La redenzione dell’uomo inizia sempre dal suo cuore
Nel suo libro lei ha parlato di questa confusione tra l’appartenenza a Cristo e l’appartenenza nazionale. Riguardo la posizione della Chiesa ortodossa, ha parole dure. Cito testualmente “anche se può sembrare un giudizio molto forte, penso che senza la Chiesa il progetto imperiale di Putin non sarebbe stato possibile, la Chiesa gli ha fornito una concezione, gli ha offerto il linguaggio, gli ha ispirato questa megalomania”
In realtà non sono parole mie, ma di un teologo ortodosso che, per altro, condivido pienamente nella loro sostanza, perché si tratta di capire che quello in atto non è uno scontro tra Occidente e Oriente, non è uno scontro tra un mondo cattolico che ormai (come dicono Putin e il Patriarca Kirill) avrebbe dimenticato o tradito il significato del cristianesimo e un mondo orientale che lo avrebbe conservato: non è questo. A chi sostiene l’ideologia del Russkij mir va posta una questione più essenziale (ed è importante che lo abbiano fatto gli stessi ortodossi, come il teologo che citavo): ma in quale Cristo tu credi? E in quale Chiesa tu credi? Qui, appunto, abbiamo una Chiesa che si fa strumento del potere, che diventa un dicastero statale. Perché questo è il problema o la Chiesa mi rimanda a Cristo oppure diventa un’associazione come tante altre, e anche peggio di tante altre, per la sua pretesa di parlare in nome di Dio senza più fare i conti con Cristo.
La religione degenerata in eresia diventa così uno dei motivi della guerra, ma allora la religione è solo una parte in più del problema o può essere ancora una parte della soluzione? Non è in questo senso che subito dopo la rivoluzione del 1917 Nikolaj Berdjaev aveva detto che “il vero rinascimento ecclesiale può venire solo dal di dentro. Il movimento religioso veramente creativo inizia solo quando le persone entrano più profondamente in se stesse e smettono di vivere superficialmente” (Russia 1917, il sogno infranto di un mondo mai visto”)
Berdjaev aveva colto il nucleo centrale della questione, che è la persona, la rinascita della persona: o il cristianesimo è per la rinascita della persona, per la redenzione dell’uomo, che inizia sempre dal suo cuore, dalle profondità del cuore, oppure rischia ogni volta di diventare una struttura di potere. Come si diceva prima, non bisogna confondere la vocazione alla santità (la santa Russia), con la pretesa di grandezza (la grande Russia), perché se si cede a questa confusione si entra in un vortice non solo distruttivo e omicida, ma anche autodistruttivo, davvero suicida. Nonostante tutta la sua ostentazione di potenza, la grande Russia in questi mesi si è cancellata; anche su questo dobbiamo essere chiari: l’Ucraina viene distrutta, e viene distrutta fisicamente, come stiamo vedendo in questi mesi, con un attacco veramente crudele e senza tregua, ma non è che la Russia ci stia guadagnando: si sta distruggendo a sua volta; Putin ha negato che esistesse una lingua ucraina, ma in questo modo ha finito anche col distruggere la lingua russa: quanti scrittori russi in questi mesi hanno detto che bisogna di nuovo restituire alla vera Russia una lingua degna, perché la nostra lingua, hanno detto, è diventata la lingua degli assassini, perché la nostra lingua non era così volgare. E qui bisognerebbe proprio fare un’analisi della volgarità che caratterizza la lingua di Putin e della sua congrega; qualche studioso lo ha fatto con risultati molto convincenti, confrontando esattamente la lingua dei rappresentanti del potere con quella della malavita e verificando nei fatti questo scadimento, questa distruzione di un mezzo di comunicazione fondamentale come è la lingua, cui corrisponde poi la distruzione della società civile.
«Non è vero che la Russia oggi non si oppone alla guerra»
Ma questa non è la Russia autentica, ne esiste un’altra, che va in profondità e si ricostruisce a partire dal cuore dell’uomo e dalla sua coscienza. Da noi spesso si dice che la Russia oggi non si oppone alla guerra, che la Russia oggi è appiattita sulle posizioni del suo governo, che sono tutti d’accordo con quello che questo governo sta facendo; certo, se si parla solo dei grandi numeri, questo è vero, ma non è vero, non è assolutamente vero se si guardano le cose con più attenzione; allora si capisce che questa idea è invece solo parte di una propaganda che viene alimentata anche da alcune fonti di informazione in Occidente, che si fermano alla superficie e vedono l’opposizione solo quando diventa clamorosa, dimenticando tanti piccoli gesti di resistenza, che possono non essere notati, ma che non sono meno importanti, a dispetto di quello che si vede quando si parla solo dei numeri.
Proprio in questi mesi, è uscita in Italia un’intervista alla moglie di Vladimir Kará-Murzá, un dissidente che è appena stato condannato a 25 anni di galera con l’accusa di avere offeso lo Stato russo: un episodio clamoroso che giustamente è stato notato e ha fatto scandalo, ma proprio in questa intervista (invece di lamentarsi del silenzio della maggioranza) la moglie ricorda che, subito dopo l’invasione di Praga, il 25 agosto del 1968, sulla Piazza Rossa, ci fu una manifestazione cui presero parte solo 8 persone: allora nessuno quasi li notò, eppure oggi sappiamo che quella fu una pietra miliare nella storia che poi ha portato alla fine del regime; ebbene, oggi in Russia ci sono almeno 20.000 procedimenti (tra penali e amministrativi) contro persone che si sono opposte in varie maniere alla guerra. Cosa diciamo quando ci lamentiamo dicendo che la Russia oggi non resiste? Certo, 20.000 persone su 140 milioni sono poche, ma erano anche meno 8 su 200 milioni; e, come quasi non vedevamo quei quattro (8) gatti che protestavano contro l’invasione della Cecoslovacchia, adesso non vediamo tante altre cose: il problema non è che non ci sarebbe un’altra Russia; un’altra Russia c’è, ma noi non la vediamo finché non va in galera o non comincia a essere perseguitata, magari come è successo a qualche sacerdote che non pregava per la vittoria ma per la pace.
“La profezia della pace non è una fantasia”
Queste persone sono la speranza per la Russia?
Certo che sono la speranza per la Russia. Sono persone di cui dobbiamo conoscere l’esistenza e che dobbiamo ricordare perché ci fanno vedere sin dall’inizio che, in qualsiasi condizione e in qualsiasi situazione, l’uomo può sempre restare uomo, nelle maniere più diverse. E non dico questo per rifugiarmi nel sentimentalismo in mancanza di azioni concrete, per fare una bella predica frutto della fantasia, mentre la storia reale va da un’altra parte. Quando il Papa parla della profezia della pace non sta facendo una bella predica, non sta sostituendo alla realtà una fantasia: sta parlando alla luce della speranza cristiana, che non è chiudere gli occhi sulle tragedie che stanno accadendo, non è come qualcuno faceva ai tempi del Covid, quando diceva che non stava succedendo niente o che comunque tutto sarebbe andato bene: non è andato tutto bene, molta gente è morta, molti hanno sofferto e molti hanno sofferto per gli amici o i parenti che sono morti; e a questa gente, come a chi sta soffrendo per questa guerra, non puoi rispondere con una bella predica o con l’invito a una speranza generica: bisogna dare delle ragioni per sperare e per vincere lo scoramento o l’odio che questa tragedia sta generando. E noi abbiamo delle ragioni per intraprendere questa strada, ragioni che non sono frutto di belle fantasie edificanti, ma della storia, di esperienze vissute che dovremmo ricordare.
Per dare un’idea di quello che sto dicendo, di cosa sia la rinascita di cui sto parlando, voglio farvi un esempio che parte dalla storia di un autore che abbiamo già ricordato: Nikolaj Berdjaev. Siamo nel 1923; Berdjaev è appena stato espulso dalla Russia, con un decreto che prevede la pena di morte immediata nel caso in cui tenti di tornare in patria o venga catturato da qualche agente sovietico. A questo punto, in un testo poi diventato famoso, Un nuovo Medio Evo, Berdjaev dice che se la Russia è quello che è, è perché lui è quello che è. Deve essere chiaro, Berdjaev non sta negando la tragedia di cui lui stesso è in parte vittima e non sta neppure diminuendo le colpe del bolscevismo o del totalitarismo sovietico col quale continuerà a lottare per tutta vita, sa benissimo chi sono i carnefici e chi sono le vittime, e però, nello stesso tempo, dice che questo non gli basta per vivere e per ridare vita e speranza alla Russia che è stata distrutta: la sua vita e la sua speranza, come quelle della sua patria perduta, nascono da questo primo passo di riconoscimento della propria responsabilità.
Senza pretese di andare a insegnare niente a nessuno, con la coscienza chiara che ci sono differenze abissali tra chi ha colpe e chi ha responsabilità, noi possiamo e dobbiamo riprendere questo percorso di presa di coscienza. Da qui può nascere una vera speranza e una speranza veramente efficace: se mi rendo conto delle mie responsabilità, mi rendo conto di almeno tre cose: che, per quanto sia debole e piccolo, io posso fare qualcosa per vincere il male, come ho fatto qualcosa per non impedirlo, e sono io che posso farlo senza pretendere che prima lo facciano altri; inoltre, se la responsabilità di quello che accade è sempre anche mia (certo in maniere e forme di diverse, con responsabilità più o meno grandi), da una parte capisco di avere bisogno di essere perdonato per il male che ho compiuto e dall’altra capisco che, se so di dovere e poter essere perdonato, è possibile cambiare.
Legge qui la prima parte dell´intervista
Alla fine del libro c’è proprio un riferimento al perdono. Senza perdono è possibile la pace?
Questa è la grande sfida di cui bisogna veramente capire la grandezza e il rischio. Che cosa vuol dire perdonare? Significa, come dicevo prima, dire che non è successo niente? Dire che andrà tutto bene? Non è questo il perdono cui dobbiamo tendere; e comunque non potremmo certo pretenderlo da chi in questo momento si trova bombardato ogni giorno, come succede agli ucraini; e neppure potremmo pretenderlo da chi in questo momento è costretto a lasciare il proprio paese; perché anche questa è un’altra cosa che, nel gioco della propaganda, non viene raccontata e che invece andrebbe detta a proposito della Russia: se tanti rischiano di andare in galera, infinitamente di più sono quelli che abbandonano la Russia (qualcuno, forse esagerando, parla di centinaia di migliaia di persone, che comunque sono pur sempre tanti); è la parte più viva e più creativa della Russia che la lascia non tanto perché non vuole andare a combattere, ma perché non può vivere in queste condizioni di falsità e di oppressione, e allora vengono via lasciando tutto, dalla casa al lavoro, come la ex decana della facoltà di giornalismo dell’università di Mosca, l’ex direttore amministrativo di una grande università sempre moscovita, giornalisti, giovani esperti nell’uso dei computer… Qui non si possono avanzare pretese e fare discorsi moralistici, ma si possono raccontare esperienze e cercare di capirne il significato.
È quello che cerco di fare nel mio libro, raccontando la storia di Semën Frank, un collega e amico di Berdjaev che, come Berdjaev, viene espulso dalla Russia sovietica. È un ebreo, ex marxista, che si converte al cristianesimo e abbandona il marxismo in cui aveva creduto da giovane; come tale diventa odioso per il nuovo potere comunista. Allora si stabilisce a Berlino, ma poi, ad un certo punto, come sappiamo, a Berlino prendono il potere i nazisti e lui si trasferisce di nuovo, diventa ancora una volta un esule e, dalla metà degli anni trenta, fa tutta la guerra braccato dai bolscevichi, che lo avevano condannato a morte in contumacia, e braccato dai nazisti, per i quali, anche se era diventato cristiano, restava pur sempre un ebreo. Questo è l’uomo. Nel suo diario, nel 1942, quando le sorti della guerra non sono ancora decise perché la battaglia di Stalingrado non è ancora finita, si chiede chi avrebbe vinto la guerra e si dà lui stesso la risposta: “quello che saprà cominciare a perdonare per primo”. Di fronte a questa storia noi non dobbiamo idealizzare niente: semplicemente abbiamo l’esperienza di gente che ha perdonato e rispetto alla quale dobbiamo capire che cosa vuol dire questo perdono e perché per loro perdonare non significava cancellare quello che era successo.
“Se riconosco il bisogno che ho di essere perdonato allora comincio a capire che forse posso perdonare gli altri”
Ancora una volta, invece di fare prediche o discorsi astratti, vale di più raccontare un’altra storia reale: nel 2022 abbiamo presentato al meeting di Rimini una mostra ricavata dal lavoro fatto da Memorial (l’associazione nata nel 1989 per ricordare le violazioni dei diritti umani consumate negli anni del regime sovietico e ancora presenti oggi, che poi ha avuto il premo Nobel per la pace proprio nel 2022).
La mostra aveva due parti, una dedicata alle lettere che i genitori scrivevano ai figli e alle famiglie dai lager; la seconda, sull’universo femminile nei lager, sui piccoli oggetti (ricami, disegni, pupazzetti), che le madri in lager confezionavano per i figli. I lavoretti manuali che queste donne facevano sono impressionanti: si costruivano una borsettina, ma non si accontentavano del fatto che fosse utile, in più la ricamavano; pensiamo a cosa vuol dire ricamare una borsettina in un campo di concentramento, dove non sai se riesci a mangiare alla sera e perdi tempo per fare una cosa inutile come ricamare e per cercare il filo colorato per farlo: vuol dire affermare l’irriducibilità dell’umano, nonostante tutto e nonostante tutto il male che veniva consumato nei campi. La mostra si concludeva con la classica domanda: “ma si può perdonare?” “si può conciliare la giustizia con la misericordia?”
Una di queste donne, Evgenija Ginzburg, che si era fatta 20 anni di campo di concentramento semplicemente perché era moglie di un uomo che era stato dichiarato nemico del popolo, dice che dopo questi 20 anni poteva ben avere mille ragioni per dire chi erano gli assassini e per condannarli, ma questo non le sarebbe bastato, non le bastava, perché ogni volta si chiedeva piuttosto che cosa avesse fatto in tutte le occasioni in cui arrestavano qualcuno che conosceva e lei, pur sapendo che non era un nemico del popolo, non l’aveva gridato, non aveva gridato la sua innocenza. È chiaro che la sua responsabilità per il fatto di non avere denunciato la menzogna era inferiore rispetto a quella di chi uccideva e però si rendeva conto che il fatto di non essersi opposta chiaramente alla menzogna era già qualche cosa che la rendeva responsabile: non certo colpevole o responsabile nella stessa misura in cui lo erano i carnefici, ma pur sempre responsabile per il fatto di essere venuta meno al suo dovere di solidarietà con un perseguitato, al suo dovere di dire la verità, alla sua umanità. Ecco questo è l’inizio del perdono perché, come dicevo prima, se io sono venuto meno al mio dovere di umanità è evidente che ho bisogno di perdono. Ma se riconosco questo, cioè se riconosco il bisogno che ho di essere perdonato, allora comincio a capire che forse io stesso posso perdonare gli altri e qui inizia una storia completamente nuova, comincia a crearsi un’atmosfera completamente nuova, che non significa dire che non era successo niente o che, magari, anche il carnefice aveva le sue ragioni, ma che tutti abbiamo bisogno di perdono… Il cristianesimo non è la religione dei perfetti e dei puri.
Ma di chi ha bisogno…
Ovvio. È una eresia immaginarsi un mondo perfetto, migliore di quello fatto da Dio; con l’idea che alla fine della fiera sta sotto questa presunzione, e cioè la pretesa di essere dio e che, se l’avessi fatto io, il mondo sarebbe stato migliore.
ADRIANO DELL´ASTA
“La «pace russa». La teologia politica di Putin”
Scholé. 144 pagine. 12 €
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