Ci hai cercati mentre non ti cercavamo, e ci hai cercati affinché ti cercassimo

Carrón · Julián Carrón
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26 noviembre 2025
Intervento di Julián Carrón in occasione di un Ritiro di Avvento a Milano.

Ogni anno, l’Avvento ci trova nel momento in cui ciascuno sta vivendo, perciò non è mai una ripetizione dell’anno precedente.

L’Avvento bussa alla porta del nostro io nel punto in cui è oggi. Perciò, questo tempo diventa l’occasione di uno sguardo pieno di tenerezza verso di noi: come sto io,ora? È l’opportunità di fermarci e guardare. In mezzo a tutta l’agitazione che ingombra spesso la vita, possiamo concederci un istante di tenerezza verso noi stessi.

Qual è la spia più evidente di come stiamo? Il nostro desiderio. Così come la nostalgia della persona amata è il termometro dell’amore. Cosa prevale in noi? Cosa sorprendiamo in noi quando ci fermiamo, quando abbiamo un istante di lucidità e di attenzione verso noi stessi? È facile scoprirlo, basta guardare il nostro cuore.

«Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore», dice Gesù nel Vangelo[1]. Il nostro cuore ci svela qual è il nostro tesoro. Ciò che più stimiamo rivela dov’è davvero orientato il nostro cuore. La nostra attenzione, i nostri pensieri e i nostri desideri si concentrano su ciò che consideriamo più prezioso. In sintesi, ciò a cui dedichiamo tempo, energie e preoccupazioni rivela la nostra vera essenza, il nostro «cuore».

L’Avvento è un momento per fermarci e guardarci dentro, per sorprenderci nel nostro vivere quotidiano e chiederci: dov’è il nostro cuore?

1.- Il grande pericolo del nostro tempo è che la banalità sia per noi sufficiente

 Viviamo in un tempo in cui l’uomo rischia di perdere non solo la fede o la ragione, ma innanzitutto il desiderio stesso: il gusto per l’infinito, la vibrazione di fronte al mistero, la nostalgia di qualcosa di più grande di sé. La banalità, oggi, è una forma di difesa, un modo per non sentire troppo e non lasciarsi ferire dalla realtà. Ma così facendo, l’uomo – ciascuno di noi – si impoverisce: diventa opaco e si accontenta del superficiale.

Lo vediamo quando ci imbattiamo in un testimone, come lo scrittore e monaco Van der Meer: «Nessuno ha la mia ansia, nessuno cerca una parola di salvezza: vivono in superficie, non sanno il tormento della nostalgia, non conoscono il desiderio delle cose grandi»[2]. Che nostalgia doveva assalirlo per poter dire così!

Il “grande pericolo” non è tanto il male – che può essere l’occasione per ripartire – quanto l’abitudine al solito, al mediocre, la rinuncia a quello che il cuore desidera, accontentandosi della banalità. Mi sorprende quanta gente si faccia bastare le piccole cose di cui si riempie la vita. Penso al recente dialogo con una persona che si stupiva di chi, al risveglio, sente tutto il dramma del vivere, mentre di sé diceva: «L’idea della mia incompletezza mi assale molto raramente».

Noi possiamo essere come tanti che vivono accomodati, spenti, accontentandosi di poco. E il vivere diventa piatto, insulso, incolore. «La vita è come se fosse una corrente cessata», dice don Giussani: «Pochi tra noi prendono iniziativa reale con le esigenze del proprio cuore. Così, in una umanità ritornata nel buio e nell’insoddisfazione, anche noi ci lasciamo invadere dalla riduzione della domanda del nostro io»[3].

Ma questo accontentarsi non è senza conseguenze. Lo vediamo nel disagio, nel malessere di sottofondo con cui scendiamo a compromessi, abituati a non guardarlo, come se fossimo convinti che “ormai la vita è così”. Occorre rassegnarsi, entro i limiti della natura – «finibus naturae contentus», diceva Cicerone –, farsi bastare la soddisfazione che si riesce a ottenere, entro i limiti della condizione naturale, ma riducendo il concetto di natura al suo limite, trascurando il desiderio sterminato che ci costituisce, che ci invita a cercare oltre il limite della nostra natura.

Henri De Lubac descriveva così questa «saggezza antica»: «Sappiamo rassegnarci all’irrimediabile. Per evitare una delusione crudele, […] contentiamoci di aderire con tutto il nostro essere alle cose “tali come sono”. Coltiviamo il nostro piccolo giardino»[4].

Ma poi aggiunge che, anche tra gli antichi, «la tentazione divina, tuttavia, rinasce sempre»[5].

2.- Ma perché non mi accontento?

 «Perché non mi accontento di quanto sta davanti a me, vero, palpabile, reale?», si chiede ancora Van der Meer: «Perché il mio spirito invoca l’Infinito, l’Eternità? Non riesco a immaginare la Fine, l’Infinito mi appare come un abisso di cui la mia pietra non toccherà mai il fondo. La ragione non capisce né l’una né l’altra cosa. È stupido cercare una risposta, si perde tempo. Ma perché, allora, questi problemi che mi assalgono furiosi come una tempesta?»[6].

Noi vediamo tanti segni del nostro non riuscire ad accontentarci, i segni di quella che Claudel chiamava la «scintilla organica di inquietudine […] inserita nel più profondo delle viscere dell’Umanità»[7]. Come dicono i versi folgoranti di Ungaretti: «Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / Perché bramo Dio?»[8].

Lo vediamo tra la gente più comune, ma anche in chi ha raggiunto un successo planetario. La cantante Taylor Swift, quando vince i Grammy Awards per la seconda volta di fila, racconta: «Era il massimo. La mia vita non era mai stata migliore. (…) E ricordo che dopo pensai: “Era tutto quello che volevi! Era tutto quello che volevi. Era quello per cui hai lavorato”. Arrivi in vetta e ti guardi intorno e dici: “Oddio! E adesso?”»[9].

Può capitare a ciascuno, come mi diceva una persona, di svegliarsi di notte sorprendendosi con questo pensiero, anche dopo aver raggiunto la vetta nel proprio lavoro: «E allora?».

Davanti a questa incapacità della persona di raggiungere la pienezza a cui aspira, «spesso – osserva acutamente Romano Guardini – la si svalorizza argomentando dalla sua fragilità, dato che il suo essere e potere concreto contraddice di continuo la sua pretesa… Si vuole da lei che rinunci alla propria pretesa e diventi semplice come una pianta e un animale. La persona si stanca perfino di sé stessa, sente l’oppressione della responsabilità per la insufficienza e per la cattiveria del suo essere e cerca di rinunciarvi disperdendosi in relazioni di sollievo. La sua propria determinazione l’annoia, ha fastidio di dover essere nient’altro che sé stessa, vuole uscire da sé travestendosi in figure riflesse, in maschere. Ha paura della sua solitudine e s’immerge nella comunione dissolvente della specie o della natura. Cerca di dimenticarsi, si getta nelle cose che passano, nel fiume dell’eterno nascere e morire. Si vende e si tradisce: nel piacere, nel lavoro fine a sé stesso, nel deteriore, nel male… E tuttavia si erge, enorme, la verità che “io sono io”. Dura, bella, terribile, creatrice di destino, radice di ogni responsabilità [questa è la nostra grandezza]. A tutto essa conferisce il suo splendore e la sua gravità»[10]. E finisce, dicendo: «Solo l’io può rinunciare all’io», a essere veramente sé stesso.

La nostra irriducibilità è la risorsa più potente che abbiamo per vivere l’Avvento. Nessuna decisione di accontentarci riesce a sottomettere la nostra natura alla rassegnazione. Non possiamo ridurre quello che siamo alla misura che vogliamo. Non è nelle nostre mani. La sproporzione è strutturale. Tutto sarebbe più facile se ci riuscissimo, ma il dato di come siamo fatti è testardo, si rivela più potente anche della nostra stessa testardaggine nel provare a ridurlo.

Questa è la vittoria dell’esperienza su qualsiasi nostro tentativo di sottometterla. Che saggezza riconoscere, come diceva Giussani, che la realtà si rende trasparente nell’esperienza! È lì, nell’esperienza di ciascuno di noi, che emerge con tutta la sua potenza la natura di quello che siamo, del nostro io. Che testimonianza impressionante ci danno coloro che ce lo ricordano!

«Nostalgia e speranza sembrano le ultime risorse del cuore umano», scrive María Zambrano, e «in entrambe si percepisce lo stesso fatto: il fatto che la vita umana è sentita dal suo protagonista come incompleta e frammentaria […]; cioè, fa riferimento a qualcosa che manca, non si dà mai come un tutto compiuto»[11].

«Essere qui è molto», ammette Rilke, e possiamo affermarlo anche noi, eppure sembra che tutto questo non basti: «Quest’essere stati terreni pare irrevocabile»[12].

L’uomo sperimenta la bellezza e, proprio per questo, sente nel profondo che “manca qualcosa”. Dice papa Leone: «È una situazione paradossale […]. Facciamo i conti con il nostro limite e, allo stesso tempo, con l’insopprimibile spinta a tentare di superarlo. Sentiamo nel profondo che ci manca sempre qualcosa»[13].

Ma la ragione ultima di questa mancanza non è che siamo fatti male, non è un difetto di fabbrica. Nessuno come sant’Agostino ha saputo sintetizzarla in modo più magistrale: «Tu [Dio] mostri in modo abbastanza evidente la grandezza che hai voluto attribuire alla creatura razionale; [perché] alla sua quiete beata non basta nulla che sia meno di Te»[14]. L’esperienza che niente ci basta che sia meno di Lui è proprio il segno più eclatante della nostra grandezza.

Questa irrequietezza, che spinge a cercare un significato oltre l’apparenza, oltre il limite solito, fa dire a un grande osservatore del nostro tempo, il filosofo canadese Charles Taylor:

«Tante persone si ritrovano in una situazione di grande solitudine e nel loro intimo nasce un profondo interrogativo: in che cosa credo veramente? Qual è il centro della mia vita? Per cosa desidero spendere la mia vita? Tanta gente fa molta fatica a rispondere a queste domande […]. Per cui oggi, in un contesto completamente diverso da quello delle epoche passate, l’esperienza religiosa viene a configurarsi anche come una forma di ricerca comune: la comparsa di “persone che ricercano”, di “cercatori di senso” (seekers[15].

Quando tutte le nostre strategie per ridurre il desiderio sono esaurite, resta il cuore che urge, irriducibile… in attesa.

3.- L’attesa

L’attesa è inestirpabile, anzi «inevitabile» scrive Giussani: «La situazione in cui viviamo – di negazione della presenza e di debolezza assoluta e di rinuncia alla ragione – lascia affettivamente intatta nell’uomo […] l’ambiguità malinconica dell’esperienza, come dice Adorno; l’uomo attende dalla verità delle cose […] che emerga, nonostante tutto, dentro l’apparenza, oltre essa, l’immagine della salvezza. […] L’attesa della salvezza è inevitabile»[16].

Possiamo riconoscerla o meno, ma non possiamo non sorprenderla nella nostra vita. Si manifesta in tanti modi e con tanti sintomi, e si attesta in noi senza che possiamo sopprimerla o cancellarla. È patetico negarlo.

Di fronte a questa tensione senza fine, però, l’uomo è tentato di difendersi. La sofferenza del desiderio può essere insopportabile, e allora nasce la tentazione dell’atarassia: l’ideale di una pace raggiunta al prezzo di eliminare il desiderio stesso. Nella visione buddista o stoica, il turbamento nasce dal volere, dall’attaccarsi alle cose, e la liberazione consiste nel non desiderare più nulla. La Seconda Nobile Verità del buddismo dice, infatti: «L’origine della sofferenza è il desiderio (tā)».

Ma è il fatto stesso di voler eliminare il desiderio, perché risulta insopportabile, a documentare che l’attesa resiste a qualsiasi tentativo di sopprimerla per rendere la vita più sopportabile.

Perché è inevitabile, prima o poi, fare in conti con questa attesa?

Ci viene in aiuto ancora Guardini, in questo ritratto della malinconia: «Troppo dolorosa è la malinconia e troppo a fondo spinge le sue radici nel nostro essere di uomini, perché la si debba abbandonare nelle mani degli psichiatri. Noi la riteniamo intimamente connessa con le profondità della nostra essenza umana»[17]. Anche la «noia» per lui è segno della nostra grandezza, quella noia che «può accompagnarsi, e si accompagna spesso, a una vita piuttosto  occupata»  e  che  ha  un  solo  significato:  «Nelle  cose, noi cerchiamo appassionatamente e dappertutto, alcunché che le cose non possiedono […]. Si cerca e ci si sforza […] di trovare in esse quel peso, quella serietà, quell’ardore e quella forza compiuta delle quali si ha sete: e non è possibile. Le cose sono finite. Tutto ciò che è finito, è difettoso. E il difetto costituisce una delusione per il cuore, che anela all’assoluto. La delusione si allarga, diviene il sentimento di un gran vuoto… Non c’è nulla per cui valga la pena di esistere»[18].

Ma «per conto mio», continua, «io credo che, di là da qualsivoglia considerazione medica e pedagogica, il suo significato [della malinconia] sta in questo, che è un indizio dell’esistenza dell’assoluto. L’infinito testimonia di sé, nel chiuso del cuore. […] La malinconia è il prezzo della nascita dell’eterno nell’uomo». È «l’inquietudine dell’uomo che avverte la vicinanza dell’infinito»[19].

Il desiderio non ci parla di un’assenza. Dice Lévinas: «Il desiderio non è mancanza di qualcosa, ma di qualcuno: dell’infinito» [20]. Il desiderio umano non si chiude mai: è apertura infinita all’Altro. Infatti, l’uomo «non può desiderare Dio», scrive Simone Weil, «senza che Dio stesso non si sia già fatto presente nell’attesa»[21]. La mancanza è la forma con cui Dio si rende percepibile.

Ma anche se quella inquietudine appartiene alla nostra natura, noi decidiamo sempre davanti ad essa. Non è mai un automatismo. Viktor Frankl, sopravvissuto ai campi di concentramento, dice: «All’uomo può essere tolto tutto, eccetto una cosa: l’ultima delle libertà umane – scegliere il proprio atteggiamento di fronte a ogni circostanza, scegliere la propria strada»[22] . Questo non ce lo può togliere nessuno, ma nemmeno ce lo può risparmiare.

In questa opzione, si gioca la nostra libertà. È una partita che si gioca dentro di noi. Nessuno può scaricarla su nessun altro. «Solo l’io può rinunciare all’io», ci ricordava Guardini.

E l’attesa non significa essere inermi, non fare nulla, è al contrario una “attività” profonda, che impegna tutto di noi, come dice Pavese: «Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettare niente che è terribile». Si tratta di prendere consapevolezza che il desiderio non è un errore da correggere, ma la traccia dell’infinito nell’uomo. Anzi, come chiarisce la Weil, «l’attesa è già partecipazione a ciò che si attende»[23].

La vita umana si rivela – per chi la vive con consapevolezza – come un cammino segnato dalla mancanza. Anche, e soprattutto, quando l’uomo raggiunge ciò che desidera, qualcosa in lui resta aperto, incompiuto. Questa mancanza non è un difetto, ma la traccia di una grandezza: il segno che il cuore umano è fatto per di più di ciò che il mondo può offrire. Per questo, il desiderio che nasce dalla mancanza è la forza più vera della vita, la risorsa più preziosa per celebrare l’Avvento. Esso si fa attesa, cioè disponibilità paziente e fiduciosa verso ciò che ancora non si vede, ma che si intuisce come necessario al proprio compimento.

4.- L’attesa e l’avvenimento del Natale

Spesso si contrappongono: incontro e ricerca, trovare e cercare, venuta e attesa.

Qual è il rapporto tra la venuta di Cristo e l’attesa? Con la Sua venuta il senso religioso è “superato”, si sente spesso dire. Se il Natale rappresenta il compimento dell’attesa, perché la Chiesa continua a celebrare l’Avvento? Senza approfondire questo paradosso, il tempo d’Avvento rischia di perdere il suo significato. Rimane solo un rito vuoto. Dal rischio che l’Avvento si riduca a un rito – da cui, in fondo, non ci aspettiamo nulla di significativo –, e dal rischio che il Natale sia solo un ricordo che non incide sul presente, non siamo affatto immuni.

Il Natale è effettivamente il compimento dell’attesa messianica dell’Antico Testamento: l’incarnazione segna il momento in cui Dio entra nella storia umana per rispondere all’attesa. In questo senso, l’attesa è compiuta: il Messia è venuto.

Tuttavia, la Chiesa continua a celebrare il Natale non solo perché ancora attende il compimento definitivo nella seconda venuta nella Gloria, ma anche perché nella liturgia cristiana fare memoria non è semplicemente ricordare un evento passato: è renderlo presente e parteciparne. Celebrare il Natale significa permettere a Cristo di “nascere” nuovamente, più profondamente, nei nostri cuori. Questo “nascere” non succede una volta per tutte, non è mai finito. Richiede sempre una nuova accoglienza, una conversione, una risposta nelle circostanze in cui mi trovo oggi. La celebrazione, ogni anno, è un invito a rinnovare questa risposta nel presente e a verificare quanto è reale la sua incidenza nel presente.

Il Natale celebra un compimento che continua a compiersi. E per continuare a compiersi oggi, in ciascuno di noi, occorre l’attesa. Senza attesa, il Natale diventa qualcosa di già saputo. Niente stupore. Solo formalismo.

Mi ha stupito il racconto di due amici che stavano per sposarsi. Prima della dichiarazione, in lui tutto era vivo, infuocato, per il riconoscimento del bene che lei è; la sua vita era investita da quella presenza che desiderava sposare. Poi si è dichiarato, con grande gioia. Ma, poco dopo – confessava quasi sorpreso – era come se tutto fosse “già saputo”. Persino la presenza della persona che più ci ha fatto sussultare, senza attesa, senza domanda, diventa abitudine, diventa “già saputo”, anche se l’abbiamo davanti.

Il rischio è anche nostro. Quest’anno. Ora.

Dunque, l’Avvento non è un formalismo in preparazione del Natale. L’attesa è cruciale perché il Natale non diventi un devoto ricordo. Perché il Natale accada come avvenimento nel presente occorre la mia e la tua attesa, oggi.

«Questo è l’inizio», diceva Giussani: «Una sensibilità verso la propria natura di uomo, la tua e la mia natura di uomo, e, perciò, quanto più uno sente le esigenze, i bisogni, gli interessi, le aspirazioni ideali di cui è tramata la fisionomia di ogni uomo, tanto più è alla ricerca di una strada che possa rispondere»[24].

Senza il dramma del nostro io sempre in atto, che urge una risposta, la celebrazione del Natale diventa un rito che non lascia traccia nella vita, oltre che il deserto alle spalle. Non succede nulla senza di noi, senza che abbiamo a cuore la nostra umanità.

Come possiamo evitare che sia il ripetersi di un rito, seppur sentito? Ci possono aiutare alcune riflessioni di sant’Agostino nelle Confessioni. Mi ha colpito la sua acutezza: rileva che l’uomo, «che si porta attorno la sua mortalità, che si porta attorno la prova del suo peccato; quest’uomo, però, piccola parte del tuo creato, vuole lodarti»[25]. Sant’Agostino, di cui conosciamo tutti la vicenda umana, quando scrive le Confessioni, dopo anni dalla sua conversione, si sorprende di trovarsi addosso il desiderio di lodare Dio. Per lui, questo desiderio non è affatto scontato, anzi è il punto di partenza.

Ma come può l’uomo desiderare di lodare Dio, se è così malmesso, così distratto, essendo mortale, peccatore?

La risposta di sant’Agostino non può essere più liberante per ciascuno di noi: «Sei Tu che lo ridesti a provare piacere nel lodarti [non a compiere un obbligo, un comandamento, ma

«a provare piacere nel lodarti»], perché «ci hai fatti per Te, e il nostro cuore è inquieto fino a quando non riposi in Te»[26]. La familiarità che aveva con la sua umanità lo porta a sorprendersi che Dio ci tenga così tanto a tirarlo fuori dalla dimenticanza, dal formalismo, a ridestarlo dal suo torpore, dalla sua abitudine, affinché possa provare piacere nel lodarlo, nell’amarlo.

Noi, poveracci, possiamo compiere un gesto non formale solo se Lui ridesta in noi il gusto di lodarlo, perché, essendo fatti per Lui, il nostro cuore può riposare solo in Lui.

Quanto più uno è ridestato dalla persona amata, tanto più prova piacere nello stare con lei, nel “riposarsi” nella sua presenza. Altrimenti, perfino il rapporto diventa soffocante. Il nostro cuore è stato fatto inquieto, desideroso, perché possa trovare la sua piena soddisfazione nel rapporto con Lui. Senza questo rapporto per cui il cuore è fatto, l’inquietudine non trova risposta. Perché il cuore è fatto perché Tu lo soddisfi, lo infiammi e lo renda raggiante. Questo è il “riposo” che intende sant’Agostino. Il riposo non va inteso, come spesso accade, quale cessazione del desiderio! «Tanto più gustiamo il mistero di Dio, tanto più ne siamo attratti, senza mai restare completamente saziati»[27] , ha detto Papa Leone di recente, riprendendo proprio il decimo Libro delle Confessioni: «Effondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace»[28] .

Una soddisfazione così corrispondente e desiderabile da non smettere di cercarla, proprio per il godimento che si sperimenta. Com’è diversa la vita cristiana quando è percepita così! Come dice Dante degli “occhi rilucenti” di Beatrice: «Piena di stupore e lieta l’anima mia gustava di quel cibo che, saziando di sé, di sé asseta»[29]. Più è la sazietà, più si ridesta la sete.

Cristo è entrato nella storia e nella nostra vita per ridestare questa ricerca di Lui, senza la quale noi non possiamo essere noi stessi.

Sant’Agostino, come sappiamo, ha attraversato tutto il travaglio del suo cammino umano, per questo lo rende nel modo più commovente: «Ci hai cercati mentre non ti cercavamo, e ci hai cercati affinché ti cercassimo»[30]. O ancora: «Cerchiamo con il desiderio di trovare, e troviamo con il desiderio di cercare ancora»[31]. E, alla fine delle Confessioni, dice: «Io ti invoco, mio Dio, misericordia mia, che mi hai fatto e non hai dimenticato chi ti ha dimenticato. Io ti invoco nella mia anima, che Tu prepari a riceverti con il desiderio che le ispiri».

È Lui che ci prepara a riceverlo nel Natale, suscitandoci il desiderio. Non basta, dunque, essere fatti, occorre che chi lo dimentica sia costantemente preparato a ricevere, di nuovo, Dio. Lui ci prepara a riconoscerlo, a riceverlo, ridestando il desiderio di Lui. Come è diverso l’Avvento, vissuto così, da un rito, solito, vuoto.

Agostino invoca Dio perché è stato «preceduto»: «Tu mi hai preceduto prima che io t’invocassi, insistendo sempre più, e con i più diversi appelli, affinché io da lontano ti ascoltassi, e mi voltassi, e invocassi Te che mi chiamavi […], poiché prima che io fossi Tu eri, e io non ero niente perché tu mi concedessi di esistere»[32].

Gesù non smette di cercarci – «insistendo sempre più, e con i più diversi appelli» – affinché possiamo cercarlo, ascoltarlo, voltarci, invocarlo. Il desiderio di invocarlo è già segno che Gesù è riuscito a ridestare, in chi lo ascolta, il desiderio di Lui.

Perciò non basta un ricordo del passato per muovere l’uomo nel presente. «Il cristianesimo», insiste Giussani, «essendo una Realtà presente, ha come strumento di conoscenza l’evidenza di una esperienza»[33]. È un’evidenza, e non un ricordo, perché è presente e ci ridesta. Così lo descrive, sempre Giussani: «Come è entrato nelle viscere, come ha iniziato il suo cammino sulla terra entrando nelle viscere di una donna, è nelle viscere del nostro riconoscimento, è nelle viscere del nostro amore che continua a essere presente “qui e ora”. […] Il Mistero fatto carne […] entra nell’esperienza come fattore dell’esperienza umana solita, […] nel rapporto con mia mamma, nel rapporto con questa ragazza, nel rapporto col mio amico, nel rapporto col mio nemico, nel rapporto con tutta la gente che mi scivola affianco per la strada quando vado a prendere la metropolitana, dentro, dentro l’esperienza che sto facendo […], dentro questo io Ti riconosco come la consistenza di tutto. Il Tuo volto è la consistenza di tutto! […] Ognuno di noi non riesce a sfuggire completamente al fatto che Cristo è amabile da noi esattamente così come siamo, più di qualsiasi altro essere di cui ci si innamori. […] Affermare una presenza è un amore. Osservare delle leggi è una routine, un’abitudine, una convenienza […]. È la differenza tra il moralismo e la rivoluzione morale cristiana, che nasce dall’incontro con una presenza da cui scaturisce un amore che, lasciandoti tale e quale, con tutti i tuoi sbagli, con tutti i tuoi errori, ti cambia»[34].

E come si vede che uno partecipa di questo avvenimento, dell’avvenimento di Cristo che celebriamo nel Natale? Dal desiderio che ha dentro di sé. Non ho trovato nulla che lo descriva in modo più geniale di questa frase di Nicolas Kabasilas: «Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso. Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo»[35].

Chi si rende conto del dinamismo che Cristo mette in moto non può non esultare, come quando don Giussani, consapevole di questo, dice: «Ragazzi, niente paura, niente paura! Niente paura di non riuscire, di non farcela. Come non ti sei fatto tu, così non ti compi da te: è un Altro che ti compie. Come si fa a vivere? È un Altro che ti ha fatto, è un Altro che ti desta all’essere. Istante per istante sei “di” un Altro! Perciò, niente paura di non riuscire, perché è un Altro che agisce in te». È talmente vero che «ti devi sottrarre a viva forza, devi rinnegare […], devi odiare il vero, e allora anche Lui si arresta sulla soglia della tua libertà. Niente paura di non riuscire, perché è un Altro […]. Quanto più passerà il tempo della tua vita, tanto più tu proverai la profondità dell’emozione di capire che è un Altro che ti fa, vale a dire l’emozione di ritornare bambino a trent’anni, a quarant’anni, a cinquant’anni […]. E niente paura […] di essere stravinto, di essere assorbito da un Altro, di essere vinto da un Altro. Niente paura, perché quello che l’Altro vuole e opera in te, il cambiamento che vuole operare è farti diventare te stesso»[36].

«Ci hai cercati mentre non ti cercavamo, e ci hai cercati affinché ti cercassimo». È così che diventiamo compagni di strada con tanti nostri contemporanei che sono in ricerca, i «cercatori di senso», di cui parla Taylor.

«La grandezza della fede cristiana, senza nessun paragone con qualsiasi altra posizione, è questa: Cristo ha risposto alla domanda umana. Perciò hanno un destino comune chi accetta la fede e la vive e chi, non avendo la fede, si annega dentro la domanda, si dispera nella domanda, soffre nella domanda»[37]. Che sensibilità occorre per sentirsi compagni di coloro che sono in ricerca e sentire loro come propri compagni.

Che cosa accade quando la Sua presenza, il Suo sguardo unico, irrompe nella vita?

«La prima conseguenza dell’affezione a Cristo è la scoperta dell’amore, della tenerezza verso sé stessi; lo stupore, l’ammirazione, la venerazione, il rispetto, l’amore a sé, a sé!», dice Giussani: «La prima conseguenza dell’affezione a Cristo è il ritorno a noi stessi [non dobbiamo scappare sempre, per cercare di sopportare la vita], l’amore e la stima, la venerazione e la tenerezza verso di sé, verso questo qualcosa che non è mio, ma da cui parte tutto, perché è me stesso: qualcosa che non faccio io, ma che fai Tu»[38].

Non abbiamo bisogno di distrarci, perché stare con noi stessi è insopportabile. Penso a un’amica che da tanti anni, ogni giorno, vive accanto al marito gravemente malato, prendendosi cura di lui. Raccontava di «fantasticare sempre» sulle cose che le piace fare e che non può fare, come per esempio andare all’estero. Succede che i nipoti le regalano un viaggio a Dubai, un posto che avrebbe amato moltissimo per la sua passione per l’architettura. Prima della partenza, tutti la incoraggiano: «Ne hai diritto, ti fa bene staccare, distraiti!». Lei racconta: «Più me lo dicevano e più mi dava fastidio, per cui sono partita con un desiderio grande, proprio di non distrarmi, ma di esserci con tutta l’urgenza che ho ogni mattina. Questo mi ha reso attenta, mi ha permesso di non perdere niente dell’impatto con la realtà. E di godermi tutta la grandezza che ho visto. È stato importante accorgermi – per una volta non nella fatica quotidiana, ma in un momento di assoluta bellezza – che il vero gusto per me è il rapporto tra la realtà e la mia umanità, non distratta, ma spalancata nell’urgenza di significato».

Lei ha potuto verificare che il problema del vivere emerge ancora più potente quando il “sogno” si realizza, perché lì vediamo se il “sogno” è in grado di rispondere a tutta l’esigenza che abbiamo. È significativo che “distraendoci” non possiamo godere nemmeno della bellezza! Possiamo goderne solo se ci siamo con tutti noi stessi, con tutta la nostra urgenza di pienezza.

Ricordo un giorno, ci trovavamo in Toscana, in un posto spettacolare, davanti a un panorama mozzafiato. Una persona dice: «Dopo un po’, anche questo mi stufa… Perché?». Perché persino il panorama mozzafiato, senza di Te, non basta. Se ciascuno non fa la verifica di questo, il Tu è un ornamento “religioso”, per i momenti di “devozione”. E di Te, Signore, mi ricordo solo quando ci sono i problemi. No! È proprio quando sembra esserci tutto che sentiamo di più che tutto è troppo poco. Perché niente basta che sia meno di Te. Il Tu non è un ornamento. È l’Unico che può riempire questa esigenza.

Tutto – il panorama mozzafiato, il viaggio dei sogni – ci rimanda all’Unico che può soddisfare. Non è un volontarismo, non è stringere i denti, né autoconvincerci, non è nulla che vada oltre le nostre forze. È, semplicemente, un riconoscimento. Il riconoscimento di

Te che mi stai facendo adesso e che – proprio perché sei presente – stai risvegliando costantemente la mia urgenza, come a chiedermi: ma non ti manco Io in ogni cosa che gusti?

Senza questo Tu, qualsiasi cosa viviamo è troppo poco. Tutto dipende dall’essere leali con l’esigenza che vediamo affiorare dal profondo del nostro essere nell’esperienza.

Solo chi la asseconda può essere invaso dalla gratitudine: che grazia, Cristo, che tu ci sia! Solo per questa gioia potremo essere un contributo per tutti, per il mondo, perché è quello che tanti stanno cercando a tentoni.

È per questo sguardo, che ci ha raggiunti, che possiamo guardarci con così tanta tenerezza da coincidere con noi stessi. Senza scappare. Fuori dal riconoscimento della Sua presenza presente non c’è possibilità di unità dell’io, quindi non c’è salvezza, non è possibile l’esperienza di pienezza e di pace.

È il compimento di quello che dice il profeta Isaia, a cui la Chiesa ci rimanda nel tempo d’Avvento: «Ecco, io faccio una cosa nuova: non ve ne accorgete?»[39].

C’è chi si accorge di questa novità e mi scrive stupito: «L’esperienza della pienezza non è lo step successivo a qualcosa. Non è che prima vivo la tristezza e poi la consolazione, non è che prima vivo il malessere e poi la pienezza. L’esperienza che faccio è che non vorrei mai vivere una vita senza sentire l’umano, perché è lì dentro che sorprendo Chi mi riempie, non Chi mi riempirà. È un’esperienza presente! Da diverse mattine il primissimo pensiero quando apro gli occhi è: “Tu mi stai facendo ora”. Sembra niente, ma tutto cambia. Dare spazio a questo riempie la mia autocoscienza del rapporto che mi costituisce. E questo che vivo posso solo testimoniarlo vivendo».

«È lì dentro la mia esperienza che sorprendo Chi mi riempie». Cristo svela “chi è” non con un discorso, non con delle parole, ma dentro ciascuno di noi, per la pienezza con cui ci riempie, come la persona amata. E il segno più palese che è presente, qui e ora, è il desiderio di Te, Cristo! Il desidero di non andar via da Te!

«Il cristianesimo, essendo una Realtà presente, ha come strumento di conoscenza l’evidenza di una esperienza». È questa evidenza dell’esperienza che può toglierci la paura di non farcela: «Niente paura di non riuscire, di non farcela. Come non ti sei fatto tu, così non ti compi da te: è un Altro che ti compie». Ma ancor di più: «Quanto più passerà il tempo della tua vita, tanto più tu proverai la profondità dell’emozione di capire che è un Altro che ti fa, vale a dire l’emozione di ritornare bambino a trent’anni, a quarant’anni, a cinquant’anni». Come non rimanere stupiti davanti all’avverarsi di quello che dice l’Apocalisse: «Io faccio nuove tutte le cose»![40].

È questa la modalità con cui Lui ci raggiunge oggi, per rispondere al nostro desiderio di pienezza e per ridestarci il desiderio del Natale. «Ci hai cercati mentre non ti cercavamo, e ci hai cercati affinché ti cercassimo».

Una persona incontra un’amica che non vedeva da tempo, ne resta talmente affascinata che le esplode il desiderio di stare con lei, per seguire quello che lei guarda: «Mi è venuta questa nostalgia [della vita che vedeva vibrare nell’amica], questa mancanza di vivere sempre così: sono invidiosa, in modo bello, perché anch’io vorrei sempre avere quel cuore libero e puro, per andare dietro al mio desiderio senza raccontarmela. A volte accade e mi fa proprio sentire libera, amata per quel che sono. Altre volte, dai, ce la raccontiamo! Quindi, bisogna avere sempre vicino degli amici veri, come sei stata tu nel propormi questo spettacolo. Anche se non ci vedevamo da un anno, non me ne fregava niente! Sei stata più vera tu e più amica tu di tante persone che ho qua attorno. Sei andata dritta a sfidarmi nella mia libertà. Quindi, ti ringrazio, perché quello che ho visto mi ha fatto rimescolare le carte, sono uscita da lì con un nuovo lavoro dentro di me da fare e da guardare».

È questo che fa sorgere, in chi è stato raggiunto dalla presenza di Cristo, il grido: «Vieni, Signore Gesù» nel tempo d’Avvento.

Lui ci mette davanti persone afferrate da Lui, per ridestare di nuovo in noi il desiderio della Sua presenza. Non perdiamoci questa possibilità.

 

Troppo perde il tempo chi ben non t’ama, dolc’amor Jesù sovr’ogni amore.

Amor, chi t’ama non sta ozïoso [non è la cancellazione del desiderio], tanto li par dolze de Te gustare;

ma tuttasor vive desideroso como te possa stretto più amare;

ché tanto sta per te lo cor gioioso: chi non sentisse, no ’l saprie parlare

quant’è dolz’a gustare lo tuo savore[41].

 

Assemblea

Intervento. Ho una domanda che mi rode da tempo. Mi succede sempre più spesso di provare una profonda gioia, non perché la vita vada come vorrei, perché niente va come vorrei, ma perché, come dicevi prima, nell’irrequietezza – io la chiamo irrequietezza la mia, più che attesa – è come se riconoscessi il mio desiderio di Cristo. E questo mi rende felice, perché è come se vivessi la certezza che Lui c’è.

Carrón. Perfetto.

Intervento. Ma mi viene un dubbio, probabilmente dovuto alla mentalità che ci circonda, e mi dico: “È troppo forte questa gioia! Forse è sentimentalismo”. E io non voglio essere sentimentale. Anzi, lo trovo molto pericoloso. Di solito, chi è sentimentale è anche cinico, ed è una cosa che non tollero. Percependo la profondità e la grandezza di questo mio sentimento di gioia, mi assaliva questo dubbio. Ma la lezione di questa mattina è come se mi dicesse: “No, non è sentimentalismo, è che tu sei grata a Dio perché c’è, nonostante le cose non vadano sempre come vorresti, ma Lui c’è”. Volevo dirlo, perché il ritiro di oggi mi ha tolto questo dubbio. Un po’ ci si vergogna di essere così felici, di provare troppa felicità. È come se dovessimo essere un po’ immusoniti con la vita, un po’ arrabbiati con la vita; quindi, a volte ti senti fuori luogo… Non so se mi sono spiegata.

Carrón. Assolutamente. Mi sembra una domanda bellissima, perché, come vedete, anche di fronte a un’esperienza così stupefacente di pienezza, può venire il dubbio. Occorre, quindi, guardarla in faccia per non soccombere alla tentazione di interpretarla semplicemente come sentimentalismo. La vera questione è se, guardando in faccia questa pienezza, posso ridurla a “sentimento”. Se questa pienezza può essere interpretata come qualcosa che produco io e non come il segno più evidente – essendo talmente al di là della mia capacità di destarmela – di un Altro più grande di me, del fatto che Cristo ci supera da tutte le parti. Pensiamo ai Vangeli: quante volte i discepoli rimanevano stupiti. Mi viene in mente spesso l’episodio della pesca miracolosa. Pietro e i suoi compagni, pescatori esperti, hanno sprecato tutta la notte senza prendere niente, ma arriva uno che dice: «Gettate le reti». E loro: «Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getteremo le reti». Lasciano aperta la possibilità, perché Lui li aveva già sorpresi tante altre volte. E succede l’imprevisto, oltre ogni immaginazione. Allora Pietro si inginocchia davanti a Gesù: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». Sente tutta la distanza. Ma la sente proprio perché non può ridurre quella esperienza a un sentimento! È un altro che ha fatto quello di cui lui ha il riverbero, anche sentimentale, ma ciò non significa che la pesca non sia accaduta: è accaduta e l’ha generata uno che aveva davanti a sé, tanto da inginocchiarsi. Perciò, se non affrontiamo le domande che ci vengono, come la tua, ci rimane sempre un dubbio, come un “virus” che ci fa dubitare di qualsiasi cosa bella vediamo nella vita, perché ci supera da ogni parte. Non è possibile spiegarlo semplicemente con una “attività” umana. Questo, a mio avviso, è quello che rende possibile conoscere chi è Cristo. Perché Cristo si manifesta proprio, come dice Giussani, nell’«evidenza di un’esperienza» che non possiamo generare noi! Qualsiasi altra immagine di Cristo o pensiero su Cristo che non sia «l’evidenza di un’esperienza», non è Cristo. È una riduzione di Cristo. Perché quando Cristo appare, quando si svela con tutta la Sua bellezza, la Sua attrattiva e con tutta la Sua potenza, prende tutto di noi! Questo è Cristo. Tutto il resto non è Lui, ma i nostri pensieri o le nostre riduzioni; solo attraverso «l’evidenza di un’esperienza» Lui ci comunica chi è. Per questo è entrato nella storia. Qualsiasi altra cosa è riduttiva di Cristo. Invece, noi Lo riconosciamo perché nella nostra esperienza, dentro la nostra esperienza, troviamo qualcosa di unico, che non possiamo negare. Dovremmo rinunciare all’esperienza che facciamo! Non dovremmo credere neanche alla nostra esperienza! È impressionante. Eppure, neanche provando a strapparcelo di dosso, possiamo cancellarlo. Cristo è questa oggettività, che si impone quasi malgrado noi stessi. Questo è il Natale.

Intervento. Un mese fa, nel posto dove lavoro, mi hanno sfrattata. Non è una cosa gravissima, ma è grave perché io, lì, avevo costruito tutto, avevo rifatto i mobili, tutto… Da quando è successa questa cosa, mi sono sorte tante domande che non avevo. Quella sostanziale è: cosa costruisce veramente il mondo? Sono rimasta così male! Come dicevi prima, uno costruisce il suo «piccolo giardino» nella vita. Io mi ero costruita il mio giardino, mi trovavo benissimo, poi è arrivato un signore, si è appoggiato alla parete e mi ha detto: «No, tu da qui devi andartene». Adesso mi scopro con delle domande che prima non avevo: cosa costruisce veramente un posto di lavoro? Perché ho fatto tutto questo?

Carrón. E dove vedi che cosa costruisce? Dove lo vedi, adesso, in questa esperienza che hai vissuto? Se vedi che, malgrado quello che ti hanno fatto, il tuo io resiste, il tuo io è “costruito” e non è annichilito dal male. Se Lui vince in te, se non ti lasci trascinare nella spirale della violenza contro l’altro, allora stai davvero costruendo il mondo! Non lo costruiamo quando le cose succedono secondo i nostri pensieri, ma anche quando succede una prova, come questa, e tu puoi non essere sconfitta, perché c’è qualcuno che ti rende sempre più te stessa. Cristo ha costruito il mondo con la sua morte o no? Mi sembra che qualche frutto lo vediamo… Quindi, Lui può costruire il mondo anche in un modo assolutamente paradossale, come nel permettere a chi ti incontra di vedere che non sei determinata da questa situazione. E quindi, attraverso di te, continua da capo a costruire il mondo, non sai dove e come. La sconfitta più grande, sai quale sarebbe? Che fossi sconfitta tu. Questa sarebbe veramente la sconfitta più grande. Se, invece, non sei sconfitta neanche dal male, vuol dire che Cristo ricostruisce te per continuare a costruire il mondo.

Intervento. Sconfitta in cosa?

Carrón. Sconfitta nel senso di essere talmente delusa da non riuscire più a riprenderti dalla ferita. O se, invece, per la Presenza che hai incontrato, per Lui, puoi ricominciare da capo, puoi respirare, perché non dipendi più dal male che ti è stato fatto, perché c’è una potenza più grande che ti libera dal male e ti rende piena della Sua presenza. Questo è ciò che ricostruisce il mondo, adesso, in mezzo al male. Noi pensiamo di poterlo costruire solo in una situazione idilliaca. No, lo costruiamo proprio dove e come siamo. Guardiamo Gesù: non ha costruito il Suo regno in un mondo ideale. A Lui non è stato risparmiato nulla, nemmeno la morte. Quindi, c’è una modalità di costruire che non è secondo la nostra immagine, per cui non appena siamo messi alla prova da quello che ci succede mettiamo in dubbio la nostra capacità di costruire. Invece, è come se Cristo volesse dirti: “Carissima, anche qui ti posso mostrare la mia vittoria, non lasciando che tu sia distrutta, facendo risplendere la mia vittoria in te – non altrove, non negli altri, ma in te –, per costruire il mondo”. Grazie.

Intervento. Nella vita c’è l’esperienza di una corrispondenza eccezionale. Poi, però, è come se io volessi che il desiderio trovasse sempre quella risposta eccezionale, magari anche nella stessa forma. È come se mi attaccassi. Invece, tu continui a “strapparci”, a farci andare avanti, come se tutto fosse ancora sempre nuovo e da scoprire.

Carrón. È così.

Intervento. Questo mi affascina molto, ma come si può stare di fronte a questa diversità e novità, sempre possibili, quando si vorrebbe rimanere attaccati al posto dove Lo si è visto? Carrón. Perché la nostra speranza non può essere riposta in qualche strategia che ci inventiamo noi. Per questo dico che leggere sant’Agostino è liberante! Perché è Lui stesso che ci ridesta la voglia, tutto il desiderio di Lui. Così che, anche quando veniamo meno, possiamo sempre ricominciare. Leggere questi testi, per me, è stata una vera provocazione, perché il protagonista della storia è Lui! E non ci ripete delle mere regole a cui dobbiamo stare, peraltro riconoscendo costantemente di non riuscire… No, Lui vuole ridestarci la voglia di Lui! Farci gustare la Sua presenza in modo tale che, anche se continuiamo a sbagliare, a zoppicare e cadere, ci sentiamo spinti a desiderare di tornare da Lui, come Pietro. Senza questo, ripiombiamo sempre in un mondo ideale che non esiste, in un “io” ideale che non esiste. Sant’Agostino ha percorso un cammino talmente umano, così simile al nostro, da aver afferrato il punto cruciale: si è reso conto che, se non è Lui a “precederci” costantemente, se non è Lui a ridestarci sempre di nuovo il gusto, non basta che ci ricordiamo i comandamenti; questo lo fanno tutti: ti ripetono la regola, la cosa giusta da fare. Ma la questione è: chi ti ridesta la voglia, chi ti ridesta il gusto, il desiderio di Lui? Nel tempo, questa esperienza ti darà anche l’energia per aderire, ti sorprenderai a vivere la regola, il comandamento, non come un’“etica”, ma come frutto di una passione, di un’affezione a Lui.

 

[1] Mt 6,19-21.

[2]  P. Van der Meer, Diario di un convertito, Paoline, Milano 1967, p. 150.

[3] L. Giussani, Saluto agli Esercizi spirituali dei Memores Domini, 6 agosto 1998.

[4] H. de Lubac, Il Mistero del Soprannaturale, Jaca Book, Milano 2017, p. 176.

[5] Ivi, p. 177.

[6] P. Van der Meer, Diario di un convertito, op. cit., p. 37.

[7] P. Claudel, L’esprit de prophétie, in J’aime la Bible, 1955, cit. in H. de Lubac, Il Mistero del Soprannaturale, op. cit., p. 179.

[8] Cfr. G. Ungaretti, da Dannazione in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2016.

[9] Dal docufilm di Lana Wilson, Taylor Swift: Miss Americana, 2020.

[10] Cfr. R. Guardini, Mondo e persona. Saggio di antropologia cristiana, Morcelliana, 2022.

[11] M. Zambrano, L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, 2001, p. 280.

[12] R. M. Rilke, dalla nona Elegia in Elegie duinesi, Einaudi, Torino 1978.

[13] Leone XIV, Udienza generale, Piazza San Pietro, 15 ottobre 2025.

[14] Agostino, Confessioni, XIII, Sei 1992, p. 453.

[15] C. Taylor, Questioni di senso nell’età secolare, Mimesis, 2023, p. 34.

[16] L. Giussani, In cammino (1992-1998), BUR Rizzoli, Milano 2014, p. 44.

[17] R. Guardini, Ritratto della malinconia, Morcelliana, Brescia 1993, p. 13.

[18] Ivi, p. 38.

[19] Ivi, pp. 67-69.

[20] Cfr. E. Lévinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 2010.

[21] Cfr. S. Weil, Attesa di Dio, Adelphi, 2024.

[22] Cfr. V. Frankl, Alla ricerca di un significato della vita, Mursia, 2012.

[23] Cfr. S. Weil, Attesa di Dio, op. cit.

[24] L. Giussani, Incontro con Gioventù Studentesca, Varigotti, 1963.

[25] Agostino, Confessioni, 1,1.5.

[26] Ibidem.

[27] Leone XIV, Udienza generale, Piazza San Pietro, 15 ottobre 2025

[28] Agostino, Confessioni, X, 27,38.

[29] Dante, Purgatorio, XXXI, vv. 127-129.

[30] Agostino, Confessioni, XI, 2, 4.

[31] Agostino, La Trinità, IX, 1.

[32] Agostino, Confessioni, XIII, 1, 1.

[33] L. Giussani, Avvenimento di libertà, Marietti 1820, Genova 2002, p. 190.

[34] L. Giussani, La virtù dell’amicizia o: dell’amicizia di Cristo, «Parola tra noi», in Tracce n. 4/1996, p. II.

[35] N. Kabasilas in J. Ratzinger, La bellezza, la Chiesa, Itaca, Castel Bolognese 2005, pp. 15-16.

[36]  L. Giussani, L’incontro che accende la speranza, LEV, Città del Vaticano 2025, pp. 126-127.

[37] L. Giussani, L’autocoscienza del cosmo, BUR, Milano 2000, p. 164.

[38] L. Giussani, Una strana compagnia, BUR, Milano 2017, pp. 248 e 252.

[39] Is 43,19.

[40] Ap 21,5.

[41] Laudario di Cortona, sec. XIII.

 

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Suggerimenti di lettura: Si rivela nell’esperienza

 

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