo, il prete, chiunque: la questione non è il mestiere, ma la generazione della persona, di un soggetto che si ponga come una presenza attraverso cui il bambino, il giovane, ma anche l’adulto, possa riconquistare il rapporto con la totalità della realtà. Questo è il metodo di Dio, in cui nessuno crede! Dio, per rispondere alla situazione del mondo, ha mandato Suo Figlio, spogliato di tutto, davanti a tutti. Non si è accontentato di rispondere parzialmente a un certo disagio o a un altro disagio… No, tutto quello che faceva e diceva era un gesto per introdurre al rapporto con il Mistero. Mi stupisce sempre che Gesù non è che non prenda sul serio la fame di chi ha davanti, ma, non appena vogliono farlo re, dice loro: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati.
Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà»[40]. Quando alza la posta in gioco, i più non vogliono saperne. E lui non lo risparmia neanche ai discepoli: «Volete andarvene anche voi?»[41]. Solo chi ha un’esperienza della convivenza con lui, ha ragioni per rimanere. Quindi, la vera questione è che, in questo nostro tempo, occorre ricominciare a generare persone che possano testimoniare, esattamente nelle circostanze di oggi, il suo stesso rapporto con il reale. Del resto, siamo ai tempi della «povertà evangelica», come la definì Giussani. Generare, questo è la sfida. Eppure, oggi questo viene facilmente catalogato come “autoreferenzialità”. Gesù, ponendo davanti a tutti una presenza umana così e sfidando quelli che incontrava, stava semplicemente rimandando a ciò che può veramente salvare la vita.
Quindi, occorre avere almeno la lucidità di riconoscere qual è la natura del dramma, non di attutirlo, accontentandoci di risposte che si sono già dimostrate fallimentari. Abbiamo davanti un’ipotesi diversa, che è quella che ha introdotto Dio con il Suo incarnarsi nella storia. Questo fatto dice qualcosa alla nostra situazione o è vecchio e datato, non corrisponde più alla sfida dei tempi? Perché, alla fine, il problema di fondo è questo, non il lavoro dello psicologo, dello psichiatra, del prete o dell’educatore. Qui si dibatte se questa ipotesi è da buttare nel cestino come inutile, o è ancora capace di generare un soggetto in grado di guardare in faccia il disagio del presente.
Cornaggia. Grazie! Quindi, mi sembra di poter concludere che tu non ritieni vi siano delle situazioni in cui questo “io” non sia evocabile?
Carrón. No!!
Cornaggia. Oh! Grazie!
Carrón. Non ci credo proprio! Perché non è nelle nostre mani ridurre l’uomo ai fattori antecedenti!
Cornaggia. Certo.
Carrón. Perché? Perché questo tentativo è stato fatto nella storia milioni di volte! Si è cercato di annichilire l’uomo, “educandolo”, programmando la sua vita dalla culla alla tomba, ma è stato tutto fallimentare. Perché, per cancellare questo “io”, occorre ammazzarlo! Lo puoi sottomettere, e la persona può accettare la sottomissione, ma al prezzo di non coincidere mai con se stessa. Per questo, non c’è alternativa al potere se non nella potenza dell’“io”. Perché non si fa da sé! Non è riducibile neanche dalla persona stessa! Ci troviamo davanti a una alterità – la nostra propria natura – che nemmeno noi stessi possiamo manipolare. Possiamo guardare tutti i sintomi per il solo fatto che siamo irriducibili a essi. E questo fatto “grida” più di qualsiasi tentativo di ridurlo. Fuori da questo, meglio gettare la spugna: chiudiamo la porta e andiamo via, perché non c’è nessuna speranza. Ma io non ci credo. Pensate a tutti i casi con cui vi confrontate, ognuno nel proprio ambito lavorativo: ci sono persone che rinascono, dentro qualsiasi situazione, e riemergono in tutta la loro capacità di coscienza. Ce ne fosse anche solo una, vorrebbe dire che c’è speranza. Quindi, siccome vediamo che accade, la questione è il lungo cammino da fare per vivere il compito educativo, a cui tutti siamo chiamati. Il punto è che possiamo trovarci in una situazione – a scuola come nello studio psichiatrico – ed essere già sconfitti, prima ancora di cominciare, perché abbiamo ridotto la persona ai suoi fattori antecedenti. Siamo già bloccati, mentalmente bloccati! Ma non sarà mai l’ultima parola: né la riduzione dello psichiatra, né la riduzione del paziente. Mi pare che si giochi qui una partita culturale di primo livello: se la persona è irriducibile o non è irriducibile. Dilemma che non si può risolvere in nessun modo, se non riconoscendolo nell’esperienza del vivere: quando ti trovi davanti uno, tra centomila, che dice “io”, è la documentazione che è possibile. Qualsiasi riduzione non può dare ragione di questo uno!
Cornaggia. Grazie per quel «no!» fissato così ad alta voce. Perché credo ci sia, se non fosse così, davvero il rischio di produrre un altro riduzionismo, al pari del riduzionismo della psichiatria del Novecento, esattamente uguale. Anzi, più violento.
Carrón. Peggio, peggio! Per questo dico che è decisiva una lealtà con l’esperienza. Basta trovarne uno per dire che è possibile, anche se tutti gli altri fossero sottomessi o guardati in modo ridotto, da loro stessi e dai contemporanei. Ma ne basta uno per dire che c’è l’uomo: uno, come direbbe Cormac McCarthy, che «porta il fuoco»[42].
[1] Cfr. C.M. Cornaggia, G. Maspero, F. Peroni, Ansia e idolatria, Inschibboleth, Roma 2024.
[2] Cornaggia-Peroni, «Le nuove realtà tra paura, ansia e speranza», in Nuova Atlantide, n. 13/2024.
[3] H. Arendt, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, p. 229.
[4] C. Taylor, Questioni di senso nell’età secolare, Mimesis, p. 34.
[5] M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Cortina Editore, Milano 1996, p. 84.
[6] C. Taylor, Questioni di senso nell’età secolare, Mimesis, p. 34.
[7] Cornaggia-Peroni, «Le nuove realtà tra paura, ansia e speranza», in Nuova Atlantide, n. 13/2024, p. 15.
[8] L. Giussani, Il senso religioso, BUR Rizzoli, Milano 2023, p. 139.
[9] L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 48.
[10] Marracash, Tutto questo niente – Gli occhi, in Persona, 2019.
[11] L. Giussani, «Rendere presente Cristo nella nostra carne, in ogni ambiente, in ogni realtà umana», in Litterae Communionis-Tracce, 3/2006, pp. 3-4.
[12] H.U. Von Balthasar, «Parola e parola trascendente», in La domanda di Dio dell’uomo contemporaneo, Brescia, Queriniana, 2013, p. 127.
[13]Ibidem.
[14] L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 162.
[15] Ibidem.
[16] G. Leopardi, Pensieri, LXVIII.
[17] G. Leopardi, «Sopra il ritratto di una bella donna…», in Cara beltà, BUR, Milano 1996, p. 97.
[18] G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 12 luglio 1820.
[19] Ivi, 18 ottobre 1821.
[20] W. Shakespeare, Amleto, atto I, scena V.
[21] Sant’Agostino, Confessioni, Libro XIII, 8,9.
[22] Sant’Agostino, Confessioni Libro I, 1.
[23] Mt 16, 24-26.
[24] P. Teilhard de Chardin, El medio divino. Ensayo de vida interior, Madrid, 2000, pp. 48-50.
[25] San Bernardo, Sermoni sui Cantici, 84, 1.
[26] N. Cabasilas, La vita in Cristo, lib. VI, cap. X; lib. VII, cap. IV, passim.
[27] Cornaggia-Peroni, «Le nuove realtà…», op. cit., p. 18.
[28] Ibidem.
[29] L. Giussani, appunti da un intervento agli Esercizi spirituali degli universitari di CL (Riva del Garda, 5 dicembre 1976); in J. Carrón, «Nessun dono di grazia più vi manca», allegato a Tracce, n. 9/2021, p. 9.
[30] Ivi, p. 12.
[31] L. Giussani – G. Testori, Il senso della nascita, BUR Rizzoli, Milano 2023, p. 78.
[32] Ivi, p. 82.
[33] Ivi, p. 86.
[34] Ivi, p. 87.
[35] H.U. Von Balthasar, «Parola e parola…», op. cit., pp. 139.
[36] L. Giussani, «Dalla fede il metodo», Litterae Communionis-Tracce, 2/1994, p. II.
[37] L. Giussani, «Dalla fede il metodo», in Litterae Communionis-Tracce, 2/1994, pp. II-III.
[38] L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2011, p. 108.
[39] I. Illich I. Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti, Erickson, 2021
[40] Gv 6, 26-27.
[41] Gv 6, 67.
[42] Cfr. C. McCarthy, La strada.
- Appunti non rivisti dall’autore
- Questo testo riporta un intervento il 30 marzo 2025, Seveso (Mi).