“Il nichilismo è positivo: radicalizza la pretesa cristiana”

Entrevistas · Fernando de Haro
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20 enero 2022
Intervista Pigi Banna, professore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore

Grazie ai suoi studi patristici lei conosce bene i primi secoli della nostra era, quando il paganesimo e il cristianesimo convissero. Ci sono parallelismi tra il momento culturale attuale e il II secolo?

Sì, ci sono parallelismi ma anche grosse differenze. La prima grossa differenza è il fatto che la nostra cultura è ormai segnata dalla tradizione cristiana. Anche coloro che ignorano la fede o l’hanno consapevolmente rifiutata fanno parte di un modo di dire la realtà, di esprimere le cose e di esprimere anche se stessi che è in qualche modo segnato dalla tradizione cristiana. Mentre in qualche modo il cristianesimo si diffondeva all’inizio in una cultura in cui era del tutto estraneo, o era comunque avvertito come un’eresia proveniente dal giudaismo, quindi da una cultura minoritaria dell’Impero Romano.

Questa è la prima grande differenza che dobbiamo tenere sempre presente. Però, ci sono alcune caratteristiche che accomunano il cristianesimo attuale alla situazione originaria, più che a altre stagioni del cristianesimo, più che a altre epoche che il cristianesimo ha vissuto. In particolare il fatto di essere in minoranza, il fatto di dover dimostrare l’universalità del proprio messaggio davanti ad altre culture e religioni. Un altro particolare che sta assumendo sempre più rilievo è il dover rendere ragione di chi è Gesù, di chi è stato quest’uomo per la storia dell’umanità. Queste tre caratteristiche direi che rendono simili le due epoche.

C’è uno studioso, E. R. Doss, che caratterizza il momento del II secolo come un momento di angoscia, timore, paura. Curiosamente, allora come oggi c’è un’esplosione post-secolare. Molti guardano alle religioni asiatiche, misteriche come a una soluzione, riappare questa ricerca religiosa.

Questo è un aspetto che accomuna tutte le epoche di passaggio. Le epoche di passaggio, di mutamento storico, come fu l’Età assiale, portano a una riformulazione del rapporto tra sapienza, religione, filosofia e fanno porre il problema della morte, del fine, del limite, in maniera sensibile per l’umanità.

Ecco, noi sicuramente ci troviamo in un’epoca di queste e ancora non riusciamo bene a definirne i contorni, perché di solito è quando finisce un’epoca di questo tipo che riesci comunque a dare delle definizioni. Cosa accomuna però in qualche modo quell’epoca iniziale a questa attuale in cui viviamo? Il fatto che il modo di vivere il limite, la morte e il modo di dire il male è sempre meno segnato dalla fede cristiana. Ci sono modi di dire il male, il limite, la morte, che sono più simili per certi versi alla cultura greca e romana che non a quella cristiana. Sono termini, come dicevo prima, cristiani, ma il modo in cui li si esprime è quello di una mentalità sempre più, si può dire, pagana.

Il film più commentato dell’ultima settimana, Don’t look up, ritrae una serie di personaggi che davanti alla realtà vivono una sorta di nichilismo passivo. Si può dire che questo nichilismo passivo definisca il momento?

In qualche modo il nichilismo passivo, se lo possiamo chiamare così, non un nichilismo filosofico, attivo, è un atteggiamento che da una parte accoglie – per riprendere la tua domanda di prima, l’alternativa che le filosofie orientali pongono alla cultura occidentale -per cui in fondo il compito dell’uomo, la saggezza dell’uomo sta nel saper rinunciare alla propria pretesa di senso. Lo fanno naturalmente in un modo non così teorico, non così sofisticato. Questo nichilismo passivo assume il portato di questa mentalità orientale in un modo più soft, attraverso messaggi morali che passano più in sordina.

Però, dall’altra parte, il fatto che l’occidente abbia colto questa provocazione dice anche di una radicalità, di una profondità culturale. Perché, come dicevo prima, l’occidente è comunque segnato dalla storia cristiana, dalla pretesa cristiana, e quindi, dopo aver visto il crollo delle ideologie e di questi sistemi filo-cristiani ma post-cristiani, la questione diventa radicale. O riaccade una presenza tale come quella che Cristo ha preteso di essere, o altrimenti la vera alternativa è il nulla. Questo nichilismo passivo ha saputo accogliere la prospettiva orientale perché vive di una sua profonda radicalità, che si esprime per esempio anche nelle domande con cui i ragazzi, con gesti estremi, sfidano e scandalizzano gli adulti. Ora, di fronte a queste domande, il cristianesimo deve mostrare la sua capacità di saper dare una risposta altrettanto radicale: è in grado di offrire una risposta presente e realmente alternativa al nulla?

Dunque, c’è un aspetto positivo di questo nichilismo?

Assolutamente sì, nella misura in cui radicalizza da una parte la pretesa cristiana, e dall’altra la controffensiva della modernità.

Lei ha parlato anche di questa mutazione delle parole cristiane che si usano ma non hanno un contenuto. Anche questo processo di secolarizzazione può essere utile?

Sì, indubbiamente può essere utile il processo di secolarizzazione nella misura in cui spinge anzitutto i cristiani, o chi si dice cristiano, chi dice di vivere la fede, a riprendere coscienza delle parole che usa. Le parole che un cristiano usa hanno un forte radicamento non solo nella Scrittura ma in tutta la tradizione della Chiesa, e quanto mai oggi i cristiani devono saper ripercorrere nella propria breve vita il lungo percorso che ha portato alla formulazione di queste parole. Dall’altra parte, deve spingere chi dice di essere laico o non cristiano a capire perché usano certe parole che sono segnate da una concezione completamente cristiana. Quando noi parliamo di fede, di religione, di filosofia, non lo facciamo nel modo di un greco o di un buddista. Lo facciamo, anche se siamo laici, in occidente, al modo di un cristiano.

Il grande teologo Daniélou, che ha ricordato in un suo articolo, fa notare che in un contesto pagano i cristiani si dedicavano ad «assumere, purificare e elevare» la cultura che avevano intorno. Possiamo imparare oggi da quell’atteggiamento?

Daniélou coglieva questo atteggiamento come un riflesso di ciò che Cristo ha compiuto con la carne di ogni uomo: Lui ha assunto la carne, l’ha salvata dal peccato, e l’ha portata con sé in cielo. Questo mistero della fede Daniélou lo coglieva ripresentato nella vita della Chiesa sin dal primo incontro con la cultura che non era propria del cristianesimo, cioè con la cultura greco-romana. Questo diventa secondo me la dinamica con cui ogni cristiano di ogni tempo da una parte comprende cosa Cristo ha fatto con la propria umanità, con la propria vita. Dall’altra parte nell’incontro con l’altro vede come Cristo è in grado di rispondere, di valorizzare, di portare a compimento ogni anelito di verità, di bellezza e di giustizia che è presente in ogni uomo.

In un suo articolo ricordava un’affermazione, falsamente attribuita a Sant’Agostino, pur essendo contenuta nella sua opera: «Anche i Gentili hanno i profeti». Dove sono ora i profeti dei nuovi Gentili?

Questa è una domanda trabocchetto. Perché non ci sono profeti tendenzialmente tra i Gentili, o meglio, ogni cristiano è chiamato a riconoscere nell’altro una profezia. Se Dio non ha messo fine a questo mondo e continua a permettere anche il rifiuto della fede, per il cristiano questo non è solo una contraddizione, ma è anche un’occasione per approfondire la propria fede.

In questo senso ogni uomo che si incontra porta in sé una profezia. È questo il senso in cui per i primi cristiani in qualche modo esisteva una profezia tra i pagani, cioè riconoscere nell’altro che non è cristiano una provocazione ad approfondire, a verificare, a riscoprire e annunciare la propria fede. Questo è la profezia contenuta in ognuno.

Alcuni sostengono che in questo momento così difficile, l’unico modo per rimanere cristiani nel XXI secolo, sia abbandonare un mondo infestato da idee e atteggiamenti avversi e ritirarsi ai margini della società, fondando piccole comunità. È questa la soluzione?

Farei questa intervista solo per questa domanda.  Questa potrebbe essere la soluzione, e di fatto giù lo è. Di fatto molti cristiani che erano anche molto progressisti nel post-concilio stanno accorgendosi di non essere maggioranza, di non poter avere il controllo culturale. E si rivela che in fondo un certo aperturismo post-conciliare aveva ancora come finalità la societas christiana. Di fronte a questa sconfitta la reazione, che io avverto anche in dei gruppi giovanili, di destra e di sinistra, è quella di chiudersi. È una reazione puramente umana: lo stato di assedio porta a una progressiva identificazione per opporsi rispetto agli altri che sono una maggioranza avvertita come minacciosa. Ma questa è una dinamica che avviene non soltanto come di solito i pensa nella destra della Chiesa, ma anche nella sinistra.

Da un punto di vista pratico questa opzione ha vinto, e penso che molte parti della Chiesa occidentale andranno in questa direzione. Però, dall’altra parte, proprio la storia della Chiesa occidentale è segnata da movimenti, che nella fede riconosciamo provenienti dallo spirito, che rompono questa dinamica di ripiegamento su di sé. E sono movimenti che hanno in qualche modo colto nel fallimento di certi mezzi, nel fallimento di certe modalità di evangelizzazione, una provocazione ad una nuova conversione, ad una nuova riscoperta, e quindi a un nuovo annuncio della stessa fede.

Io penso in particolare a ciò che è accaduto tra il VII e il IX secolo in Europa. Non avevamo personalità come Ambrogio, come Agostino, come Ilario, o anche come Leone Magno. Abbiamo figure da un certo punto di vista minori, dal punto di vista dell’elaborazione di nuovi contenuti teologici, ma in grado di entrare realmente in dialogo con le culture romano-barbariche. Penso a Isidoro di Siviglia, più avanti in Inghilterra Beda il Venerabile, Gregorio Magno in Italia, amico tra l’altro di Leandro, fratello di Isidoro. Questi uomini prendono il meglio di Agostino, il meglio di Ambrogio, e trovano il modo di consegnarlo ai barbari. Ma non fanno solo questo, come a dire “faccio la selezione per gli ignoranti”, ma danno anche a questi barbari le categorie per leggersi. Scrivono storie dei Visigoti, scrivono un’enciclopedia, Isidoro, in cui mette dall’aratro per i campi alla Trinità: spiega tutta la realtà. Questa è la forza secondo me del cristianesimo, soprattutto occidentale, che comprende nei movimenti della storia una provocazione dello Spirito a riscoprire l’origine.

E secondo me anche in questa epoca non mancheranno profeti di questo tipo; non mancheranno, davanti a un progressivo chiudersi a destra e a sinistra, aperture in questo senso.

Ma questa sensazione di essere in assedio alla fine rivela una certa comprensione della fede?

Non mi sento di giudicare queste persone. Potremmo chiamarla una certa comprensione della fede, sì, un ripiegamento istituzionale della fede, o potremmo dire, ma con termini già passati, un ripiegamento soltanto religioso, nel senso di religione civile della fede: in questo senso sì.

Lei ha una lunga esperienza educativa e difende un’educazione basata sull’apertura dell’adulto che educa al proprio mistero e al mistero del giovane. Può spiegarci in cosa consiste quell’apertura?

Questa apertura è il tentativo di essere fedeli alla dinamica educativa come avvenimento. L’educazione non è un processo che si impara e poi si applica in automatico, ma è una dinamica in cui l’adulto e il ragazzo, chi educa e chi è educato, in qualche modo è continuamente alla scuola di una realtà che è più grande. Per questo, perché l’educazione sia davvero una continua introduzione a una realtà che è sempre più grande, alla totalità di questa realtà, che porta in sé il suo significato, occorre che il primo a essere continuamente in moto, continuamento in movimento, sia l’adulto.

Dunque, non serve ripetere la verità?

Come dicevano i Padri dei primi secoli, con le stesse affermazioni vere si possono dire anche le eresie. Il problema è l’ordine delle parole e chi si guarda mentre si dicono le parole.

Guardiamo il problema del disinteresse dei giovani: questa è la grandissima sfida e tantissimi dicono che non sanno cosa fare. Perché dobbiamo ripensare lo scopo della didattica?

Il problema non è trovare nuovi mezzi, perché ci sono mezzi che a noi sembrano nuovi, e poi i ragazzi li vedono e li sentono già vecchi. O anche adesso, c’è una totale differenza di gusti per cui una cosa a noi sembra attraente, ma a loro magari no. Per esempio, sono stato sulle montagne una volta, sulle Dolomiti, che per me sono bellissime, senza fiori, senza alberi, totalmente pura roccia, e i ragazzi mi hanno detto: «Che brutte, a me piacciono quelle verdi…».

Allora il problema non è trovare un mezzo che ci risolva tutto, ma che cosa tu guardi, e i ragazzi si rendono conto di questo: se tu sei mosso da una passione a loro, se tu sei mosso da una tensione al vero nei loro confronti. Questo ti farà trovare, ti farà essere sempre creativo nel modo di trovare mezzi più adeguati ma anche libero nell’abbandonare mezzi che si rivelano inadeguati. Quindi il disinteresse di fatto non lo vince un mezzo, ma lo vince vedere un soggetto pronto a dare la vita per te.

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