Abitare il nostro tempo

Carrón · IGNACIO CARBAJOSA
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7 junio 2024
Di recente, Papa Francesco ci ha incoraggiato ad “abitare il nostro tempo”, un’altra espressione felice per invitarci a verificare la proposta cristiana aldilà dei muri protetti delle nostre chiese. Proprio questa espressione dà titolo al libro appena pubblicato da Rizzoli "Abitare il nostro tempo. Vivere senza paura nell’età dell’incertezza".

«Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Questa drammatica domanda di Cristo riecheggia in tutte le generazioni da quando fu pronunciata duemila anni fa. Il mondo in cui Cristo è entrato con una parola salvatrice cambia continuamente di forma e ogni cambiamento è una sfida per la fede e per il popolo di Dio che la porta nella storia: sarà ancora la fede un avvenimento nuovo, attraente, salvatore, nel mondo che cambia? O piuttosto sarà trascinata con le strutture caduche a cui si è legata? Questo dramma si è riproposto continuamente nella storia: con l’avvento della pace Costantiniana, nel secolo IV, con la caduta dell’Impero Romano, un secolo dopo, con la costruzione di una civiltà cattolica, durante il Medioevo, con l’avvenimento dell’epoca moderna e il crollo dell’ideale cristiano, con la Riforma protestante, col modernismo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento…

È diventato ormai un luogo comune affermare che oggi siamo davanti a un cambiamento di epoca, caratterizzato dal crollo dell’evidenze che hanno sostenuto la nostra civiltà dai tempi dell’Illuminismo: valori e certezze condivise da tutti al di là di ideologie o religioni. Ancora una volta, la Chiesa si trova in un crocevia storico: la difesa di una civiltà che crolla, con i suoi (pur giusti) valori, o uno slancio di abbraccio ai desideri smarriti e alle ferite di uomini e donne del nuovo tempo che sorge.

Papa Francesco ha capito subito la sfida e ha coniato espressioni veramente efficaci per scuotere la libertà dei cristiani: ci ha chiamati ad essere una chiesa in uscita e a diventare un ospedale da campo in mezzo a questo mondo così carico di ferite. Non è detto che la Chiesa nelle sue istituzioni e i cattolici seguano di fatto il Papa in queste sue intuizioni (aldilà delle parole, sempre gonfiate nel linguaggio clericale); seguire in questo caso implica condividere un giudizio sul ruolo della Chiesa in questo frangente storico e, prima ancora, un giudizio chiaro su quello che viviamo. Lo stesso Papa ha denunciato la tentazione della Chiesa in questo tempo vertiginoso: chiudersi in sé stessa, in una sorte di auto occupazione, e diventare autoreferenziale.

Di recente, Papa Francesco ci ha incoraggiato ad “abitare il nostro tempo” (Udienza generale, 8 novembre 2023), un’altra espressione felice per invitarci a verificare la proposta cristiana aldilà dei muri protetti delle nostre chiese. Proprio questa espressione dà titolo al dialogo tra tre grandi protagonisti del nostro tempo, Julián Carrón, Charles Taylor e Rowan Williams, che è stato raccolto in un libro appena pubblicato da Rizzoli (Abitare il nostro tempo. Vivere senza paura nell’età dell’incertezza, a cura di Alessandra Gerolin).

Il primo degli interlocutori, Carrón, ha guidato il movimento cattolico Comunione e Liberazione proprio negli anni in cui il cambiamento di epoca emergeva e prendeva forma (2005-2021). Lui è stato uno dei primi a identificare il fenomeno e ad accettare la sfida che rappresentava per la fede. La sua opera La bellezza disarmata (2015) rimane uno delle analisi più lucidi sul tempo che abitiamo e sulle opportunità che questo tempo rappresenta per la fede.

Charles Taylor, da parte sua, è probabilmente la voce più autorevole per parlare del ruolo della religione negli stati moderni e del fenomeno della secolarizzazione o, come lui preferisce chiamarlo, dell’età secolare (capovolgendo la prospettiva confessionale del termine). Per ultimo, Rowan Williams, Arcivescovo di Canterbury dal 2002 al 2012, rappresenta nella chiesa anglicana quello che Papa Francesco ha rappresentato nella chiesa cattolica: una boccata d’aria fresca. In un paese, il Regno Unito, dove la religione rischia di diventare la cortigiana del potere, la personalità di Williams e il suo approccio nuovo ed originale alla fede nelle circostanze mutevoli ha permesso a tanti di riscoprire l’attrattiva del cristianesimo.

In un dialogo agile, intessuto di esperienze personali, i tre interlocutori passano in rassegna le grandi sfide del nostro tempo. Non hanno paura, anzi si direbbe che guardino con curiosità e “simpatia” quello che i grandi cambiamenti in corso rappresentano per la fede, oggi. Come esempio, basterebbe citare le parole di ogni interlocutore alla domanda finale: “Quale dovrebbe essere la nostra posizione di fronte alla secolarizzazione?”

Taylor parla di una epoca “esaltante”, di “un invito a crescere nella fede”, e “a penetrare in certe realtà in cui prima non riuscivamo a entrare adeguatamente” (135). Carrón parla di “opportunità” che “sta chiamando tutti a una consapevolezza più grande circa la natura dell’essere uomini” e “la vera natura del cristianesimo” (136). In modo paradossale, Williams raccoglie i contributi dei suoi interlocutori e sembra “superarli”, andando in realtà fino in fondo il loro senso: “Credo che vivere nell’età secolare sia una vocazione. È una chiamata di Dio e quindi è un dono. Se la consideriamo una sconfitta, pensiamo che ci sia una lotta il cui esito dipenderebbe esclusivamente da noi. Se la consideriamo solo una sfida, forse non comprendiamo appieno che è Dio che ci aspetta e si relaziona con noi attraverso questa situazione. Se la vediamo solo come un’opportunità, forse non la consideriamo come qualcosa di ‘dato’ per noi: quando, invece, ne parliamo come di una chiamata da parte di Dio, ci rendiamo conto che le circostanze di oggi sono un dono di Dio” (138).

Dietro questo sguardo positivo, c’è forse uno slancio volontaristico che rinuncia a un giudizio su quello che veramente le nuove circostanze portano con sé? Niente affatto. Il dialogo si apre proprio con un esercizio di giudizio su cosa sta succedendo oggi. Anzi, ogni posizione davanti al cambio d’epoca, che desideri essere durevole nel tempo, non può fare a meno di un giudizio che la sostenga. Una prima valutazione riguarda un aspetto positivo della fine di una epoca, quella della cristianità, che, di fatto, non esiste più. Secondo Taylor, viviamo “un momento in cui, contrariamente a quanto accadeva durante la cristianità, ciascuno ha la libertà di intraprendere una profonda ricerca spirituale” (18). In contrasto con le apparenti certezze di una epoca dominata dalla visione cristiana del mondo e della vita, “la crisi odierna”, dice Carrón, “sta facendo emergere paradossalmente in manera più chiara la nostra umanità”, anzi, le domande che ci assalgo nella crisi odierna, “fanno piazza pulita di tante convinzioni che spesso pensiamo di possedere in modo adeguato e ci introducono a nuove scoperte” (21).

In questo nuovo scenario, paradossalmente, il desiderio di una “compagnia” non si mortifica per il crollo della civiltà cristiana. Anzi, “oggi il fatto straordinario”, ribadisce Taylor, “è che individui diversi, in momenti diversi, sono afferrati dalla rivelazione cristiana e vogliono andare più a fondo, avvertendo subito un senso di affinità, un bisogno di relazione con altre persone per le quali sta avvenendo un percorso analogo, ma non necessariamente all’interno dell’ambito cristiano. A volte il cammino può avvenire anche in un contesto ateo” (31). Come accadeva ai discepoli di Gesù nei primi tempi, oggi si moltiplicano le possibilità di incontrare “compagni di strada al destino” (in parole di Carrón) tra le tante persone che, talvolta smarrite, cercano un significato per la loro vita.

Questo sguardo su quello che sta accadendo negli ultimi 15-20 anni non è certamente condiviso da tutti, neppure tra i cristiani. Taylor considera che sono da evitare due atteggiamenti che coinvolgono, rispettivamente “i cristiani molto conservatori” e “gli atei militanti”. Lasciamo a lui la parola perché la sua osservazione è molto acuta: “Entrambe le parti sono state ipnotizzate da una visione sbagliata. I credenti sostengono che, allontanandosi da una società cristiana, tutto andrà in malora perché le persone vivranno un’esistenza completamente priva di orientamento. Gli atei militanti vanno in giro a esultare: «evviva, evviva! Sempre più persone rifuggono dalla Chiesa. Questo significa che si stanno allontanando del tutto dalla religione». E nessuna delle due parti riesce a vedere lo straordinario cambiamento nel modo di concepirsi che stavo descrivendo prima. È un cambiamento che sta avvenendo in tantissime persone diverse tra loro, che si trovano ora a essere dei ‘cercatori’ spirituali” (51).

Perfino un uomo “di Chiesa”, como il vescovo Williams, afferma che “i cristiani corrono il pericolo di usare la tradizione come un’arma”. Essendo lui un uomo che ha dovuto sostenere e trasmettere la tradizione come parte del suo ministero, aggiunge: “voglio esprimere un senso di simpatia per il desiderio di recuperare la tradizione, ma intendo anche denunciare il rischio di renderla così autoreferenziale da non viverla più”.

Al cuore di questa posizione c’è il ruolo della libertà nella fede. Così lo afferma Taylor: “Dobbiamo imparare a vivere senza la cristianità e dobbiamo pensare a questo cambiamento non come alla perdita di un meraviglioso modo di esistere, ma piuttosto come al guadagno di un modo di esistere molto più sano, in cui possiamo di nuovo tornare al ruolo centrale della libertà” (58). Taylor certamente non parla a vanvera: lui stesso ha esperimentato sulla sua pelle il pericolo di una ricca tradizione cattolica, come quella della Chiesa del Québec, che è diventata “autoritaria” e “che impartiva comandi alla gente”, provocando negli anni Sessanta “una ribellione”, per cui “molte persone se ne andarono e non vollero più sentire parlare della Chiesa” (71).

Infatti, approfondisce Carrón, “la Chiesa ha fatto un lungo cammino per arrivare a riconoscere che non c’è altra possibilità di comunicare la verità se non quella che passa attraverso la libertà. Di conseguenza, si tratta di capire cosa può sfidare la libertà, il desiderio di pienezza e l’attesa che tutti abbiamo dentro” (59). Non solo il Canada, ma anche la Spagna ha esperimentato le conseguenze di una Chiesa troppo moralista e autoritaria, che dalla seconda metà del secolo XIX in poi ha “perso” prima il movimento operaio, poi la scienza, la cultura e finalmente, negli anni 60-70 del secolo scorso, i giovani.

Arrivati a questo punto è utile precisare, per non fraintendere il dialogo che ci offre questo libro, che gli interlocutori non pretendono di proporre o pregiudicare opzione politiche o soluzioni tecniche per i tanti problemi che il cambiamento radicale provoca nel nostro mondo. Quello che è in gioco, aldilà delle proposte che si devono rischiare sui problemi concreti, è se oggi è possibile che la proposta cristiana incontri, come duemila anni fa, il cuore smarrito e la sofferenza di tanta gente in questa età dell’incertezza. L’incontro di Gesù con la Samaritana o con il pubblicano Zacheo rimarranno per sempre come paradigmatici dell’abbraccio (trasformatore!) di Dio alla debolezza umana.

La stessa origine del dialogo tra Carrón, Taylor e Williams e una stupenda illustrazione della fecondità di quell’apertura che gli interlocutori richiamano. Nelle pagine centrali del libro (67-76), il teologo spagnolo, il filosofo canadese e il vescovo anglicano raccontano le vicende personali che hanno segnato la loro storia e che li hanno permesso di capire e accettare la sfida del cambio d’epoca. “Il rapporto tra di noi”, commenta Carrón, “è stato un fatto imprevisto. Alcune circostanze apparentemente casuali ci hanno fatto incontrare. La cosa più interessante è che, pur non essendoci frequentati molto, ci siamo trovati insieme, sperimentando una sintonia unica (…). L’esito delle nostre conversazioni è stato infatti sorprendere una sintonia che ha generato un’inevitabile simpatia tra di noi” (68).

Le parole di Carrón sembrano riecheggiare quelle di don Luigi Giussani nel 1980, proprio in una conversazione col drammaturgo Giovanni Testori, un dialogo certamente di “frontiera” per il suo tempo: “Io non riesco a trovare un altro indice di speranza se non il moltiplicarsi di queste persone che siano presenze. Il moltiplicarsi di queste persone; e una inevitabile simpatia […] fra queste persone”. È stato profetico don Giussani perché certamente questo dialogo a tre, fondato su una vicendevole simpatia, rappresenta una speranza per il nostro mondo. Possano moltiplicarsi questi rapporti e questi dialoghi!


Legge anche: Dieci anni per ricominciare


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